“Questo libro non è pessimista. È la realtà che è pessima”.

Cultura | 31 dicembre 2020
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Questo libro non è pessimista. È la realtà che è pessima”. Il rimando sciasciano sintetizza il libro “Gli spaesati. Cronache del nord terrone” di Enzo D’Antona (Zolfo editore, pagg.197, € 17,00).

La storia muove da Iudeca, un’ineffabile paese dell’entroterra siciliano. Un luogo letterario che, come Regalpetra, assomma ogni paese del Sud. Iudeca è una zattera che galleggia su un mare di gesso e zolfo. È il primo romanzo di un giornalista di lungo corso, Enzo D’Antona. Siciliano di Riesi in provincia di Caltanissetta. Ex responsabile della pagina economica del quotidiano “L’Ora” di Palermo. Per dieci anni ha lavorato al settimanale “Il Mondo”, occupandosi di intrecci tra gli affari, la politica e la criminalità organizzata. Ha diretto la redazione palermitana del quotidiano “la Repubblica” e poi caporedattore dell’ufficio centrale a Roma. Ha diretto “la Città” di Salerno e “Il Piccolo” di Trieste.

Un romanzo insolito, eccentrico. La storia di un olocausto, come sottolinea l’autore. Pagine che hanno la serietà di un trattato sociologico e la leggerezza della scrittura di Umberto Domina. Il protagonista è Ghezio. In verità Enzo, ma nella prosa linguistica di Iudica, si anticipa sempre un singolare “gh”. È la storia del rapporto irrealizzato tra Meridione e Settentrione. Narra di spaesati, smarriti, sradicati. In francese il concetto ha un suono più elegante: dèpaysement, dèracinè. Questa è la storia di quando gli extracomunitari eravamo noi, i terroni. Terroni non era per niente una cosa spassosa, era la parte estetica del mai sopito razzismo italico. La prima scena è ambientata in un bar di Grugliasco, periferia ovest di Torino. Luogo di alta concentrazione di emigrati provenienti da Iudeca. I protagonisti sono giovani meridionali. Nutrono una speranza, più che altro un’illusione, quella di rimanere solo qualche anno e infine, ottenere il trasferimento e fare ritorno a casa. Partono in tanti, uno ogni dieci minuti, sei ogni ora, due sono laureati. Sbarcano in gelide stazioni del Nord. Appena arrivati, si tramutano subito in “Ultimi Arrivati”. Fino a qualche giorno prima, al grido di: “Avanti Savoia”, giocavano a lanciarsi issotte e cuticchi, sassi di fiume levigati. Cuticchio come i famosi pupari. I pupi de la Chanson de Roland che per uno dei protagonisti del libro, rappresentavano il riscatto. Ma la sua laurea in Lettere gli servirà solo per ottenere una supplenza. Insegnerà in un istituto tecnico della periferia milanese. 

D’Antona tratteggia con maestria personaggi incantevoli. Tra tutti, Mavalà, la ‘ngiuria, il soprannome di un operaio Fiat, reparto stampaggio a Mirafiori, aspirante geometra, il padre cantoniere all’Anas. Il soprannome lo guadagna a Parigi. Meta agognata quando era un nascente figlio dei fiori. Un solo obbiettivo, scopare e tornare vincitore al paesello per poi raccontarlo a tutti. Ma, come in ogni grande storia, incombe il destino. Ha il volto di una ragazza israeliana conosciuta all’ostello. Quando lei gli chiede: “Je voudrais faire l’amour avec toi”, l’intrepido eroe brancatiano, riesce solo a profferire un maldestro: “Ma va là”. E, come terribile tormento, sarà per tutti e per sempre, il meraviglioso Mavalà. C’è anche “Commosso”, quello che declina, per ore, le poesie di Prevert all’interno di una cabina telefonica: “Questo amore. Così tenero. Così disperato”. Borino invece, parte per Sampierdarena, troverà casa in via generale Cantone. Come si ostinerà a far scrivere nell’indirizzo delle cartoline. Generale Cantone che sarà oggetto di lunghe dispute con Milziade, novello cancelliere del tribunale di Genova. L’eroe contrappunto sarà il generale Cascino, rimando alla fidanzata di Piazza Armerina che tenta disperatamente di abbandonare al suo destino. Fulippu invece, sarà il primo meridionale a diventare più leghista dei leghisti.

