Scenari post moderni e testi classici nella rinascita del teatro catanese

Cultura | 14 gennaio 2019
Condividi su WhatsApp Twitter

Un apocalittico scenario post-industriale, fa da sfondo inquietante ad un’ipotetica città europea corrosa dal degrado economico, sociale e culturale. Ai confini daziari, “trans Tiberim”, lo “Zoo”, agglomerato fatiscente di reietti in fuga da guerre e regimi totalitari, mal visti, mal tollerati, sospettati di crimini mai commessi, su cui si scarica la rabbia repressa degli abitanti. Migliaia d’immigrati coatti, ammucchiati (non è difficile immaginarlo) in condizioni sub-umane. Assunto per poche settimane da un Istituto Comprensivo posto in un quartiere popolare a poca distanza dall’inferno dello “Zoo”, il giovane docente Albert alla sua prima “traumatica” esperienza, tiene un corso di recupero per sei studenti sospesi per motivi disciplinari. Una “scuola della violenza” in salsa italiana, La classe, intenso, “disturbante”, testo drammaturgico di Vincenzo Manna, in scena allo Stabile di Catania per l’attenta e scrupolosa regia di Giuseppe Marini, percorre l’inferno contemporaneo del disagio giovanile e le stridenti contraddizioni di quella che fino a pochi anni fa si credeva “società opulenta” in sviluppo verticale, squarciando di netto il rifugio ipocrita d’un occidente europeo cieco e sordo al dramma terrificante in atto poco oltre i suoi traballanti confini. Ma, paradossalmente, sarà proprio dal male estremo che forse - attraverso un “salvifico” concorso europeo sul tema “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto” - nascerà la speranza d’una vita migliore. Ottima performance del giovane (e meno giovane) team degli attori (Valentina Carli, Claudio Casadio, Cecilia D’Amico, Haroun Fall, Edoardo Frullini, Giulia Paoletti, Andrea Paolotti, Brenno Placido); produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri/Goldenat Production/Società per attori. Classica pochade francese, con le sue esilaranti entrate ed uscite, gli scambi d’identità, L’albergo del libero scambio di Georges Feydeau (al Teatro “Brancati” di Catania) conserva ancora - per l’eterno tema del tradimento (qui peraltro solo agognato e mai raggiunto) - una patina di goliardica freschezza che ne rende felicemente attuale il pirotecnico intreccio. Personaggi-caricature d’una borghesia crapulona s’intessono nella vorticosa girandola d’una scanzonata commedia umana, gradevolmente resa dalla regia in punta di penna di Sebastiano Tringali, coadiuvato da un team sperimentato di apprezzati attori etnei (Alessandra CacialliFilippo BrazzaventreLorenza Denaro, Dodo Gagliarde, Plinio MilazzoOlivia Spigarelli, Riccardo Maria Tarci, Sebastiano Tringali). Diverse le trasposizioni cinematografiche a partire dal muto (oltre ai film ispirati). L’ immortale albergo “Paradiso” resta nell’immaginario collettivo un simbolo, un po’ retrò, di ridanciane trasgressioni. Indovinate le spiritose musiche di Matteo Musumeci. Con Uno sguardo dal ponte, celeberrimo dramma di Arthur Miller, pietra miliare del teatro novecentesco, giunto “in trasferta” a Catania (teatro “Ambasciatori) onusto di premi (“Maschera d’oro 2018” ed altri riconoscimenti), il “Teatro Stabile di Mascalucia” supera coraggiosamente “l’invalicabile” (apparentemente) limite dell’appartenenza al mondo - talvolta ancor oggi in toto sprezzantemente considerato “minore” - dei “filodrammatici”, con una lezione di stile e di recitazione ed una regia attentamente contenuta di Rita Re, sempre vigile ed intenta a non debordare. Opportunamente riportato ad un uso più corretto e morigerato del vernacolo siciliano, consumato nel generale contesto dell’immigrazione clandestina, l’intimo dramma dello scaricatore di porto Eddie Carbone - morbosamente geloso (e segretamente innamorato) della nipote diciottenne - teso e magistralmente reso in crescendo dalla fitta scrittura drammaturgica di Miller, ha trovato nell’intensa, sardonica, sospettosa e a tratti violenta recitazione di Emanuele Puglia l’interprete ideale, in grado di non impallidire al ricordo delle magistrali interpretazioni dei “mostri sacri” del passato. Oltre Puglia, all’altezza del compito l’intera squadra attoriale: Andrea