Rame, ferro, litio e terre rare: il tesoro afghano

19 agosto 2021
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Non solo oppio ed eroina. L’Afghanistan possiede enormi (e ancora intatte) ricchezze minerarie, con un valore che secondo stime del Governo Usa supera i 3mila miliardi di dollari. Le aspre montagne del Paese, nate quaranta milioni di anni fa dal convergere delle placche tettoniche di Europa, Asia ed Africa, racchiudono petrolio, ferro, oro e gemme preziose. Ma anche depositi di rame, litio e terre rare - proprio i metalli che ci serviranno di più per la transizione energetica - che si valuta siano tra i più grandi del mondo: risorse che fanno gola a molti e che oltre quarant’anni di guerre hanno finora impedito di sfruttare.

Ora si riaprono i giochi. Col ritiro delle forze Usa dal Paese e il ritorno al potere dei talebani la caccia al tesoro afghano è ripartita. Con Cina e Russia in prima fila. Entrambe le potenze si sono affrettate a colmare il vuoto di potere aperto da Washington, tenendo aperto il dialogo con il nuovo regime non solo per rafforzare il controllo geopolitico dell’area (che peraltro si trova sulla Nuova via della seta cinese), ma anche per non precludersi l’accesso alle opportunità economiche che potrebbero schiudersi nel futuro.

Nella corsa alle risorse minerarie Pechino parte da una posizione di vantaggio, perché ha già in mano importanti licenze di estrazione – tra le poche concesse in passato da Kabul – di cui finora non è riuscita ad approfittare a causa delle difficoltà che da tempo ormai immemorabile affliggono il Paese: insicurezza, instabilità politica, corruzione diffusa, oltre a una grave carenza di infrastrutture di trasporto e di energia elettrica per alimentare le attività estrattive.

Il progetto più promettente (e anche il più contestato) è quello di Mes Aynak, nome che si traduce come “piccola sorgente di rame”, ma che in realtà è tutt’altro che piccola: si ipotizza anzi che possa essere uno dei maggiori depositi di rame al mondo in termini di dimensioni, con risorse di 11,5 milioni di tonnellate di metallo secondo il Governo afghano. Nel novembre 2007, in una gara che ha sollevato forti sospetti di corruzione, le cinesi China Metallurgical Group (Mcc) e Jiangxi Copper si erano aggiudicate per 3 miliardi di dollari un contratto di sfruttamento trentennale. Tuttora è il maggiore investimento straniero in Afghanistan. Ma il progetto – che prevedeva anche una centrale elettrica a carbone, una rete idrica e una ferrovia verso il Pakistan e l’Uzbekistan – è rimasto arenato. I lavori si sono rivelati più impegnativi del previsto, a causa dei frequenti attentati, di dispute contrattuali, di carenze di materiali, ma anche perché il luogo in cui i cinesi vorrebbero scavare un’enorme miniera a cielo aperto è un’area archeologica sede di antichi monasteri buddisti di valore inestimabile. Il progetto ha provocato una levata di scudi da parte di studiosi di tutto il mondo, ma con i talebani al potere ogni scrupolo potrebbe essere messo da parte.

«Potremmo considerare di riaprire le operazioni – hanno confermato fonti di Mcc al quotidiano cinese Global Times – dopo che la situazione si sarà stabilizzata e se ci sarà un riconoscimento internazionale, anche da parte della Cina, del regime talebano».

Anche i Buddha di Bamiyan, distrutti proprio dalle forze talebane nel 2001, si trovavano (un caso?) non lontano da un importante sito minerario: quello di Hajigak, un deposito che racchiude circa 2 milioni di tonnellate di ferro, che si estende per oltre 32 chilometri sulle montagne. Nell’area sono state identificate anche risorse di niobio, metallo raro e prezioso per le sue applicazioni nel settore della difesa (viene usato nei superconduttori, nei missili e nei mezzi spaziali). I tedeschi erano stati i primi a sfruttare Hajigak, ai tempi della Prima guerra mondiale. Dal 2011 i padroni di casa sono indiani: quattro delle cinque licenze minerarie assegnate dieci anni fa da Kabul sono andate a un consorzio di imprese guidato da Steel Authority of India, il blocco restante è invece della canadese Kilo Goldmines. Anche qui comunque, come nel maxi deposito di rame di Mes Aynak, l’attività estrattiva non è mai decollata davvero.

Miglior sorte ha avuto la licenza di esplorazione petrolifera assegnata sempre nel 2011, per una durata di 25 anni, alla China National Petroleum Corporation (Cnpc), relativa a tre campi lungo il fiume Amu Darya: la produzione è cominciata l’anno successivo, anche se i volumi sono rimasti molto limitati.

In Afghanistan ci sarebbe molto di più da sfruttare. Nel 2010 tra le province di Balkh e Jawzjan, nel Nord del Paese, erano stati scoperti 1,8 miliardi di barili di petrolio e gas. E poi c’è tutto il resto. A cominciare dalle terre rare, metalli hi-tech sempre più ricercati, e dal litio, indispensabile per le batterie, che nella provincia di Ghazni potrebbe essere abbondante almeno quanto in Bolivia. «L’Afghanistan diventerà l’Arabia Saudita del litio», aveva proclamato nel 2010 l’allora presidente Hamid Karzai, invitando le minerarie straniere a farsi avanti per investire nel Paese.

Ambizioni che si sono rivelate più simili ad utopie, col senno di poi. Eppure le speranze di Kabul poggiavano su solide basi scientifiche. L’Afghanistan è l’unico Paese al mondo ad essere stato esplorato palmo a palmo dai cieli, con ricognizioni aeree e tecnologie sofisticatissime, proprio con lo scopo di rintracciare depositi minerari. L’hanno fatto i militari Usa, proseguendo il lavoro (molto più “artigianale”) che avevano avviato i sovietici negli anni 80 del secolo scorso, durante l’occupazione del Paese. Il fortunoso ritrovamento in una biblioteca di Kabul delle mappe geologiche realizzate da Mosca e le successive ricognizioni hanno permesso nel 2007 al Pentagono di stimare la presenza in territorio afghano di risorse per un valore di almeno mille miliardi di dollari, petrolio e gas esclusi. Un successivo aggiornamento del rapporto, nel 2017, ha triplicato la stima: oltre 3mila miliardi di dollari, cifra che oggi quasi certamente è ancora più elevata.  (Il Sole 24 Ore)



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