Senza soldi giornali meno liberi

Politica | 24 ottobre 2018
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Preservare fonti di informazione che ricerchino una rigorosa ricostruzione dei fatti resta l’unico argine alle fake news. Per questo i contributi pubblici ai giornali vanno mantenuti. Anche per evitare sospetti di censura da parte del governo.

Perché i contributi pubblici ai giornali

Tra i tagli annunciati dal governo nell’ambito della discussione sulla prossima legge di bilancio sono stati evocati anche quelli relativi ai contributi alla stampa, che ammontavano per il 2017 a circa 12 milioni di euro per le pubblicazioni di enti non a scopo di lucro e a 122 milioni di euro per le imprese editrici tradizionali, ancorché costituite in forma di cooperative giornalistiche, come richiesto dalla legge 250/1990.

Chi sono i beneficiari dei contributi? Nel primo gruppo, nel quale i contributi individuali – calcolati in base al numero di copie – rimangono nell’ordine di qualche decina di migliaia di euro, troviamo 108 pubblicazioni nella grande maggioranza dei casi legate alla Chiesa cattolica, tra cui quella più nota è il settimanale Famiglia Cristiana. Il secondo gruppo, invece, include 48 testate, alcune delle quali ben note al grande pubblico, quali Il Manifesto, Avvenire, Italia Oggi, Libero Quotidiano, oltre a numerose testate regionali o locali e a giornali rivolti alle minoranze linguistiche.

Le ragioni che stanno dietro il contributo pubblico sono da ascrivere ai tipici strumenti di sostegno del pluralismo, orientati a favorire una pluralità di fonti informative e culturali in modo che tutto lo spettro delle posizioni che costituiscono l’opinione pubblica venga adeguatamente coperto e rappresentato. Anche il contributo alle cooperative giornalistiche può ricondursi a questa motivazione nella misura in cui questa forma societaria consente di dar vita a iniziative che nascono dal basso e al di fuori dei grandi gruppi editoriali.

Queste ragioni permangono anche al giorno d’oggi, anche se spesso è stato sostenuto che la rete consente una diffusione capillare e molto più economica di quanto non avvenga con la stampa cartacea. All’osservazione tuttavia è facile opporre l’argomento secondo cui le attività giornalistiche interamente diffuse online non hanno ancora trovato, tranne rarissime eccezioni, un modello di business sostenibile, tanto più se pensiamo ai numeri relativamente contenuti di lettori a cui si rivolgono.

Cos’è oggi il pluralismo

Se le motivazioni persistono, è quindi lecito chiedersi per quali ragioni una manovra finanziaria avara di tagli abbia individuato nei contributi alla carta stampata uno dei suoi obiettivi. È fin troppo facile notare che le testate che più sarebbero colpite appartengono tutte, con l’eccezione del quotidiano economico Italia Oggi, a posizioni politiche che si oppongono al governo Conte o nel fronte della sinistra (Manifesto) o dell’area cattolica (Avvenire, Famiglia Cristiana) o nel centro destra (Libero).

Sarebbe quindi saggio per un governo che sta riscuotendo un consenso molto elevato non prestar fianco ad accuse di censura. E se realmente la difesa del pluralismo e il ruolo di “cane da guardia” che nei sistemi democratici è affidato al giornalismo sta a cuore alla maggioranza, come voglio credere, mi spingerei oltre il semplice mantenimento dei contributi pubblici a un insieme sostanzialmente ristretto di testate. Ponendomi la domanda se, nei profondi cambiamenti che la rete ha apportato al mondo dell’informazione, non sorgano problemi e preoccupazioni, oltre agli indubbi meriti di aver ridotto i costi per la pubblicazione di contenuti e di aver moltiplicato a dismisura le fonti di informazione e intrattenimento.

Una riflessione oggi sul tema del pluralismo non può esimersi dall’affrontare almeno due temi rilevanti. Il primo riguarda uno dei servizi che l’attività giornalistica produce e che genera importanti effetti nel funzionamento dei sistemi democratici, vale a dire il giornalismo d’inchiesta. Come un economista ben comprende, una attività che genera una esternalità positiva non viene sufficientemente remunerata dal mercato e quindi tende a essere offerta in misura insoddisfacente. Fuor di accademia, impegnare un gruppo di giornalisti per mesi nell’indagine accurata su un fatto richiede grandi risorse che, nei tempi d’oro del giornalismo, erano sussidiate con i ricchi proventi delle altre attività. Oggi l’erosione dei ricavi pubblicitari raccolti dai giornali, la caduta nella circolazione e la difficoltà di sostituire i ricavi da copie cartacee con ricavi da abbonamenti online rendono questa attività sempre più precaria. Affidata sempre più alle veline che escono dai collegi degli indagati o dalle procure. Dove si manifesta un fallimento del mercato, è il contributo pubblico che può intervenire per correggere questa distorsione. Esistono quindi ragioni per estendere, invece che eliminare, il contributo pubblico alla carta stampata al di là del perimetro ristretto degli attuali beneficiari.

Il secondo tema che oggi osserviamo riguarda uno degli aspetti più regressivi innescati dalla proliferazione di fonti di informazione facilitati dai bassissimi costi di entrata nella rete. Sono i fenomeni oramai ben conosciuti delle fake news e della parcellizzazione dell’opinione pubblica, costituita da miriadi di piccoli circoli che si confrontano solamente con altri utenti sulle stesse posizioni, in grado di trovare per ogni più bizzarra convinzione un sito che conferma, con tanto di dotta testimonianza di improbabili studiosi, le credenze più fantasiose.

Se siamo soliti considerare mercati frammentati con moltissime diverse varietà di prodotti come l’allocazione che dal punto di vista economico consente di servire al meglio i gusti e le preferenze eterogenee dei consumatori, così non è per i mercati dell’informazione. Dove la formazione dell’opinione pubblica vorrebbe l’esposizione anche a opinioni difformi e informazioni che siano in contrasto con le convinzioni stratificate dell’utente, in modo da farne un cittadino vigile e un attento controllore delle politiche pubbliche e dei governi. Era il ruolo che un tempo svolgevano i grandi giornali generalisti in mercati dell’informazione molto concentrati. Ed è quello che sta scomparendo sempre di più nel mondo “concorrenziale” della rete. Qui il finanziamento pubblico può fare poco. Ma preservare, anche con il contributo pubblico, una fonte di informazione che ricerchi in modo rigoroso la ricostruzione dei fatti, forse un panda in un mondo di voraci cavallette, resta l’unico argine alle fake news che oggi possiamo immaginare.(Info.lavoce)
 di Michele Polo

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