Luca, Egle Santonocito, Anna De Luca, Mario Rocca, Pietro Coco, Santo Palmeri, Lucio Gemmellaro. Di buon effetto, raro oggi a vedersi, la costruzione scenografica. Eros e thanatos. La torbida, lubrica, storia dei marchesi Casati, conclusasi nel 1970 con un duplice omicidio (quello della moglie del marchese e del suo amante) e del suicidio di Camillo Casati, riesumata (con significative varianti) dal giornalista catanese Mario Bruno, è adesso una pièce teatrale Orchidea nera, portata “temerariamente” in scena (alla “Sala Chaplin” di Catania) da una volitiva Elisa Franco, regista e protagonista, che presta la sua prorompente fisicità nei panni della moglie del nobiluomo milanese, Anna Fallarino. Il clamoroso caso - balzato agli onori della cronaca nera nazionale (Casati, impotente, godeva voyeuristicamente facendo accoppiare la donna con giovani uomini sconosciuti, fotografandola durante gli amplessi, a patto che da parte di lei non vi fosse alcun coinvolgimento sentimentale) - nella ricostruzione teatrale assegna alla Fallarino il ruolo di “vittima sacrificale” delle deviazioni mentali del marito, modificando la situazione reale e dunque assolvendo la donna con un atto di “purificazione” nel momento in cui, essendosi innamorata di uno dei suoi numerosi amanti, tradisce le “condizioni” imposte dal consorte. Accettando questo capovolgimento, Elisa Franco (ri)costruisce con convincente determinazione una diversa personalità di Anna, accentuandone in principio la subalternità (accettata, obtorto collo, anche a causa dei ricatti economici del marito), ma successivamente la liberatoria ribellione, stroncata dall’omicidio. Dirigendo con parsimonia Elisa Franco, oggetto-soggetto di piacere, valorizza la performance dell’intero cast (Maurizio Nicolosi, Alberto Abbadessa, Tony Gravagna, Viviana Toscano, Rosa Lao, Orazio Marletta, Luca Micci e Massimo Magnano), evitando scomposti protagonismi e confermando con autorevolezza il ruolo di Direttore artistico della compagnia “La Carrozza degli Artisti”. Preceduto da una dotta prolusione di Gianni Salvo, storica eccellenza registica catanese, il “Piccolo Teatro” ha portato in scena Il teatro del silenzio (dalla Bella Epoque al Cafè Chantant), compassata-frizzante regia dello stesso Salvo, ironica, spumeggiante, evocativa e nostalgica pièce (qua e la non esente da luoghi comuni) sull’epopea del cinema muto, scritta da Vito Molinari, rievocata attraverso due immaginarie “dive” (caratteristica fondante del cinema muto italiano), oggetto dell’incontenibile delirio dei fans e d’irraggiungibile desiderio. La prima, ormai vecchia, si narra (ella stessa sorpresa dal clamoroso successo) con sarcastica bonomìa, non celando invidie e trionfi, amori e “tesori” (gioielli) generosamente elargiti da incantati spasimanti, avvolta nel “mistero” (buffo) dell’inarrivabilità delle “divine” (sulle quali i primi registi costruivano tormentanti “diva-film”); la seconda, ancora frizzante e già allettata (ma solo per denaro) dal sonoro e dall’affermarsi della “rivista”, piroettando sul palcoscenico in trascinanti numeri di varietà alla “Mimì Tirabusciò” (alla quale chiaramente s’ispira, perfino concedendo la famosa “mossa), in contrapposizione alla prima, rovescia sul pubblico tutta la sua coinvolgente, ottimistica, effervescente e dirompente vitalità. Intervallata da spezzoni di celeberrimi film muti (“Cabiria”, “Rapsodia satanica”, “Il diario di una donna perduta”, “Nosferatu” e brevi sequenze di comiche con Harodol Lloyd e Charlie Chaplin), la strepitosa performance mimetica di Anna Passanisi - ora acciaccata e stanca, ora briosa e saltellante - (coadiuvata dal mimo Paolo Guagenti), ha incantato il pubblico del “Piccolo” per due ore, “stregato” da prova attoriale di livello superiore. Infine in scena al “Centro Zo” per “Teatro Mobile”, diretto da Francesca Ferro, Romanzo popolare, dramma contemporaneo della solitudine di due donne, in un mondo sempre più disumanizzato, che vive nel mito della televisione, ossessionante e pervasivo totem mediale contemporaneo. Interpreti: Francesca Ferro, Ilaria Maccarrone e Mario Opinato; regia di Luca Cicolella.

 di Franco La Magna

Ultimi articoli

« Articoli precedenti