Quei ragazzi che uccisero il giudice ragazzino
Trentuno anni fa venne ucciso Rosario Livatino. Di quell’omicidio si sa tutto o quasi. Si sa perché venne deciso, si sa chi lo eseguì e si sa chi lo organizzò. Si sa come ebbe la genesi.
In primis fu un rappresentante di commercio del nord Italia, Pietro Ivano Nava, a dare l’input. Venne, giustamente, dipinto come un eroe. Disse agli investigatori di avere visto chi aveva sparato, lo riconobbe sia in un confronto all’americana sia nelle aule di Giustizia, e lo fece condannare. Poi le sue parole vennero confermate anche da chi decise di collaborare con la Giustizia.
Quest’ultimo, Giuseppe Croce Benvenuto, killer di Palma di Montechiaro, raccontò tutte le fasi preparatorie dell’agguato. Raccontò come la città di Canicattì era luogo privilegiato per incontri preliminari ad attività criminali. Parlò anche del testimone-eroe Pietro Nava. Disse che erano riusciti a scoprire indirizzo e numero di telefono e avevano pianificato di ucciderlo a Milano.
Benvenuto, poi condannato a 13 anni di carcere, affermò che fu Gianmarco Avarello, uno dei cinque killer del giudice, a sostenere la necessità di eliminare Livatino perché era stato nel collegio giudicante ed estensore della motivazione della sentenza che il 17 aprile 1990 aveva condannato a quattro anni per porto e detenzione illegale di una pistola i mafiosi Giovanni Calafato, Antonio Gallea e Santo Rinallo. Una condanna che i mafiosi ritenevano esagerata.
Nel corso dei vari processi venne anche fuori che Livatino venne ucciso perché quei giovinastri con la pistola facile dovevano dimostrare di essere “forti”. Quei giovinastri avevano vissuto fino ad allora ai “margini” della criminalità, ma volevano fare il grande salto. E se Cosa nostra aveva compiuto stragi ed ucciso magistrati, giornalisti, imprenditori, loro non dovevano essere da meno.
Ma chi erano loro? Erano poco più che ragazzi. Come lo era Rosario Livatino che due settimane più tardi del suo assassinio avrebbe compiuto 38 anni. Era un “giudice ragazzino” come lo definì l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: “Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia ed il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza. A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Era il 10 maggio del 1991 quando Cossiga pronunciò questa parole. Dieci anni dopo, con una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, smentì quelle affermazioni dispregiative fossero riferite a Rosario Livatino che definì invece “eroe e santo”.
Quell’affermazione “Giudice ragazzino” nel tempo per Rosario Livatino si è trasformata da dispregiativa in meritoria. Anche un film, a lui dedicato, porta quel titolo “Il giudice ragazzino”.
Ma ragazzini lo erano anche coloro che lo trucidarono. In quegli anni imperversavano da Palma di Montechiaro a Canicattì fino a Gela. Ma chi erano loro? Inizialmente “copiarono” le gesta dei “fratelli maggiori” di Cosa nostra. Poi cominciarono ad organizzarsi e vennero definiti stiddari. Erroneamente qualcuno disse che stiddari erano coloro che appartenevano alla Stidda, ovvero alla Stella. Ma fu uno di loro, stiddaro gelese, a dire che la definizione nasceva dal siciliano “stiddare”, spaccare da un pezzo di legno: tagliare, stiddare appunto, un pezzo di legno da un tronco d’albero. E loro gli stiddari erano un pezzo nato dopo la spaccatura da Cosa nostra. E proprio con Cosa nostra cominciarono una guerra che lastricò le strade del Nisseno e dell’Agrigentino di sangue. Centinaia gli omicidi. Non avevano paura, né timori. Giravano sempre armati per uccidere i rivali senza uno scopo preciso, ma solo per toglierli di mezzo.
Loro erano i
ragazzi del ghetto con un destino segnato. Percorsi obbligati. Troppe strade per
l’inferno, poche per il purgatorio, nessuna per il paradiso. Dal bronx di
Scavone o Settefarine a Gela, o dai bronx di Palma di Montechiaro, Favara,
Canicattì, ma anche da certi quartieri residenziali, si usciava marchiati a
fuoco, appena svezzati da famiglie disastrate e distratte. Loro erano vittime e
artefici della “dispersione scolastica”. In dote avevano il coraggio dei
disperati e l’anima tra i denti. Con la bieca determinazione di conquistare
quello che non avevano e quanto gli era stato negato. Figli di un dio minore di
un benessere indovinato dietro le vetrine, visto sfrecciare a cavallo di grosse
moto luccicanti, respirato nelle strade del centro città ma irraggiungibile
come un miraggio. E dai ghetti si usciva per espiare il peccato originale. Loro
cominciarono a copiare i “fratelli maggiori”. Cominciarono a chiedere il pizzo,
e lo imposero anche. A poco a poco divennero un esercito. Cominciarono a
tessere alleanze con i loro pari di città diverse. Gli agrigentini andavano nel
Nisseno a compiere omicidi e lo stesso facevano i nisseni nell’Agrigentino.
Scambi di favori e di killer. In poco tempo si trasformarono da ragazzi dei
ghetti a soldati di mafia. Per molti di quei ragazzi il destino era segnato. Le
loro storie sembravano identiche ma non era così. Ciascuno, nonostante i soprannomi
truculenti e pittoreschi si portava dentro domande essenziali a cui nessuno ha,
ancora oggi, dato risposte. L’unica certezza è che hanno irrimediabilmente
perso la loro gioventù e in moltissimi
casi anche la vita.
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