Sfascismo istituzionale, l’apologo di Menenio Agrippa e i capponi di Renzo

Cultura | 4 maggio 2020
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E’ dall’inizio dell’emergenza coronavirus – deflagrata come una guerra mondiale, la crisi di gran lunga più distruttiva dal 1945 – che “San” Sergio Mattarella predica coesione nazionale, unità, “leale collaborazione istituzionale”, equilibrio tra poteri e organi costituzionali centrali e territoriali, rapporti partitici dialettici sì ma che non scadano negli insulti senza limiti e negli accoltellamenti reciproci. Parole al vento quelle del Presidente della Repubblica. Rimasto solitario garante e custode “super partes” della Costituzione. Unico, vero punto di riferimento in carica per gli italiani. Fin troppo frastornati i cittadini italiani per le decine di migliaia di morti, le sofferenze, la consegna ai domiciliari nelle case, la lunga chiusura delle attività lavorative, la crisi economica, la disoccupazione, il ricorso crescente agli aiuti ed alle mense delle varie Caritas. Parole al vento quelle dell’inquilino del Quirinale in un agone politico che – dopo un timidissimo e subito silurato tentativo alcune settimane fa se non di remare nella stessa direzione quanto meno di smussare contrasti feroci, odio personale insanabile – è tornato al rettiliano scontro del “tutti contro tutti”. Regioni contro Stato; governatori delle Regioni di centrodestra accusati di protagonismo dai sindaci di centrosinistra dei loro comuni; partiti di centrodestra che sparano ad alzo zero sul governo – balbettante, perennemente diviso - e sulle formazioni che (si fa per dire) lo sorreggono; fuoco amico sull’esecutivo - già di suo traballante e pasticcione in diversi atti amministrativi - da formazioni che, in teoria, ne fanno parte. Nell’Italia alle prese con la tempesta del Covid-19 va in scena il peggio della babele politica.


Gli statisti e i nani politici

L’immaginate nella Gran Bretagna del 1940, bombardata dalle quotidiane incursioni aeree tedesche, quasi sul punto di capitolare, la stessa disunità d’intenti? L’immaginate nell’Italia che metteva insieme i cocci delle devastazioni causate da venti e passa anni di dittatura e da cinque anni di guerra totale, civile compresa, la stessa disunità d’intenti all’indomani del 1945? L’immaginate nell’Italia insanguinata dal terrorismo dell’ultradestra e dell’ultrasinistra nei cosiddetti “anni di piombo”, nel decenni ’70 fino ai primi anni del decennio seguente, la stessa disunità d’intenti? Beh, si dovrà pure ammettere che la differenza la faceva la presenza sulla scena politica di statisti che rispondevano al nome nel primo caso di Winston Churchill, nel secondo di Alcide De Gasperi, nel terzo di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Mentre ora siamo alle prese – assieme alla sfortuna del coronavirus piovutaci addosso – anche con quella di avere mandato a rappresentare gli italiani in Parlamento nani politici, professionisti dello sfascismo (per ricorrere ad un vocabolo coniato da Marco Pannella), mentecatti che venderebbero l’anima al diavolo pur di crescere nei sondaggi dello 0,1 per cento.

Intendiamoci, non confondiamo le nostre considerazioni con voglia di assembleari governi di unità nazionale o di governi di supertecnici salvatori della patria per indimostrata definizione. Dio ci guardi dai primi e – dopo l’esperienza di cui ancora paghiamo un salatissimo conto del governo Monti – anche dai secondi. No, in democrazia – alla quale, malgrado tutte le sue imperfezioni, nessuno è riuscito a trovare di meglio – il “tutti dentro” nella “stanza dei bottoni” (espressione questa inventata da Pietro Nenni) porta a nefaste corruttele, a nebulose aggregazioni, ad indeterminatezza nelle responsabilità. In democrazia deve esserci una parte che è maggioranza ed una parte che è opposizione, deve esserci una parte che governa e una che controlla. Controlla e redarguisce. Severamente e in modo arcigno quando occorre. Ma partiti di maggioranza e minoranza – sebbene diversissimi, sebbene agli antipodi come ideologie ed idee, formazione culturale e politica, difesa di interessi di settori della comunità nazionale – per i cittadini sono nient’altro che una ulteriore disgrazia della storia se hanno come finalità essenziale il loro riposizionamento, come bussola il loro zero virgola in più. Sono ulteriore disgrazia della storia se sparano a raffica scemenze che domani contraddicono quelle pronunciate oggi solo per rincorrere qualche secondo in più di ripetitiva visibilità nei servizi dei telegiornali. Dove, come i giocattoli caricati a molla di una volta, i loro esponenti ripetono macchiettisticamente dichiarazioni vuote. Sono una ulteriore disgrazia della storia se non hanno come stella polare il bene della Repubblica nella sua interezza geografica, sociale, economica.

E non è per caso che la gente - oltre ad essere angosciata per i propri guai personali, familiari, finanziari originati dalla pandemia - è frastornata dall’avvilente spettacolo divisivo che sta fornendo l’attuale classe politica italiana. E’ frastornata da tutti gli echi, i rimbombi, le grida, gli insulti, le sedute parlamentari puntualmente ridotte a bagarre, trasformate in indegne gazzarre. Un patetico teatrino di cui ormai siamo stanchi, che suona come insulto all’intelligenza ed alla pazienza di cittadini feriti. I quali ambirebbero ad intenti e risultati politici ben più costruttivi. Ad un più funzionale raccordo tra le istituzioni della Repubblica nella capitale e nei territori – possibilmente con meno leggi, decreti ed ordinanze che, oltre a giungere talvolta in ritardo, spesso si contraddicono, si smentiscono, si annullano a vicenda - in quest’ora di tragico disagio economico e sociale dal Brennero a Lampedusa.

