Resistere, resistere, resistere anche con una certa ironia

Società | 19 marzo 2020
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 L’inimmaginabile. L’imprevedibile. Come è potuto succedere? Quanto durerà? E finirà? E ce ne libereremo? Angoscia, paura, morte ci camminano accanto e sono nei nostri pensieri ogni istante. Le giornate si susseguono tutte uguali, scandite da un profluvio depressivo-collettivo di dati, statistiche, percentuali di contagi, decessi, guarigioni. Si susseguono inondate da commenti alla tv, nel computer, nello smartphone da quando ci alziamo la mattina a quando torniamo a letto. Mai come in questa circostanza abbiamo realizzato quanto siamo vulnerabili, deboli anche con tutta la scienza e la tecnologia di cui disponiamo. Ce lo ripetiamo nel silenzio dei nostri pensieri, nel silenzio delle vie. Allora proviamo, con enorme difficoltà e con gli ultimi spiccioli di ironia e autoironia di cui disponiamo – davvero ultima arma che ci rimane – ad esorcizzare l’incubo in cui siamo sprofondati. Proviamo cioè ad intravedere se la traversata del deserto toccata alle generazioni di cui facciamo parte, toccata ad ognuno di noi - dagli spaventatissimi, fragili nonni e bisnonni molto avanti negli anni ai neonati - possa contenere anche un minimo elemento positivo. Sforziamoci di intravedere in un tale pozzo nero anche il più fioco barlume di luce. Lo ribadiamo: la ricerca è complessa, forzata, consolatoria. Ce ne vuole, e tanta, di ironia e autoironia per concepire e montare una ricerca così. Come si fa a mettere su una specie di esercizio dal titolo “Alla ricerca di aspetti positivi del coronavirus” se non si dispone di una buona dose di incoscienza e di resistenza? O se non si è levati da tavola possibilmente dopo una abbondante libagione nella quale non ci si è contenuti quanto a vino?

Comunque, proviamoci.


Da quando non ci risvegliavamo la mattina ascoltando il canto degli usignoli? Si dirà: ma ci svegliavamo ascoltando il tubare dei colombi nel balcone e sui tetti o il garrito-stridìo dei gabbiani. Ma vuoi mettere la differenza tra la dolcezza del cinguettio dei primi e la maledizione igienico-sanitaria oltre che sonora dei secondi e dei terzi?


Che pacchia. Non spendiamo più un centesimo. A parte quanto lasciamo nella cassa dei supermercati e delle farmacie, soldi e carta bancomat hanno scoperto anche loro che non è un reato la stanzialità dentro il portafoglio. Ma non ditelo a barbieri (a proposito: i capelli lunghi e le nostre barbe ispide ci renderanno simili ai cavernicoli o all’abate Faria?) parrucchieri, commercianti di abbigliamento e mille altre categorie lavorative. Vi piglierebbero a schiaffi. A ragione.


Il guardaroba? Intatto. Vestiti, pullover, pantaloni sempre nuovi, pronti per quando ne usciremo, se ne usciremo. A casa non hai bisogno di particolare eleganza. Ma non ditelo a quelli di prima, ai commercianti di abbigliamento o di scarpe perché stanno piangendo di disperazione oltre che di paura da coronavirus. Vedi il punto precedente.


Altra pacchia. Con un pieno ci fai l’intera quarantena, mesi. Ma anche in questo caso non ditelo ai benzinai.


Niente marmitte auto a sparare fumi ammazzagente. Aria pulita, emissioni ambientali al minimo. Greta e ambientalisti tutti: ammettete che non l’avevate minimamente ipotizzato.


Strade extraurbane che si percorrono in solitudine. Autostrade semivuote. Purché chi le percorre, specie le seconde, non le scambi per un circuito dove pigiare sull’acceleratore.


Sono ormai più settimane che non paghiamo bollettini ed F24 alla posta. La loro ricorrenza era diventata poco meno che quotidiana: acqua, luce, gas, telefono, rifiuti. Una strage di risparmi familiari. Ora ci stiamo prendendo un po’ di respiro, un po’ di pausa. Tuttavia, se i pagamento non sono sospesi da provvedimenti governativi ad hoc, quando e se possiamo riprendiamo a pagare. C’è bisogno di liquidità dappertutto nelle aziende e c’è bisogno che il denaro riprenda a circolare.