Nel libro il Sud non è un punto cardinale, ma una sorta di aggettivo peggiorativo. Intere guarnigioni di meridionali si imbarcano sul treno del Sole, ferraglia che non aveva nulla di solare. Convogli impregnati di puzza di emigrazione, afrori dolciastri di tumazzi, fetori di sudore, olezzi di creolina. Nel 1968, si conta il record delle partenze, settantacinquemila, gli abitanti di una intera cittadina di provincia. Tra il 1961 e il 1971, saranno settecentomila a lasciare i loro paesi. Duecentomila nella sola Germania. Nell’edilizia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, il novanta per cento della manovalanza del triangolo industriale proveniva dal Sud. Erano quelli che costruivano i capannoni industriali e i palazzoni informi della pianura Padana. Era l’età dei concorsi. L’Homo migrans, era sparso dalla liquidità sociale dove capitava. La profezia degli operai massa che si trasformavano in operai sociali. Cancellieri, insegnanti, infermieri, bidelli, impiegati. Come aveva profetizzato in fumose assemblee padovane un “cattivo maestro”, inascoltato. Affittavano abitazioni scalcinate. Freddi sottoscala. Case di ringhiera con i cessi fuori. Le cene con i bastoncini Findus. Scoprivano la necessità di “gettarsi ammalati”, come disobbedienza civile. Una sorta di perequazione da deportazione. Disobbedienza civile, come quella prospettata dall’ideologo della Lega, il pelato professore Miglio, il pensatore che invitava a non pagare le tasse a Roma ladrona. Ma queste migliaia di emigranti, saranno sempre spaesati. Perché non sono partiti per vedere il mondo. Sono partiti perché avevano bisogno di un lavoro. In tutti quegli anni non si sono mai sentiti a casa loro. E non lo saranno mai. Non hanno dove andare e non sanno dove ritornare.

Il registro narrativo si alterna, passando dalla lucida elencazione statistica al parossismo narrativo surreale degno del buon Brancati. Ed ecco il Vov confortante post coito, dopo il sesso mercenario. Il rito dei fratelli di sangue nell’infantile gioco iniziatico. L’apartheid degli studenti meridionali bocciati al ginnasio dalla protervia di orribili insegnanti piemontesi. La rabbia di classe che si consumerà in un bovindo torinese al grido di: “Finestra, finestra”, una scena raccontata magistralmente, come in un film di Lina Wertmüller. Il cinema è un'altra costante del romanzo. Quasi una colonna visiva. Con abilità, l’autore lo utilizza per incastonare il rosario maledetto italiano. L’omicidio di Piersanti Mattarella. I picchetti davanti i cancelli della Fiat. Il caporeparto Vincenzo Bonsignore che muore d’infarto, tentando di forzare il blocco, l’origine della “marcia dei quarantamila”. L’omicidio di Guido Rossa. Forlani che rende pubblica la lista della P2 del gran maestro Licio Gelli. L’arrivo della Mafia al nord con il clan dei Cursoti. L’omicidio di Pio La Torre. Lo sbarco della ‘Ndrangheta in Lombardia. La nascita della Lega Nord. Le scritte sui muri contro i terroni. L’arresto del socialista Mario Chiesa e Tangentopoli. La Milano da bere di Ligresti, Sindona e Berlusconi.

Questo libro non è pessimista. È la realtà che è pessima”. Infatti, ancora oggi, dal 2000 al 2020, oltre due milioni e settecentomila meridionali sono andati via dal Sud. La Sicilia vanta il 41,8 % di disoccupati. Ogni giorno, continuano ad andar via 367 persone, il 33 % possiede una laurea. Il paradigma disperante è chiaro. La prima ondata migratoria girava al Sud ingenti rimesse economiche, inseguendo il sogno del ritorno. La seconda, è riuscita a sopravvivere ai margini di sconsolanti periferie metropolitane. La terza, quella che stiamo vivendo, resiste solo grazie alle rimesse dei loro genitori, economie che risalgono dal Sud al Nord. Devono svendere un appartamento di Iudeca per comprare al figlio un monolocale a Desio.

Un paese ci voleva per Mavalà, Commosso, Milziade, Fulippu. Non fosse che per il gusto di andarsene via.

 di Concetto Prestifilippo

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