Ecco perché crediamo che sia ineludibile dedicare due opportuni brani di due magistrali (quelli sì…) autori, lo storico latino Tito Livio e il nostro Alessandro Manzoni, ad alcuni precisi destinatari. Ai professionisti dello sfascismo istituzionale, ai miserabili perseguitori su ogni altro intento dello zero virgola nei sondaggi, agli indegni occupanti di lauti ruoli di leadership e potere in continuo riciclaggio di etichette partitiche e di schieramento pur di continuare a sguazzare a vita in quello che è ridotto a circo equestre della politica. Ed ancora: a tutti i capetti di partitini personali, ai cosiddetti “Governatori” di Regione convinti di essere potenti satrapi persiani a cui tutto è concesso o convinti di essere non meno potenti e poco controllati Vicerè nelle colonie dei furono imperi coloniali.


Il corpo sociale nella Roma repubblicana

Il primo brano è noto come “l’apologo di Menenio Agrippa”. Tito Livio lo riporta nel secondo libro della sua Storia di Roma “Ab Urbe condita”. Il contenuto presenta evidenti intenti di pacificazione sociale in chiave classista: tutte le classi, patrizi e plebei, contribuiscono al bene della Repubblica Romana in quanto sono tutte fondamentali per la sua esistenza. Noi vorremmo dedicarlo invece a certi governatori e politici (ma anche a sedicenti giornalisti e opinionisti…) del Nord e del Centro-Nord convinti che tutto il bene, l’ottimo, il meglio, la ricchezza, la bellezza siano concentrati nelle loro regioni e magari realizzati dalle loro amministrazioni e dalle loro politiche economiche. Mentre, al contrario, tutto il male, il pessimo, il peggio, la povertà, la bruttezza, l’inefficienza siano concentrati nella parte del paese da Roma in giù.

L’apologo di Menenio Agrippa altro non è che un breve discorso pronunciato nel 494 a.C. da Agrippa Menenio Lanato, senatore di rango consolare, ai plebei in rivolta che per protesta avevano abbandonato Roma e occupato il Monte Sacro, o più probabilmente il colle Aventino, per ottenere la parificazione dei diritti con i patrizi. Agrippa spiegò l'ordinamento sociale romano metaforicamente, paragonandolo ad un corpo umano nel quale, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, gli organi sopravvivono solo se collaborano. In caso contrario periscono. Vero è che se le braccia (il popolo) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (il senato) non riceverebbe cibo. Ma altrettanto evidente che in una situazione del genere ben presto tutto il corpo, braccia comprese, deperirebbe e morirebbe per mancanza di nutrimento.

«Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute.»

La morale? (perché un apologo ha un intento sempre pedagogico-moraleggiante): neppure il cervello più raffinato senza le parti meno nobili o più minuscole del corpo umano – fossero anche le piante dei piedi o l’intestino o il buco per defecare o l’unghia del V dito del piede – può sopravvivere. In quanto il corpo umano, come il corpo sociale di una nazione, è uno e uno solo.


Destinati a fare la fine di quei capponi

Il secondo brano, molto noto e sovente evocato come espressione proprio per la sua frase finale, è tratto dal terzo capitolo del romanzo “I Promessi Sposi”. Per il veto del prepotente signorotto don Rodrigo e per la codardia del curato don Abbondio il matrimonio di Renzo e Lucia è andato a monte. Nella modesta casa di quest’ultima sono di fronte, tramortiti, i due giovani e la madre di lei, Agnese. Rileggiamo con piacere la prosa inarrivabile di Manzoni:

Lucia si rimise a piangere: e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.

Sentite, figliuoli; date retta a me,” disse, dopo qualche momento, Agnese. “Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.”

Lo conosco di vista,” disse Renzo.

Bene,” continuò Agnese: “quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno”.

Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.

Anche in questo caso, pur non trattandosi di una favola di Fedro o di un apologo, c’è una morale. E la morale è che questa classe politica così tornacontista, inetta e litigiosa, continuandosi a beccare – stupidamente, violentemente, ciecamente – per difendere il suo spazietto nell’emiciclo parlamentare, la sua meschina rendita di posizione partitica, prima o poi farà la fine dei capponi di Renzo. Spennati e finiti a cuocere dentro una pentola o arrostiti sul fuoco. Finiranno spazzati via dalla micidiale crisi economica e sociale che da due mesi e per chissà quanti anni abbiamo iniziato ad attraversare. Alla quale stanno rispondendo con pervicace disunità d’intenti, con quel cieco livore che abbiamo definito del “tutti contro tutti”. Più ci si vuole salvare senza guardare al prossimo ed alle esigenze della collettività, e non solo a quelle di determinati strati sociali privilegiati, e più ci si perderà.

Un esempio concreto tra i tanti di questa miopia partitica? E’ bastato che nelle scorse settimane qualche isolatissimo politico pronunciasse – solo pronunciasse!... – con una timidezza da coniglio la parola “patrimoniale” (o, più che altro, un giro di parole per indicarla) che si è registrata una imperiosa, tacitante levata di scudi da parte di suoi colleghi molto legati a lobby politiche-economiche che avrebbero dovuto mettere mano al portafoglio. Ma non è quest’ora così grave il momento in cui coloro che abbiamo di più dobbiamo partecipare, perequativamente e proporzionalmente, allo sforzo per aggiungere miliardi di risorse finanziarie pubbliche da destinare a chi, nel giro di poche settimane, è finito senza lavoro, indigente, alla fame? Se non ora quando?

 di Pino Scorciapino

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