Chi è ricoverato per Covid-19 o, peggio, addirittura intubato per ventilazione forzata in qualche reparto ospedaliero di terapia intensiva se è cosciente e non in stato fisico-mentale di incoscienza ha tutto il tempo di chiederselo: “Ma io che sono un evasore fiscale per principio, incallito, e che nella mia vita ho sistematicamente evaso tasse per decine di migliaia se non centinaia di migliaia di euro che diritto ho di essere curato gratis, e salvato, dalla sanità pubblica, senza spendere un euro?”. Ed ha motivo di chiedersi: “Ma in quanto evasore fiscale non sono un parassita, un cancro della società? Eppure questi, i medici, gli infermieri, si stanno dannando l’anima e corrono anche il rischio di morire per salvarmi. Non lo merito. Meriterei solo di essere abbandonato e tirare le cuoia in un angolo. Non ho fatto nulla, non ho dato per una intera vita il benchè minimo contributo, non ci ho messo niente di mio perché si possa combattere questa guerra”.

Non è fattibile ma meriterebbe di sputarsi negli occhi da sé. Egli stesso.


Tutti sotto lo stesso tetto. Genitori, giovani, bambini, talvolta anche qualche nonno e/o nonna. Con orari in fin dei conti uniformati. Pensare che fino a qualche settimana fa, specie nel week end, neppure ci si incontrava tra genitori e figli coabitanti. I primi andavano a letto quando i secondi uscivano a tardissima sera per rincasare all’alba e stare a letto a dormire fino a domenica pomeriggio (a proposito: con locali e discoteche chiusi finite le stragi automobilistiche del sabato notte e della domenica mattina, finite scazzottature e in diverse circostanze anche omicidi nei dintorni dei locali originati da troppo alcol che mandava in tilt il cervello). Nelle case dunque riprende il dialogo intergenerazionale dato in coma irreversibile da anni se non da decenni per overdose di uscite e smartphonemania inarrestabile? Chissà, forse un po’ riprende. Per quanto tra mugugni, piedi che ci calpestiamo, spazi che ci sentiamo invasi.


“Non ci posso credere!”, come esclama Aldo Baglio (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo): a casa si rivedono familiari con in mano libri di carta e giornali di carta. Non ci illudiamo: computer, smartphone, tablet, playstation e videogame “uber alles”. Ma che esistano ancora i libri ed i giornali di carta e che qualcuno li (ri)legga ha del miracoloso.


La vita si era trasformata in un inferno quanto a ritmi, impegni, corse, appuntamenti. Di colpo è diventata meno frenetica, meno generatrice di infarti. Il tempo scorre lento. A casa sono tornati sovrani colazione, pranzo e cena. Finalmente. La loro preparazione è ridiventata lunga, accurata, attenta. Pensare che la mattina facevamo colazione in piedi in 30 secondi netti, i più neppure pranzavano a casa ma mangiucchiavano qualcosa al bar o un panino direttamente in ufficio, a cena l’unica urgenza era recuperare con un fare vorace e veloce (visto che lo stomaco era vuoto per il modesto apporto del pasto di metà giornata) per fiondarci sul divano ed assopirci davanti alla tv nel giro di 5-10 minuti al massimo.


Ed a proposito di televisione. I cervelloni che disegnano i palinsesti e scelgono trasmissioni, film, fiction, talk show sono da rimandare a settembre, anzi da bocciare a vita. Ma ci vuole tanto a capire che bisogna cambiare registro? Anche un poppante si renderebbe conto che in un periodo funesto come quello che attraversiamo occorrono curative iniezioni di risate. Tirate fuori dagli archivi i vecchi film di Ollio e Stanlio, di Totò, della commedia all’italiana, Pierino compreso, rimandate tutte le puntate di Zelig al posto di quell’inutile, anzi dannoso, spreco di denaro e nemico della materia grigia chiamato “Grande Fratello vip”. Fateci vedere e rivedere Litterio Scalisi (l’attore Enrico Guarneri). Distraeteci, fateci ridere. Perché ne abbiamo disperato bisogno. Non ammorbateci con migliaia di ore di trasmissioni in tutti i canali in cui non si parla d’altro che di coronavirus, ripetendo come un disco rotto sempre le stesse cose.


