Saper vedere Pasolini
Vedere “Pasolini” di Abel Ferrara in questi giorni di commemorazioni (soprattutto documentaristico-televisive) dei 40 anni della tragica scomparsa del poeta friulano ha l’effetto, per chi scrive, della fortuna. I film non vivono di vita propria, il loro essere e quindi dire è sempre legato al contesto, al momento della visione. Il film di Ferrara, nonostante il grande impegno di Willem Dafoe (fotogramma in alto) di assumere nell’interpretazione di Pasolini somiglianze assolute e persino impressionanti nei gesti, non è un biopic stile Marco Tullio Giordana, né somiglia a uno dei tanti documentari che vogliono dare letture più o meno “oggettive” della vita di un artista. E’, appunto fortunatamente, un’opera d’arte che parla di un uomo che tenta di stare al mondo. Tenta perché questo mondo non gli piace, non gli piace più. E’ diventato brutto, è abitato da uomini votati alla robotica consumistica del sé e in questo godono del pieno appoggio di un potere criminale asservito alla logica del possesso e della giungla, che ammette anche l’eliminazione fisica, e non solo in senso metaforico(vedi i fatti del Circeo) del più debole.
“Siamo tutti in pericolo”, come Pasolini suggerì di
titolare l’ultima intervista della sua vita, rilasciata al giornalista Furio
Colombo il giorno prima della sua morte. Ed è proprio raccontandoci le ultime
24 ore di vita dello scrittore-regista che il film di Abel Ferrara centra
magnificamente se non prodigiosamente l’obiettivo di regalarci un’opera di pura
finzione, e per questo già infinitamente più “vera” di qualsiasi documentario,
sulla vita di un poeta che per sua natura fu già avanti di decenni nella
lettura delle sorti umane e sociali del suo mondo e quindi del mondo. Come fa
il regista newyorkese a mettere in scena tutto ciò? “Semplicemente” fa
parlare l’opera di Pasolini, in questo facilitato anche dalla sua
contiguità artististica con lo scrittore friulano. Religiosità, peccato e
redenzione, vissuti e scontati anche sui corpi, sono il leitmotiv di tutto il
cinema di Ferrara, esplicitamente e magistralmente messi in scena nella
cosiddetta “Trilogia del peccato” che comprende “Il cattivo tenente”,’92
,”Occhi di serpente”,’93, e “The addiction”,’95. Fin dall’inizio di “Pasolini”,
egli inserisce riferimenti diretti alle opere del poeta. Parte con alcune delle
scene più crude dell’inarrivabile “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, continua
mettendo in scena alcune pagine dell’incompiuto “Petrolio” e sviluppa in modo a
dir poco geniale la messa in scena del film che Pasolini era nell’imminenza di
girare, “Porno Teokolossal”.
Per questo vero e proprio film nel film (convinciamo
Ferrara a girarlo proprio tutto!) Ferrara chiama ad interpretare i ruoli che
avrebbero dovuto essere di Eduardo e Ninetto Davoli, Epifanio e Nunzio, lo
stesso Ninetto Davoli e Riccardo Scamarcio.E Ninetto Davoli nell’interpretare
l’Epifanio di Eduardo è semplicemente straordinario, capace com’è di farci
rivivere tutto il mondo che Pasolini attraverso la sua faccia e la sua voce ci
aveva magicamente regalato. A tal punto che sembra di vedere un nuovo film di
Pasolini, con tutto il carico emotivo che ne consegue. L’inoltrarsi di Epifanio
e Nunzio nel mondo li porta in una città(una Roma-Sodoma che anticipa “La
grande bellezza” di Sorrentino, come pure è vicina ad un contesto tematico che
rimanda anche a “La voce della luna” di Fellini, in una contrazione spazio-temporale
che solo la poesia può regalarci) che considera “stranieri”i suoi visitatori,
che ha suddiviso le sue zone in Borghesi e non, con la polizia a smistare
questo apartheid da incubo, e dove i due malcapitati e randagi viaggiatori
assistono asituazioni orgiastiche di pura degradazione, che comunque non
distolgono l’Epifanio Ninetto dalla visione della Cometa che dovrebbe portarli
,lui e il suo Angelo custode Nunzio, in Paradiso.
Il tutto raccontato in un geniale montaggio parallelo,
con lo stesso poeta a fare da trait d’union fra i due momenti, in cui Ferrara
mette in scena anche la vita vissuta, reale, “costretta” di Pasolini, fino al
conseguenziale e dolorosamente “logico” epilogo all’Idroscalo di Ostia,
accompagnato dalla straziante aria “Una voce poco fa”di Rossini cantata da
Maria Callas, con la pietas pasoliniana stavolta attaccata agli
occhi dello spettatore diretti verso un corpo straziato inerme e
innocente, colpevole solo di averci avvisato che il mondo potrebbe essere
migliore di quello che è. Pura poesia che ci racconta, fin nel profondo,
l’animo di un uomo oramai votato ad un inevitabile “cupio dissolvi”.
Un artista e la sua vita raccontati attraverso quello
che egli aveva pensato del mondo e del come metterlo in scena, proprio perché
le due cose per un poeta sono inevitabilmente la stessa cosa. La cinepresa di
Ferrara si muove lentamente per tutto il film , talvolta anche avvolgente, con
i primi piani di Pasolini sempre più insistenti ed inquietanti
contrapposti ai campi lunghi dei “suoi luoghi”, la periferia delle sue notti e
lo straniante quartiere dell’Eur dove abitava, quasi a voler cogliere,
direttamente e indirettamente, e regalare allo spettatore sensazioni ed
emozioni di un intellettuale senza mezze misure, impavido davanti al
destino costruitosi coerentemente con la sua arte.
Un’operazione quella di Abel Ferrara cinematograficamente inedita, che può sembrare irregolare e scomposta proprio perché quando si parla di vita e di arte che la racconta la regolarità e la compostezza non hanno diritto d’asilo, men che meno al cinema che si nutre di immagini che sfuggono per loro natura a qualsiasi controllo. Per questo il film di Ferrara è sicuramente da annoverare fra le sue opere migliori e soprattutto è uno fra i migliori degli ultimi dieci anni prodotti in Occidente.
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