Quell’umanità perduta nella “guerra” ai migranti
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta. Avremmo invece bisogno di tornare a un mondo in cui accogliere persone e sostenere chi chiede aiuto è solo un’espressione di umanità.
Le conseguenze del caso Sea Watch
Il Parlamento sta per pronunciarsi sul caso Matteo Salvini-Sea Watch e
si sa già come andrà a finire. Ma è l’occasione per una riflessione sul
rapporto tra azione umanitaria e radicalizzazione politica sul fronte
controverso dell’asilo.
In questi giorni, Salvini ha rivendicato i meriti della sua gestione, in
termini di quasi azzeramento degli sbarchi e delle morti in mare. In
realtà, il crollo degli arrivi deriva principalmente dagli accordi con
governo e milizie libiche dell’esecutivo Gentiloni-Minniti. Il ministro
dell’Interno del governo Conte ha solo completato l’opera, facendo
dell’Italia un paese che di fatto si sottrae sia al diritto di asilo
sancito dalla Costituzione, sia a consentire lo sbarco delle persone
tratte in salvo, minorenni compresi, come prevede il diritto del mare.
La confusione tra rifugiati, migranti economici, clandestini, tutti
etichettati come spensierati turisti in viaggio di piacere nel
Mediterraneo (“la pacchia è finita”, secondo i tweet di Salvini), è un
tratto consolidato della comunicazione governativa sull’argomento. Si
può obiettare che qualche micro-sbarco di tunisini continua ad avvenire,
che l’inverno già di per sé riduce al minimo gli attraversamenti del
mare con mezzi inadatti, ma il quadro non cambia: ha vinto la
disumanità. Resta da vedere se questa politica ha migliorato la vita dei
cittadini italiani, se ha promosso l’immagine del nostro paese sul
piano internazionale. Se ha fatto dell’Italia un paese migliore.
Nel frattempo, la Sea Watch è stata scagionata dalle varie accuse che le
erano state rivolte, con sollievo di molti simpatizzanti, malgrado
l’aggiunta che siano invece riscontrabili irregolarità amministrative:
in sostanza, dubbi sull’idoneità dell’imbarcazione a effettuare
operazioni di salvataggio in mare. Il punto richiama però un inquietante
scenario complessivo: ormai ogni operazione di salvataggio in mare è
oggetto non solo di aspre polemiche politiche, ma anche di approfondite
indagini da parte delle autorità inquirenti, con tanto di interrogatori
degli equipaggi e dei migranti tratti in salvo, minorenni compresi.
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni
indipendenti è diventato un’attività sospetta, di cui si analizza con
acribia degna di miglior causa la scelta di intervenire al posto delle
autorità libiche, di dirigersi verso i porti italiani anziché tunisini o
maltesi, di trarre in salvo le persone anche se non si è perfettamente
attrezzati per farlo. Senza tralasciare la pioggia di accuse preventive
da parte di diversi esponenti governativi, non solo il solito Salvini,
spacciate subito come certezza che la Sea Watch avesse commesso gravi
irregolarità.
È uno spettacolo mai visto prima in un paese a ordinamento liberale.
Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato un attacco alla
sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi chiude i porti e tiene
persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si
presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la
sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica. Il fatto che le
accuse cadano poi una dopo l’altra, senza neppure arrivare (almeno
finora) al dibattimento in aula, ne conferma la loro natura
pregiudiziale e politicizzata.
Assistiamo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha
come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da
estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne
polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare, servire pasti
caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e
posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza
politica all’autorità statale.
Avremmo invece bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla
Corte costituzionale francese in una storica sentenza del luglio
scorso: il principio di fraternità vieta di criminalizzare la
solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico.
Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo stato non può
perseguire.
Le risposte informali
Anche sul fronte opposto avviene un’evoluzione significativa. Quello
che chiamavano “l’umanitario” non è mai piaciuto alla gran parte degli
intellettuali critici e agli attivisti pro-rifugiati più radicali. Così
come non piaceva il volontariato: deboli interventi riparativi che non
mettevano in discussione le ingiustizie del sistema. Oggi li vediamo
invece schierati in difesa delle Ong, con lo stesso piglio assertivo
delle condanne di ieri, così come vediamo gruppi di attivisti impegnarsi
in azioni concrete di aiuto, dai corsi di italiano alla fornitura di
pasti, che altri definirebbero con il vecchio termine “volontariato”.
Tra l’altro, il decreto sicurezza, producendo un aumento delle persone
prive di protezione legale, accrescerà l’esigenza di interventi di
aiuto. Le persone comunque rimangono. Hanno un corpo e cercano delle
risposte ai loro bisogni. Se mancano le risposte istituzionali, sorgono
quelle informali. Si pensi per esempio alla tendopoli romana del centro
Baobab, che il governo ha sgomberato nei mesi scorsi. Chi crede che gli
immigrati privati del diritto di asilo finiscano per cedere e tornare
mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli.
Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Quindi, più
problematici per la società. Ben vengano dunque le iniziative che
cercano di far fronte all’emergenza annunciata: in un momento come
questo, tutte le energie che promuovono un supplemento di apertura e di
accoglienza sono da salutare con favore.
Forse, però, avremmo bisogno di tornare a un mondo normale, in cui
salvare vite, accogliere persone, sostenere chi chiede aiuto, non sia un
gesto né di destra né di sinistra, ma soltanto un’espressione di
umanità. (lavoce.info)
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