Quel mondo limpido di Sciascia, senza carabiniere a cavallo
Cultura | 9 maggio 2016
La sensazione che ha chi legge Fine del carabiniere a cavallo(Adelphi), raccolta di scritti di Leonardo Sciascia tra il '55 e l' 89 a cura di Paolo Squillacioti, è quella di chi assiste a un esperimento scientifico trasformato in esibizione atletica temeraria, tra il varo di una mongolfiera e il lancio di unospace shuttle.
La prosa limpida e accecante di Sciascia, l' ironia severa che toglie lo stucco alle maschere dei luoghi comuni italiani senza cedere alla tentazione del cinismo, fanno alla mente quel che le correnti d' aria fanno nella stanza dello scirocco, magico luogo della casa siciliana inventato per resistere all' afa della controra: organi atrofizzati del linguaggio sono risuscitati; i pensieri si ravvivano e si puliscono.
Questi ritratti, "cronachette", elzeviri, saggi dispersi e recuperati, sembrano messaggi in bottiglia da un' altra era, popolata dagli scrittori che mondarono la lingua dalla gonfia e vuota retorica del fascismo, molti guidati dallo stesso spirito guida, "l' adorabile Stendhal": "Quel che lo stendhaliano ignora o trascura è appunto tutto quel che il fascismo esaltava. Il fascismo era noia e lo stendhalismo è peculiarmente il rifiuto della noia, il dilettarsi della vita".
Tra questi, l'"impartecipe" Alberto Savinio, delle cui cose scritte, dice Sciascia, "non c' è briciola che non splenda d' intelligenza"; il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il primo ad aver contestato "l' elogio del carabiniere a cavallo", l' emblema dell' ordine costituito (e "i carabinieri a cavallo già galoppavano nelle mussoliniane sfilate") a favore di una letteratura "in cui l' ordine costituito viene contestato"; Gesualdo Bufalino, che volendo leggere i Fiori del male in originale e non trovandone copia a Comiso, "si diede allora a un' impresa disperata e gioiosa: tradusse in francese la traduzione italiana". E, ancora, James Joyce, il cui Ulisse si "respirava nell' aria" e "si muove tra le macerie della cattolicità, tra i frantumi degli 'universali'" col "linguaggio del singolo che parla a se stesso, linguaggio da ultimo uomo, da Babele ultima"; o Tomasi di Lampedusa, che "ha vissuto il tardo dorato crepuscolo dell' aristocrazia siciliana", e quando un uomo ha vissuto un' ora simile "non può tener conto dei 'destini generali' né sciogliere, o tentare di sciogliere, le cifre dell' avvenire".
Se questi scritti sembrano impolitici, è perché per noi contemporanei chi non fa nome di partiti e dirigenti scansa l' attuale: e invece il sentimento prodotto nel maestro di Racalmuto dalla vicinanza con certi libri e autori ("qualcosa che somiglia alla felicità"), testimonia di Sciascia l' essere dentro la società con il suo carico di eterogeneità, quello che lui chiama "il mio istinto di avversione al fascismo". Così l' encomio di Leo Longanesi, che pure del fascismo abbracciò la parte conservatrice, è quello dell' uomo "meno rettorico d' Italia, l' antitesi perfetta del dannunzianesimo", e quello di Garcia Lorca, il poeta fucilato dai falangisti di Franco, quello di uomo ucciso dalla "collera degli imbecilli" ("Ogni forma di fascismo si realizza attraverso la collera degli imbecilli").
Sciascia parla di persone e voci di un' epoca a noi prossima a cui però guardiamo come a pezzi di un museo d' ombre (titolo di un "delizioso" romanzo di Bufalino). Così qualche vertigine la dà immaginare l' incontro tra Sciascia e Borges in un negozio di pelliccerie, a Roma: "dentro un gioco di specchi che dava come un doppio senso di ossessione: in sé e perché, in quel che vi vorticava - persone e cose -, generava l' impressione che si fosse come dentro una versione stupida, un rovesciamento, un contrappasso, del suo mondo fantastico". E non è escluso - e queste prodezze da atleta della lingua sembrano provarlo - che nel mondo del pensiero oggi viviamo nel rovescio, nella versione stupida del limpido mondo di Sciascia. (Il Fatto Quotidiano)
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