Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La
scheda va incollata. Uno sbaffo vermiglio può essere fatale. Fioccano
sulla stampa nazionale gli avvertimenti su come le donne si devono
comportare.
Senza distinzione di censo o di cultura, signore e
signorine, operaie e intellettuali sono attanagliate dall' ansia: la
comunista Clelia confessa «mi tremavano le mani, le gambe, le braccia»,
mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver avuto «voglia di
fuggire quando mi trovai in quella cabina di legno antico con in mano il
lapis e la scheda», e la romanziera Anna Banti era ossessionata dal
terrore di rendere nullo quel passo.
Non c' è da stupirsi: le
italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di
fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima
volta la scheda nell' urna. Si trattava di elezioni amministrative.
Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno
per la designazione dei membri dell' Assemblea Costituente e la
fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.
Nonostante i
diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica
non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di
massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide
De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del fe
bbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21
anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di
fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione.
Però, mentre riconoscevano quell' ambito diritto alle donne,
dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano
essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta sol o
nella primavera del 1946.
Il lamento di Togliatti Oggi che
festeggiamo i 70 anni da quello storico avvenimento che ci rese
cittadine a pieno titolo, è lecito dunque porsi la domanda: fu una
distrazione intenzionale e voluta oppure si trattava una specie di
lapsus freudiano su un voto femminile che preoccupava e intimoriva le
forze politiche che pure lo sostenevano? Adesso, dopo anni di studi e di
dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al
volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il
voto alle donne fu concesso quasi alla chetichella, al termine di un
affaticato Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i
collocamenti a riposo dei funzionari epurati. Non vi fu né una
discussione né alcuna eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo
la Grande guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra berci,
lazzi e rumori molesti (così registra il verbale di quella storica
seduta parlamentare), Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di
suffragio esteso al gentil sesso («le donne sono sufficienti per un'
ora di spasso ma non adatte a un calmo ed equilibrato lavoro»).
Due
settimane prima del decreto il liberale Manlio Lupinacci, con una specie
di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa
diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna
alla vita politica. È questa l' unica vera base di ogni opposizione di
noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della
ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne
pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti, e pure
la leader comunista Teresa Noce concordava. Il Migliore temeva di
turbare l' elettorato persino con la commistione dei sessi: propendeva
per liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna
non se ne fece niente.
Le paure della Dc Analoghe visioni agitavano i
democristiani, i quali presentivano un vantaggio della destra
conservatrice portato dalla scheda femminile. Per di più il voto alle
donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che
il comunista Concetto Marchesi sostenne che era prematuro pure parlarne,
considerato il basso reddito delle famiglie. Nemmeno le partigiane si
accesero di entu siasmo per l' agognata scheda: votare per le donne «è
una cosa normale, naturale», sottolineò Ada Gobetti e anche la
piemontese Marisa Ombra riscontrò dentro di sé «una flebile reazione»,
come qualcosa di dovuto. Tutti poi presagivano l' assenteismo femminile.
Era opinione comune che le massaie italiane, nelle domeniche stabilite
per legge, più che di recarsi alle cabine elettorali fossero desiderose
di attardarsi ai fornelli.
Si realizzarono queste paure condivise da
azionisti, esponenti dello Scudo crociato, della Falce e martello e
pure dai seguaci di Benedetto Croce? No, la partecipazione femminile
diede uno schiaffo alla politica e fu altissima, anzi molto più alta che
negli altri paesi europei: le votanti furono l' 89 per cento delle
aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell' elettorato.
L'
astensionismo femminile fu inferiore a quello maschile, sempre al
contrario di quel che avvenne in altri paesi del Vecchio Continente. Le
donne, poi, andarono alle urne più nei paesi piccoli che nelle grandi
città, in numero maggiore dei votanti maschi del Sud, e assicurarono la
loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che non alle
amministrative. Cancellando il pregiudizio di avere più a cuore gli
interessi di casa e bottega che non quelli del Paese.
Un successo
inatteso E le neoelette? Le candidate furono poche, dal momento che i
partiti faticavano ad accettare la presenza femminile - la Dc, per
esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e per
giunta molte liste delle elezioni amministrative erano state preparate
prima che fosse riconosciuta l' eleggibilità delle donne. Però la truppa
rosa fu più consistente del previsto e nella primavera del 1946
entrarono nei consigli comunali oltre duemila donne, mentre le
rappresentanti del gentil sesso alla Costituente furono 21 su 558
componenti, pari al 3,7 per cento dei deputati (9 per la Dc, 9 per il
Pci, 2 per il Psiup e 1 per l' Uomo Qualunque). Paradossalmente la
presenza femminile andò diminuendo nelle successive elezioni (una
tendenza che si riscontrò, per esempio, anche nei consigli comunali
piemontesi, dove le 64 elette del 1946 scesero a 47 cinque anni dopo).
Questi incredibili e inaspettati successi aprirono la strada a una
nuova considerazione femminile? Teresa Mattei, designata all' Assemblea
Costituente, fu assai festeggiata. I suoi meriti? «Era la più giovane,
venticinquenne, aveva molti bei riccioli bruni e due occhi vivi». Altro
che ingresso da cittadine nella sfera pubblica! Il voto sembrerà per
anni un regalo immeritato. Però le italiane imparano dalla loro stessa
storia.
Il 10 marzo 1946 sanano il lapsus originario andando in
massa a eleggere i loro beniamini/e e iniziano un lungo e, bisogna
dirlo, per tanti versi fortunato viaggio: nelle istituzioni, nella
mentalità, nel costume, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una
pezza a quella significativa distrazione.(La Stampa)
Sebben che siamo donne il voto ce l'abbiamo
Politica | 3 marzo 2016
di Mirella Serri
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