Quanto è cambiata la Chiesa dal dopoguerra ad oggi

Cultura | 29 gennaio 2021
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Quanto è cambiata anche la Chiesa cattolica nella recente storia dal dopoguerra ad oggi, dal periodo della guerra fredda al crollo del muro di Berlino, dal Concilio Vaticano secondo alle conseguenze di una globalizzazione dominante senza controlli democratici! La Chiesa ha recuperato l’ispirazione evangelica originaria esaltando sempre più l’unità tra fede e impegno civile per un cambiamento profondo della società con al centro la persona umana, non il profitto predatorio “del Dio mercato”.

 La lettera che pubblichiamo è una piccola testimonianza del clima che la mia generazione ha vissuto negli anni della guerra fredda oggi superato dalle politiche sociali e di fede della Chiesa del terzo millennio. Silvana Speciale, scomparsa qualche anno fa, era figlia di Peppino Speciale, deputato nazionale del PCI negli anni sessanta col quale, diciannovenne, ho fatto, nel 1963, il mio primo comizio inaugurando la prima sezione del PCI a Casteldaccia intitolandola a Andrea Raia, prima vittima comunista della mafia nel 1944. L’episodio raccontato da Silvana, mia amica e compagna di studi , è una piccola ,ma preziosa, testimonianza da fare leggere soprattutto ai giovani.

Vito Lo Monaco


      In questi giorni ho letto con interesse i vari articoli celebrativi dei cento anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano ed altri altrettanto belli riguardanti la vita del compagno Emanuele Macaluso, venuto a mancare qualche giorno fa. Personaggi e storie di un' Italia ad oggi completamente trasformata ed irriconoscibile. Racconti davvero di un altro secolo, dove la moralità, la dignità, l'onestà, il valore della difesa dei più deboli erano alla base di scelte di vita e politiche. Io ho vissuto una piccolissima parte della vita del PCI prima che venisse trasformato in un qualcosa che faccio molta difficoltà ad inquadrare in quegli ideali che mi sono stati trasmessi attraverso immagini e racconti, prima da mio nonno, e poi da mia madre che invece aveva vissuto quel periodo degli anni 50, 60 e 70 seguendo e condividendo i passi di suo papà nel suo lavoro e nella politica (quella bella, quella delle lotte per i diritti dei contadini e degli operai ed antifascista). Mi piace, in questo contesto, condividere (per chi avrà voglia e pazienza di leggere) una lettera che mia madre scrisse per la celebrazione dei 90 anni del giornale L'unità  in cui si possono evincere e comprendere i principi e lo spirito che accompagnavano i militanti del Partito comunista italiano perché vengano sempre ricordati oggi e nel futuro. Un momento storico vissuto da una bambina di quel tempo in una Sicilia degli anni 50. Un racconto davvero d'altri tempi, purtroppo....!


 Essere comunisti negli anni cinquanta in Sicilia. 

                                                                                       di Silvana Speciale


Mercoledì 12.2.2014 il quotidiano l’UNITA’ , fondato da Antonio Gramsci, ha compiuto novant’anni. Il pensiero non poteva non  andare a mio padre che  fu giornalista di questa antica e prestigiosa testata.

Cosi, nei giorni scorsi, “smanettando” su internet ho trovato nell’archivio de L’Unità un articolo scritto da mio padre nel 1951 e riguardante la dura lotta che gli zolfatari del nisseno, dell’ennese e dell’agrigentino stavano conducendo in quel periodo per cercare di conquistare condizioni di lavoro  “umane”.  E subito mi è tornato alla mente un ricordo che, sebbene fossi solo una bambina, (nel 1951 avevo sette anni), è rimasto vividamente impresso nel mio cuore. 

Vivevamo allora in una modesta casa di via Ciullo d’Alcamo a Palermo. I giornalisti de L’Unità avevano (quando li avevano…) magri stipendi e la mamma non lavorava ancora. Ma pur conducendo una vita molto austera a me non fu fatto mancare mai nulla ed io ero una bambina felice, malgrado i miei gravi problemi di salute. Un giorno, tornando a casa, papà raccontò che lo sciopero dei minatori era in corso già da tempo e che per ottenere qualche risultato era necessario che la protesta continuasse. I già poveri salari di quei lavoratori, ovviamente, non venivano pagati e le botteghe di alimentari non intendevano far loro credito. Si poneva un grave problema di sopravvivenza soprattutto per l’alimentazione dei bambini. Così il Partito Comunista aveva deciso che tutti i compagni che avessero voluto e potuto farlo, avrebbero dovuto ospitare nelle proprie case, fino alla fine degli scioperi, uno o più figli di quei lavoratori in lotta alleviando in  tal modo, almeno in  parte, le loro sofferenze. Papà aveva dichiarato la propria disponibilità ad ospitare una bambina che avesse più o meno la mia età. Sarebbe arrivata da li a qualche giorno. La mamma, quindi, avrebbe dovuto occuparsi dell’organizzazione dell’ospitalità, mentre a me fu raccomandato di essere accogliente e affettuosa verso una bambina poco fortunata.

