Ratzinger, la coercizione del potere e/o l'elogio della conservazione

L'analisi | 11 gennaio 2023
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Tra i ricordi personali di un lungo girovagare professionale ho conservato l'immagine di una cena in un ristorante sull'Appia antica, di tanti anni fa, seppure già nel terzo millennio, di plastica suggestione. E dico plastica, aggiungendo suggestione per evocare l'immagine di un evento raro oltreché fortuito, cenavo con amici allorché scorsi sua eminenza Joseph Ratzinger seduto, a un tavolo appartato del locale, di fronte, il prelato Georg Gänswein, già allora segretario del cardinale, ma non ancora prefetto della Casa pontificia, come d'altronde il pastore tedesco, così ironicamente apostrofato da un giornalista seduto accanto a me, non era ancora diventato papa Benedetto XVI.
Nella premessa descrittiva, quantunque fedele alla scena vissuta, manca l'evento cardine, appunto tale, in quanto a entrare nel locale nel frattempo, fu il cardinale Carlo Maria Martini, allora già dimissionario dall'arcidiocesi di Milano, ritiratosi in Gerusalemme, nel convento di san Salvatore, gestito dai francescani, dove, oltre a pregare e amministrare i sacramenti, lavorava alla curatela della seconda lettera di Pietro.
Ad accendere la curiosità dei commensali seduti al tavolo con me, l'imprevedibile confluenza nello stesso ristorante di due tra i più autorevoli teologi della cattolicità moderna, il primo, Ratzinger, guerriero della fede, prefetto, a capo di uno dei sedici ministeri vaticani, la Santa inquisizione, evolutosi, perlomeno linguisticamente, in Sant'uffizio, successivamente in Congregazione per la dottrina della fede, infine indicato con il più neutro dei sostantivi, dicastero; il secondo, Martini, inteso dagli organi d'informazione come il cardinale rosso, presidente del Consiglio delle conferenze dei vescovi d'Europa, tessitore universale di pace e di unità nel coacervo di riti diversi, di religioni differenti e antagoniste, impegnato ad attualizzare, l'insegnamento di Gesù rispetto alle domande sociali del terzo millennio.
Alzandoci in piedi in due, un professore universitario della Cattolica e io, dei sei seduti attorno alla stessa tavola, in quanto avevamo avuto modo di conoscere l'ex-arcivescovo di Milano in diversi convegni, uno tra tutti la Cattedra dei non credenti, rivolgemmo, a distanza, un deferente cenno di saluto a Martini. Accadde una cosa insolita, il prelato si avvicinò, soffermandosi a discutere di Gerusalemme, la definiva la propria patria spirituale, del lavoro di esegesi dedicato al papiro di Bodmer, sottolineandone la complessità filologica.
Soltanto dopo avere parlato con noi, Martini si accorse di Ratzinger, a causa della postazione defilata, e con la sua ricca umanità, si spostò per recarsi a salutarlo.
Non l'avevo notato prima, intendo in occasioni simili, ma lo scambio si limitò a una stretta di mano, seppure dai gesti e dalle espressioni dei visi si desumesse la cordialità dell'incontro.
Adesso, a tumulazione avvenuta del papa emerito, tredici anni dopo la morte di Carlo Maria Martini, a tentare il riepilogo dell'opera dei due uomini di Chiesa, dall'ingegno e dalla cultura molteplici, non si può, almeno in questa sede, star qui ad esaminare la trattatistica, gli innumerevoli interventi, soprattutto il percorso culturale ed ecclesiale del gesuita italiano, ancora più complesso rispetto a quello del tedesco, quantunque ambedue, su versanti opposti, abbiano consacrato alla filosofia e alla teologia le loro migliori risorse intellettuali, mentre attraverso l'empito di spiritualità esprimevano quell'ansia di infinito trasposta in Dio.
In Ratzinger e in Martini a prevalere, va da sé, era la sensibilità, tarata all'eccesso, altrimenti incapace di cogliere le radici dell'essenza divina nella storia dell'uomo e del mondo. Il problema difatti nasceva nel momento di affrontare la realtà quella secolare, abbandonando le biblioteche, la scrivania, uscendo di chiesa, dopo le preghiere della compieta, per occuparsi ai massimi livelli di vertice non tanto del misticismo quanto della secolarità intrinseca al più piccolo stato del globo, uno dei più ricchi nella commisurazione tra l'estensione e le risorse possedute, appunto il Vaticano, pur sempre governato da un monarca assoluto, quantunque affiancato da ministri, non tanto di Dio, pur essendo sulla carta tali, quanto dediti alla profanità. In questo i due marcarono una differenza abissale: Ratzinger stava a Wojtyla come Bottai a Mussolini, mentre Martini, avendone consapevolezza, assomigliava a Pietro da Morrone, alias, Celestino V, nella consapevolezza di essere inadatto a gestire il potere fuori dagli ambiti intellettuali. Alla superiorità del sapere corrispondeva una capacità percettiva fuori dall'ordinario in favore dei primi sui secondi, ma la fascinazione della personalità giocava abbondantemente a beneficio dei capi.
