Quell’ ingiusto ostracismo che il cinema italiano inflisse a Lino Capolicchio
Cultura | 4 maggio 2022
Sempre inquieto, insofferente (all’ipocrita bon-ton), tendente al febbrile e a quella particolare forma di autostima che lascia intendere una suscettibilità inesistente, Lino Capolicchio (nato a Merano e scomparso a Roma, a 78 anni) ha probabilmente “dato” al suo lavoro, alla cultura e all’abnegazione che necessita, molto più di quanto abbia ricevuto. Senza tuttavia che tocchi a noi fungere da avvocati d’ufficio e non richiesti Disincantati, oltre tutto, dai ‘risarcimenti postumi’ che la società dello spettacolo e della conoscenza “potrà riconoscere” alla miriade di suoi creditori.
Protagonista – e beniamino- del cinema italiano anni 70, l’attore divenne noto al pubblico-medio quale protagonista, vibratile e vulnerabile, de “Il giardino dei Finzi Contini”, film premio Oscar di Vittorio De Sica tratto dal romanzo di Giorgio Bassani che gli valse pure un David di Donatello (Lino, per inciso, è morto la stessa sera delle assegnazioni annuali a Cinecittà).
Nato a Merano e cresciuto a Torino, l’attore era giunto a Roma poco più che ventenne per frequentare con profitto (e non facile esame di ammissione) l’Accademia nazionale di Arte Drammatica titolata a Silvio D’Amico.
In teatro, appena diplomatosi, aveva esordito ai massimi livelli (“Le baruffe chiozzotte”), sotto la guida di Giorgio Strehler e una solida scrittura al Piccolo di Milano, alternando la scena di prosa, con quel ‘film d’autore’ che, dopo gli esordi Bellocchio, Samperi, Faenza (per il quale fu protagonista di “Escalation”) sembrava affermarsi quale ‘sol dell’avvenire’ del cinema indipendente. Andò in altro modo, (e Capolicchio ne subì un discreto ostracismo), ma questa sarebbe un’altra storia- pur se di quegli anni restano da riscoprire almeno due titoli, in cui egli primeggia mediante una mimesi recitativa filtrata da un voluto sottotono, defilato ma polarizzante. Mi riferisco ad “Un apprezzato professionista….” di Giuseppe De Santis e “L’ultimo giorno di scuola…” di Gian V. Baldi, difficilmente reperibili anche in edizione home video.
Fra i titoli di maggior rilievo da annoverare anche “Metti, una sera cena” di Giuseppe Patroni Griffi, “Il giovane normale” di Dino Risi, “La casa delle finestre che ridono” di Pupi Avati, “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, “Mussolini, ultimo atto” di Carlo Lizzani. Quasi inossidabile il sodalizio con Avati, per il quale Capolicchio ha lavorato in “Noi tre”, “Jazz band”, “Le strelle nel fosso”, “Cinema!!” sino a “Una sconfinata giovinezza”(uno dei migliori film sugli sconvolgimenti familiari dell’Alzheumer) e al gotico-rurale “Signor Diavolo”( del 2019).
Sceneggiatore e regista ‘in proprio’, Capolicchio aveva espresso professionalità e competenza con Bohème al Teatro Giglio di Lucca (1988) e Manon Lescaut, -entrambi di Giacomo Puccini- al Teatro Rendano di Cosenza (1996). Così come un capitolo a parte meriterebbe (e meriterà) l’excursus della sua attività didattica presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, insegnante di recitazione e doppiaggio per giovani colleghi da lui incoraggiati e valorizzati: da Alessio Boni a Jaia Forte, da Pier Francesco Favino a Sabrina Ferilli, da Jaia Forte a Paolo Virzì,
Un solo aneddoto per dire il resto: quando a Francis Ford Coppola fu proposto un ruolo da attore in Italia (del film non se ne fece nulla), il regista volle che il suo insegnante fosse Lino Capolicchio. E. disciplinatamente, andò a lezione, a via Tuscolana, dalle 9 alle 16 di ogni giorno feriale.
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