Rivolte arabe e Islam, analisi di un percorso politico plurale
Alle radici dell’Islam politico. Le rivolte arabe, il desiderio di democrazia, le derive terroristiche questi i temi dell’incontro organizzato dalla prof.ssa Alessandra Dino (Università degli studi di Palermo) lo scorso 9 aprile presso l’Albergo delle Povere (Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale). Alla proiezione del film documentario, “Terre d’Islam. Storia delle rivolte arabe” di Italo Spinelli e Alberto Negri (prodotto nel 2014 da Barter e Istituto Luce, durata: 85 minuti), che ha ispirato l’evento hanno assistito centinaia di studenti universitari e medi, insieme a dottorandi, docenti, ricercatori e cittadini.
La coordinatrice ne ha introdotto la visione. Sono intervenuti Italo Spinelli (regista e direttore artistico di Asiatica Film Mediale), Patrizia Spallino (Università degli Studi di Palermo) e Luca D’Anna (University of Mississippi, USA). Tanti gli spunti per il ricco dibattito che ha coinvolto i partecipanti spaziando: dai potenziali effetti di un intervento armato in Libia ai fattori di consolidamento della giovane democrazia tunisina, dai rischi di penetrazione del terrorismo in nuove zone ai movimenti degli studenti per la democrazia, dal ruolo dei guerriglieri curdi alle politiche mutevoli della Turchia, dai cambiamenti di regime agli effetti sulla società e la popolazione, dalla condizione delle donne alle molteplici interpretazioni dell’essere musulmani.
La chiave di lettura sociologica e politologica è stata arricchita da studi che provengono da discipline apparentemente distanti, come la lingua e letteratura araba, disegnando un quadro complesso ed eterogeneo. La costruzione sociale della realtà e i rapporti di potere che consentono ad alcune rappresentazioni semplificate di affermarsi a livello globale, passano infatti attraverso le pieghe del linguaggio e dei vari codici dei quali la comunicazione si intesse.
Le ricostruzioni etimologiche e storiche sia dei termini a fondamento degli slogan delle ribellioni per la democrazia, sia delle mutevoli versioni che in diverse epoche e contesti territoriali sono state attribuite alle parole della propaganda terrorista, aiutano a dipanare l’intricata definizione degli eventi e degli ideali che li muovono, da parte dei diversi soggetti in lotta e dei commentatori. Il jiahd, ad esempio, secondo l’analisi di Patrizia Spallino (ricercatrice e docente dell’ateneo, direttrice dell’Officina di Studi Medievali fondata nel 1980 a Palermo), avrebbe almeno tre diverse accezioni.
La prima fa riferimento alla Sura 22, 78 del Corano che lo definisce come purificazione e impegno quotidiano nella vita religiosa; la seconda lo interpreta come “sforzo pacifico” individuale; la terza rimanda, invece, alla guerra contro gli infedeli, e per estensione successivamente contro i governanti corrotti e amici degli occidentali, legata al concetto di qital letteralmente uccisione, aggressione (Sura 2, 190 “Combattete sulla via di Dio contro coloro che vi combattono”) e ad un periodo storico-politico differente in cui si afferma una logica di autodifesa della comunità islamica. Proprio i tratti più violenti e radicali, che si rifanno ad una connotazione apparentemente monolitica dell’Islam e dei suoi precetti, vengono esportati ed assumono risalto mediatico, oscurandone gli elementi più inclusivi e pacifici.
Il racconto delle dinamiche politiche nazionali e degli attori coinvolti nei vari Paesi, nel docufilm si chiude, invece, con le parole di un anziano che prima di incamminarsi verso la moschea nella Medina di Tripoli afferma: “tutta la gente è uguale, Allah l’Altissimo creò Adamo ed Eva. E noi tutti discendiamo da loro. Non vi è differenza tra un italiano, un ebreo o un maltese. Abbiamo tutti lo stesso padre e la stessa madre, ma la religione non è la stessa. Gli altri conoscono Dio, conoscono Allah l’Altissimo, ma noi non sappiamo il modo in cui lo venerano”.
A poco più di un mese dall’attentato al museo del Bardo a Tunisi, la proiezione del film-documentario è stata, dunque, uno stimolo per riflettere sul composito percorso di mutamento politico e sociale che è stato unificato dai mass media sotto l’espressione “Primavera araba”. Nel documentario si intrecciano le vicende di alcuni dei protagonisti delle rivolte, se ne ascoltano le parole nelle interviste. Slogan e racconti di vita ne ripercorrono le vicende. Se ne osservano i volti, le emozioni, le speranze, i cattivi presagi e le delusioni. Si registra la sorpresa per cambiamenti radicali ed imprevisti. Le paure e il senso di insicurezza di alcuni al variare di regime.