Si è opposto al debolismo della postmodernità fu la dichiarazione di Martini, nello storicizzare, a elezione avvenuta di Benedetto XVI, l'iter teologico del papa. Così si nascondeva il sole con un dito, giacché, nei fatti dal lontano 1991, data dei primi sintomi di Parkinson diagnosticato a Wojtyla, il precipitare del Vaticano nelle mani dei vari capi tribù era diventato inarrestabile, Ratzinger, da testimone oculare sapeva di non essere la persona giusta a fermare la deriva, anzi ne aveva terrore, Pregate per me, perché io non fugga davanti ai lupi.
Nel conclave dell'aprile 2005, nessuno può affermare con nettezza cosa accadde. Tuttavia, a utilizzare la logica, estrapolando brandelli di dichiarazione da più fonti, la ricostruzione di un faccia a faccia tra Ratzinger e Bergoglio, con Martini e il gruppo dei progressisti, così nello spiccio linguaggio giornalistico, a stare nel mezzo, in attesa del ritiro delle due candidature per lanciarne una terza, ha del verisimile, fino al tramonto dell'ipotesi avvenuta con l'imprevista elezione di Ratzinger, a dar retta all'ultima pubblicazione di Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita., Garzanti, sull'onda del furibondo e sconsiderato intervento di uno tra i più scalmanati cardinali del concistoro, Joachim Meisner, incapace di vedere oltre l'appartenenza di campanile, essendo lui e Ratzinger, tedeschi, assunse il ruolo di ultras del compatriota, relegandolo, contro la volontà dell'interessato, da neo-eletto, alla stanza del pianto.
Da lì a poco più di due mesi avrebbe compiuto l'ultimo viaggio, eppure, Martini, il 2 giugno 2012, nel parlatorio dell'arcivescovado di Milano, di fronte allo sconforto di Benedetto XVI per gli episodi di pedofilia, per le lotte intestine, per le continue fughe di notizie, l'ultima di un suo supposto assassinio, ci si ricorderà dello scandalo Vatileaks, iniziato durante il suo ultimo scorcio di papato, proseguito con Bergoglio, ridotto allo stremo delle forze, lo consigliò di dimettersi, è proprio ora...
Il papa, ormai in procinto di diventare emerito, e il cardinale del dialogo avevano previsto la rivolta dei boiardi di stato, ma, poiché alla stupidità umana non esiste rimedio, la fine è nota, si giunse al gran rifiuto.
Da regnante, Wojtyla aveva trasformato, anche in ragione degli accadimenti esterni, la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dell'impero sovietico, occorsi nei 27 anni del suo papato, la Santa sede da roccaforte della fede a presidio politico, innescando una reazione a catena irreprimibile. Tale, nell'istante in cui si provò a raffrenarla da suscitare la resistenza interna della nomenklatura.
Sciogliere i misteri di decenni di compromissioni, operati durante il pontificato di Giovanni Paolo II, quello sporcarsi le mani di ritorno nei fatti inerenti il potere temporale, tralasciando il magistero spirituale, benché inevitabilmente legati agli eventi, quali il finanziamento di Solidarnosc, la lotta senza quartiere alle chiese ortodosse orientali o la secretazione delle informative circa la scomparsa di Emanuela Orlandi, divennero priorità, rispettivamente, per abbattere il comunismo in Polonia, per contrastare il regime sovietico o per favorire le relazioni con la banda della Magliana, va da sé che i Marcinkus di turno, si chiamassero anche Tarcisio Bertone o Paolo Gabriele, quanto non Angel Vallejo Baldo oppure Francesca Immacolata Chaouqui, si sentissero autorizzati dagli esempi di vertice a comportamenti finalizzati all'utile individuale in luogo dei doveri inerenti il compimento del regno di Dio, vale a dire, nelle more di attendere alla salvezza delle anime, Marcinkus aveva stipulato con Gelli, Calvi, Sindona, Bontate, De Pedis intese segrete per lavare presso la banca vaticana soldi sporchi di sangue e droga con buona pace dell'Eterno.
A tale disastro era stato chiesto a Benedetto XVI di mettere fine!


 di Angelo Mattone

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