Attesi con ansia  l’arrivo della mia coetanea; la novità mi elettrizzava anche perché avrei avuto( allora ero figlia unica) una compagna di giochi con cui condividere ore gioiose ed i miei pochi giocattoli: la mia bambola Susi, le mie costruzioni di legno, il caleidoscopio, la corda e la palla.

Anche i libri avremmo potuto leggere insieme da Pinocchio alle favole di Andersen e dei fratelli Grimm, da “I ragazzi della via Pàl” a  “La capanna dello zio Tom”.  Papà mi aveva educato presto al valore della lettura e prima che cominciassi, a cinque anni, a farlo da sola spesso era lui che mi leggeva moltissime pagine della letteratura classica per l’infanzia. La domenica, poi, mi comprava “Il corrierino dei piccoli” anche se io avrei preferito “Topolino”.  Ma i figli dei comunisti di quei tempi non dovevano leggere fumetti americani…, cosi dovevo accontentarmi del “Corrierino” con “Bibì e Bibò“, il signor Bonaventura, Petronilla ed Arcibaldo o , peggio, de “Il pioniere” , giornalino per i piccoli comunisti dell’Unione Sovietica, distribuito nell’edizione italiana nelle case dei compagni da altri compagni che si occupavano della distribuzione militante della stampa comunista: l’Unità, Noi donne, Rinascita, ed altro. Insomma, non sarebbero mancate le letture alla mia piccola amica. Le avrebbe gradite ?  Sapeva leggere? Aveva potuto frequentare la scuola? 

L’attesa non durò a lungo. La bambina arrivò accompagnata dai suoi genitori che l’affidarono ai miei lasciandola con grande tristezza e con la speranza che gli scioperi avessero termine presto. 

Non ricordo come si chiamasse, purtroppo, ma mi sono rimaste sempre nella mente le sue sembianze: biondina., con gli occhi chiari e la pelle chiara, magra, con i tratti del volto così delicati da sembrare di cera. Era timidissima, quasi impaurita dalla situazione in cui si era venuta a trovare, lontana dalla sua famiglia, dalla sua casa, dal suo paese.  Un velo di malinconia rendeva i suoi occhi meno vivaci.

Facemmo di tutto per farla sentire a suo agio. La mamma , che sapeva cucinare molto bene, preparò piatti golosi ed anche qualche torta, la vestì come meglio poteva, la portò dal parrucchiere per sistemare il taglio dei suoi capelli biondi ed ondulati.

Io ero ben lieta di trovarla a casa al ritorno dalla scuola ed ero pronta a coinvolgerla nei miei giuochi. Papà, nel suo poco tempo libero, faceva quello che di solito faceva con me: ci leggeva una favola, ci parlava di molte cose ed anche della sua infanzia, del mitico cane Aspano, di Palidda, dei suoi nonni, della tenuta di “Villa Lentini”, ci portava a fare qualche passeggiata a piedi,  (a quei tempi non avevamo l’automobile), a prendere un gelatino.

La sera, quando non faceva molto tardi con il lavoro, sedevamo tutti sulle nostre poltrone vicino ad una panciuta stufa a legna e ascoltavamo le trasmissioni radiofoniche che ci arrivavano da un anch’esso panciuto e grande apparecchio che troneggiava in quella stanza soggiorno-pranzo.

Trascorsero alcuni giorni e la bambina appariva rassicurata, quasi contenta di quella sua nuova vita anche se l’assenza dei genitori e la lontananza dalla propria casa e dal proprio paese mantenevano sul suo viso qualche segno di smarrimento.

Una mattina, però, bussò alla porta della nostra casa una donna vestita di nero, con in testa uno scialle nero. In quegli anni accadeva, specie nei paesi, di vedere le donne così abbigliate. Il lutto si portava per lungo tempo in relazione anche al grado di parentela che correva con il defunto. Pertanto, le donne non facevano a tempo a smettere i panni neri per un lutto che, con frequenza, dovevano indossarli per uno nuovo intervenuto nel frattempo. La donna era visibilmente preoccupata ed in ansia e la mamma non tardò a riconoscere in lei la madre della nostra piccola ospite. Pensò che avesse affrontato i disagi del viaggio, tra treni e corriere, per vedere la propria figlia o per annunciare che lo sciopero si era concluso vittoriosamente. La fece accomodare e le mostrò subito la sua bambina, tranquilla, ordinata, nutrita. La donna l’abbracciò con foga e, una volta rassicurata, si decise a svelare il motivo della sua improvvisa visita. Il parroco del paese aveva detto a tutti i genitori che avevano transitoriamente affidato i propri bambini a famiglie di compagni per sottrarli alla fame ed alle privazioni, che “i comunisti i  picciriddi si mancianu chi patati”. Lei quindi, sgomenta e terrorizzata, era corsa a Palermo per riprendere la propria bambina prima che finisse apparecchiata in una delle nostre teglie…

La mamma e io non credevamo alle nostre orecchie!