Molte voci tra loro discordanti trovano spazio nel video e aiutano a comprendere. Diffondono dubbi che rompono facili letture dei fatti, consentendo di problematizzare e approfondire le diverse ragioni che nei vari Paesi interessati hanno portato alle rivolte. Il docufilm, girato in Tunisia, Libia, Egitto e Iran, mostra i diversi volti dell'Islam politico, da quelli istituzionali alle correnti più radicali (come quella rappresentata dall’egiziano Shaykh Nabil Naim fondatore della Jihad Islamica), con interviste a leader, ideologi e gente comune, senza l’intermediazione di esperti occidentali.
Nel film si sovrappongono luoghi e momenti temporali lontani, uniti dalla forza visiva di paesaggi urbani che mostrano i segni della violenza delle rivolte e dei tentativi di reprimerle. Il leitmotiv delle sollevazioni popolari e dell’Islam politico, concetto polimorfo e discusso, li collega. Immagini recenti, come quelle girate in Iran, nelle città di Teheran e Qom, nei giorni della vittoria di Hassan Rohani alle elezioni presidenziali del giugno 2013, sono integrate da materiali inediti, conservati e messi a disposizione dall’Istituto Luce, come quelli relativi alla rivoluzione dell’Imam Khomeini del 1979, e da riprese originali della rivolta dell’Onda Verde del 2009. Proprio l’Iran, pur non appartenendo al mondo arabo sunnita ma a quello persiano e sciita, è stato il primo grande esperimento di rivoluzione islamica che prosegue tuttora e con il quale continua a confrontarsi l’intera area.
Ripercorrendo la storia (e gli esiti seppur provvisori) delle rivolte arabe, possiamo scindere a fini analitici livelli e territori che nel film si intrecciano. Limitandoci qui ad affrontare, seppur brevemente, la questione tunisina, è d’obbligo ricordare che la Tunisia è l’unico dei Paesi coinvolti nelle rivolte ad avere ottenuto il passaggio ad una democrazia che, sebbene ancora in fase di consolidamento, è riconosciuta come tale anche dagli osservatori internazionali, conquistando lo status di Paese libero (Freedomhouse 2015).
Con i suoi undicimilioni di abitanti in gran parte giovani, una stampa e una rete Internet solo parzialmente libere, ed un elevatissimo tasso di disoccupazione, la Tunisia è allo stesso tempo il Paese che fornisce più combattenti volontari alle milizie del sedicente Stato islamico di Iraq e Siria, inviando almeno 3000 foreign fighters (http://www.bbc.com/news/world-middle-east-29043331). Il terrorismo di ritorno, quindi, potrebbe costituire una minaccia per una democrazia ancora fragile. La Tunisia attualmente presenta un esperimento di grande coalizione al governo che include, dallo scorso gennaio – oltre a Nidaa Tounes (Appello alla Tunisia, partito laico di maggioranza dopo le elezioni dell’ottobre 2014, espressione di appartenenti al vecchio regime) e l’Unione patriottica libera (Upl di Slim Riahi, terzo partito alle elezioni) – anche Ennahda (Al-Nahda Rinascita), la formazione politica che nel 2011 aveva vinto le elezioni con poco meno del 40% di voti, arrivata seconda tre anni dopo.
Si tratta del partito islamico di Rashid Ghannouchi, partito che ha avviato un percorso di radicamento democratico ed ha gestito, durante la sua prima esperienza di governo, la difficile fase di transizione. Il leader Ghannouchi racconta così la sua storia: “Nel sud della Tunisia mio padre era un piccolo agricoltore, amava il Corano, era molto credente. Mia madre teneva molto alla nostra istruzione, lavorava nei campi per permettere a me e ai miei fratelli di studiare nella capitale. In seguito ho viaggiato per l’oriente per laurearmi in ingegneria agraria. Ma per le pressioni del regime di Bourguiba [leader della lotta per l’indipendenza del Paese, fondatore e primo presidente della Tunisia dal 1957 al 1987] l’università del Cairo non ha accettato la mia domanda di iscrizione. Sono andato quindi a Damasco, dove ho studiato filosofia.