E’ semplicemente eroico, consapevole anche dell’eventualità di rimetterci la pelle, il comportamento di medici ed infermieri che negli ospedali assistono i contagiati da coronavirus ed affrontano turni massacranti. Altro che prima linea. Di più. E’ sacrificio, abnegazione. Chissà cosa penseranno in questi giorni i teorici (e pratici) dell’assalto ai pronto soccorso, dell’aggressione fisica a medici ed infermieri, della spedizione punitiva di gregge orchestrata da un intero nucleo familiare, amici compresi, della violenza alle dottoresse di non molte settimane fa quando comportamenti del genere erano diventati vanto quotidiano. Augurare a facinorosi e delinquenti di questa risma una bella botta di coronavirus (d’accordo: non letale) può considerarsi pura cattiveria. Ma sarebbe altamente educativo. Così, tanto per capire e ravvedersi a proposito di certi raid insensati.


Ricordate quanta fatica costava alle nostre mogli portarci in chiesa la domenica dove – freddini in fatto di fede come siamo – assistevamo più che altro da annoiati spettatori alla messa? Ebbene, abbiamo un desiderio incredibile di messe (ah, le privazioni…) di riti religiosi, di processioni.


Abbiamo riscoperto che esiste un bene sociale che con incoscienza ed approssimazione avevamo buttato nel cestino dei ricordi: il vicinato, più precisamente il reticolo del vicinato. Quello che in tempi non da coronavirus ma normali era composto da persone che si conoscevano bene, si aiutavano a vicenda, si parlavano dai balconi e dalle finestre (specie le donne, le nostre nonne e madri) e costituiva una importante rete sociale di conoscenza, protezione, assistenza, informazione. Siamo tornati a parlarci dai balconi. Dove parecchi hanno esposto il tricolore, emblema di identità, voglia di non cedere, incoraggiamento. Beninteso ci parliamo dai balconi a distanza di sicurezza, anzi molto di più. Ma finalmente si è scambiata qualche parola con persone con le quali si è vissuto a pochi metri di distanza per decenni senza neppure sapere come si chiamassero.


E che dire della voglia di baciarci, abbracciarci, salutarci con l’insostituibile stretta di mano? Quanto ci mancano! E quanto erano importanti nei rapporti con gli altri, dai familiari, ai conoscenti, agli estranei. Non ce ne rendevamo conto ma anche il saluto ha una sua etica. Ora finalmente l’abbiamo capito.


Avreste mai pensato di commuovervi ascoltando il nostro inno nazionale? Sì, d’accordo, anche quando lo ascolti prima di una partita della nazionale o nelle sempre più rare premiazioni per una vittoria della Ferrari in Formula Uno ti emoziona. Ma commuoverti, farti venire un nodo alla gola è tutta un’altra sensazione. Lo stiamo provando, lo stiamo vivendo. Grazie a persone meravigliose, grazie ai “balconisti”, ai “cortilisti” con il loro flash mob canoro quotidiano delle 18 allestito per non farci sentire soli, tappati in casa, rintanati come topi in trappola. La colonna sonora mischia Goffredo Mameli e Mino Reitano, Adriano Celentano e Giacomo Puccini, Rino Gaetano e Franco Battiato, Jimmy Fontana e Vasco Rossi. Non pensavamo che anche popolari canzoni italiane di tempi lontani potessero avere tanta forza e potessero aiutarci tanto come comunità. Ferita e sanguinante ma comunità.

Non illudiamoci. Quando e se ne usciremo tanti di noi che neppure immaginano quanto sarà dura riprendersi e sbarcare il lunario finiranno nelle strade a mendicare. Ci attendono anche scenari del genere. Due espressioni ascoltate in questi giorni più di altre sintetizzano la situazione: “Siamo nell’ora più buia” e “Niente sarà più come prima”. Ne dobbiamo essere consapevoli. Ma la resistenza, il riscatto, la remuntada come dicono gli spagnoli, è proprio dai balconi di comunità che sta cominciando a profilarsi. Con commovente coraggio. Con, una volta tanto, l’orgoglio di essere italiani..

 di Pino Scorciapino

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