Sapevamo quale fosse la posizione della Chiesa nei confronti dei comunisti, scomunicati da Papa Pacelli che negò loro di poter fare da padrini o madrine, di ricevere la comunione di contrarre matrimonio in chiesa e di avere funerali religiosi. Ma che “la reazione clericale”( anche se non si poteva generalizzare, in quanto si aveva notizia di qualche parroco solidale con i lavoratori in lotta e di uno addirittura punito e trasferito in Argentina per aver benedetto le bandiere rosse )  potesse arrivare a sostenere simili orrende assurdità non potevamo crederlo.

Io ne rimasi fortemente impressionata.

Adoravo mio padre che ho sempre ritenuto il migliore che potessi avere ed il solo pensiero che per il sol fatto di essere comunista potesse essere sospettato di simili misfatti mi faceva star male. Ma i comunisti non stavano dalla parte degli umili, dei poveri, degli sfruttati, del lavoratori ? E la Chiesa da che parte stava? Non avrebbe dovuto difendere la salute, la vita, la dignità, la vita civile e sociale di quei poveri minatori in buona parte costituiti anche da bambini-lavoratori , i cosiddetti “carusi “ , utilizzati perché i loro piccoli corpi più facilmente potevano addentrarsi nei cunicoli più stretti e pericolosi delle miniere, destinati a subire a seguito di ciò gravi danni alla loro sana e corretta crescita.

Su questo argomento tante cose le capii solo crescendo e studiando; ma allora ascoltare certi giudizi mi lasciava sgomenta. Inoltre mio padre aveva uno zio monsignore che, forse, non pensava che mangiasse i bambini, ma comunque lo considerava la pecora nera della famiglia. Aveva pure certe cugine nubili, anziane e bigottissime, dall’aspetto tanto inquietante da essere chiamate in famiglia “i quatri antichi”,  le quali le rare volte che le incontravo mi dicevano:” ricci a to patri ca si cunverte , vasinnò l’aspettanu li fiammi di l’infernu”.

Ma perché mio padre che era un uomo retto, animato da un grande ideale, sarebbe dovuto andare all’inferno? Perché era comunista? Nella mia testa di bambina questi interrogativi si aggiravano molesti. Da grande sono sempre andata orgogliosa di quel padre comunista stimato ed apprezzato da tutti, convinta come sono che è stato dalla parte giusta, che ha speso bene la sua vita e che oggi che non è più certamente non è avvolto da “li fiammi di l’infernu”.

Ma per tornare a quella mattina di più di sessant’anni fa e alla mia piccola amica di allora, ricordo che la mamma, superata l’iniziale incredulità, cercò in tutti i modi di convincere la donna che il suo parroco aveva detto delle ignobili falsità e che sarebbe stato meglio lasciare la sua bambina presso di noi sino alla fine degli scioperi. D’altronde, come aveva potuto constatare, la piccola stava bene e non correva nessun pericolo. Telefonò anche a papà alla redazione de L’Unità per informarlo dell’incredibile accaduto ed affinchè anche lui parlasse con quella madre, cercando di convincerla a non portar via la figlia.

Ogni tentativo fu vano: le parole del parroco erano più credibili di quelle di una famiglia comunista e dell’evidenza stessa. La madre decise che la figlia sarebbe tornata con lei in paese, a casa. 

Restammo tutti dispiaciuti e, forse, anche la mia piccola amica, pur felice di tornare in famiglia, andò via con tristezza. Non avevamo nessun diritto, tuttavia, di osteggiare la legittima decisione materna. 

Io tornai ai miei giochi solitari ma non mancai di chiedere sempre a papà notizie sulla mia amica di qualche giorno, sull’andamento degli scioperi, sulla loro conclusione (ancora nel 1953 un successivo sciopero regionale degli zolfatari durò ben sessantatre giorni).

Non l’ho più rivista quella dolce bambina nè so nulla di lei. Oggi mi domando se la vita è stata con lei più generosa di quel che preannunciava allora, se è rimasta in Sicilia o ha dovuto emigrare con la sua famiglia, se è nonna come me. Si ricorderà anche lei di quei giorni trascorsi a Palermo ospite di una famiglia di comunisti che voleva aiutare suo padre a conquistare qualcosa di migliore per il futuro? Le avranno raccontato che ha corso il pericolo che quei comunisti la cucinassero ”chi patate”?

Tanti ricordano che queste cose ed altre anche peggiori, si dicevano allora dei comunisti e non solo in Sicilia.  Peppuccio Tornatore, che ha vissuto quel periodo, lo racconta nel suo film Baharia. Ma molti non sanno, specie i giovani, che se oggi il racconto di un episodio simile può suscitare l’ilarità allora era ritenuto pura verità.

Quanto era difficile essere comunisti!


Palermo, 18 febbraio 2014




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