Là ho conosciuto per la prima volta il pensiero islamista. Sono diventato un musulmano praticante, ho capito che l’Islam non è solo una religione, ma anche una civiltà, un sistema di vita, ho capito che non vi è contrasto tra Islam e modernità, tra Islam e scienza, tra Islam e democrazia, tra Islam e uguaglianza tra uomo e donna. Dopo mi sono trasferito a Parigi, dove ho studiato per un periodo alla Sorbona”. Tornato alla fine degli anni Sessanta in Tunisia, Ghannouchi nel 1981 fonda il primo movimento politico islamico (Movimento della Tendenza Islamica, MTI), tre anni dopo viene arrestato e successivamente condannato a morte, ma grazie all’amnistia che segue il “colpo di stato medico” – ossia la destituzione per malattia dell’ormai anziano presidente a vita, artefice della modernizzazione del Paese – torna libero e con il Partito della Rinascita, partito tunisino ma inserito nell’Islam politico internazionale, partecipa alle elezioni nel 1989.
Due anni dopo, però, il partito viene di nuovo messo al bando dal presidente Ben Ali e il leader fugge a Londra, dove rimane in esilio sino al 2011 quando torna in patria dopo le rivolte. Nel docufilm ci si interroga anche sulle relazioni tra la Tunisia nella fase di transizione e le potenze del Golfo. Ghannouchi, infatti, è vicepresidente dell’Unione internazionale dei sapienti musulmani, una grande organizzazione presieduta dallo Shaykh Yusuf al-Qaradawi, leader spirituale dei Fratelli musulmani che hanno appoggiato la rivolta tunisina. Quest’ultimo interrogato sulle ragioni del suo supporto afferma: “Non mi sento né un ospite, né un estraneo in questo Paese.
Durante la rivolta qualcuno mi disse ma tu credi di essere tunisino? Perché sei così entusiasta della rivolta? Gli ho detto, sì io mi sento tunisino! E libico, yemenita, egiziano, siriano e qatariota. Sento di appartenere a questi Paesi, sono la mia patria, tutti loro”. Il rapporto culturale e spirituale tra i due leader ha garantito buone relazioni con il Qatar, dove lo sceicco risiede. Mentre il conflitto latente o almeno la distanza con le altre grandi monarchie del Golfo, sarebbero da ricondurre a pregresse divergenze con l’Arabia Saudita che in un primo tempo aveva cercato di proteggere Ennahda da Ben Ali, ma che poi rompe con il partito appoggiando l’invasione statunitense dell’Iraq di Saddam Hussein, avversata da Ghannouchi, contrario all’intervento militare. L’islamismo moderato di Ennahda è solo una delle declinazioni della politica che si rifà all’Islam in Tunisia. Dove sono presenti altre formazioni come le milizie armate Ansar al-Shari‘a e Oqba Ibn Nafi che sostengono formazioni analoghe in Libia avverse al partito moderato, dal quale sono state bandite e identificate come organizzazioni terroristiche durante la fase di governo. Sono presenti, inoltre, movimenti che adottano modelli politici che seguono tradizioni religiose salafite che promuovono attraverso la militanza extraparlamentare soluzioni radicali.
Dopo le rivolte, dunque, si assiste ad una differenziazione interna all’islamismo politico, ma nel Paese la politicizzazione di molte categorie sociali – riattivate durante la rivoluzione – continua ad esprimersi in una sfera pubblica plurale in cui si confrontano e si scontrano anche visioni laiche che perseguono altri ideali. Lo scontro ha bisogno di canali istituzionali di confronto e continua a esercitarsi anche in forma violenta. Alcune studentesse e Habib Kazdaghli, rettore dell’Università di Manouba, raccontano nel video dell’attacco salafita all’ateneo per imporre con sit-in, insulti e saccheggi alle donne l’uso del niqab, velo non più indossato in Tunisia da 60 anni. Kazdaghli sottolinea i limiti di Ennahda nella gestione di tali conflitti, dal momento che il suo stesso processo di democratizzazione è ancora incompleto e l’uso della religione strumentale nel processo di manipolazione dell’opinione pubblica. Il percorso di consolidamento democratico, dunque, è ancora in fieri e va sostenuto.
Ultimi articoli
- La marcia del 1983, si rinnova la sfida alla mafia
- Bagheria, consiglio
aperto sulla “marcia” - La nuova Cortina
di ferro grande campo
di battaglia - La riforma agraria che mancò gli obiettivi / 2
- Mattarella, leggi
di svolta dall'incontro
con il Pci - Mattarella fermato
per le aperture al Pci - La legalità vero antidoto per la cultura mafiosa
- Natale, un po' di rabbia
e tanta speranza
nella cesta degli auguri - Lotte e sconfitte
nelle campagne siciliane
al tempo di Ovazza / 1 - La legge bavaglio imbriglia l'informazione