Quanta instabilità nei contratti a termine
LA DIFFERENZA TRA DUE CONTRATTI
Il Jobs Act ha abolito la possibilità del reintegro per un lavoratore licenziato ingiustamente, per sostituirla con un indennizzo monetario: l’obiettivo è di incentivare le assunzioni con i nuovi contratti a tempo indeterminato invece che con i contratti a termine (o contratti a tempo determinato di vario genere). I critici di questa impostazione sostengono che un contratto a tempo indeterminato senza l’articolo 18 e la protezione del reintegro non è diverso da un contratto a tempo determinato ripetuto tante volte (in cui quindi il lavoratore è continuamente occupato). L’argomento è che se c’è libertà di licenziare, pur con una cospicua indennità monetaria, allora i due tipi di contratto non sono molto diversi. Ma è un argomento errato perché il contratto a termine ha una scadenza definita, mentre un contratto a tempo indeterminato necessita comunque di un motivo valido di licenziamento per essere interrotto. A causa del loro orizzonte necessariamente limitato, i contratti a termine non offrono la possibilità di un investimento duraturo del lavoratore nell’impresa e dell’impresa nel lavoratore, che è realizzabile solo in un contratto a tempo indeterminato. Ciò si traduce in una maggiore instabilità delle carriere dei lavoratori a tempo determinato.
L’EFFETTO SUI SALARI
L’instabilità dei contratti a termine è stata studiata per lo più in termini
di maggiore probabilità di avere periodi di disoccupazione o inoccupazione (o,
al massimo, per l’estrema difficoltà di ottenere un mutuo in banca).
L’instabilità dei salari per i lavoratori a termine durante i periodi di
occupazione è invece un fenomeno meno noto, ma altrettanto rilevante. Per
instabilità si intende quella parte della variazione del salario che è
indipendente dal capitale umano del lavoratore, quindi spesso imprevedibile: si
pensi ad esempio alla fluttuazione dei redditi di chi deve trovarsi un nuovo
lavoro a seguito di una crisi aziendale. Periodi prolungati di instabilità
salariale generano incertezza e influiscono negativamente sul benessere
individuale. Anche assumendo che un lavoratore sia continuamente occupato in un
contratto a termine, quanto è più instabile il suo profilo di salario?
Per
identificare l’effetto della diffusione dei contratti a termine sull’instabilità
media dei salari di diverse generazioni di lavoratori si possono studiare le
storie salariali dei lavoratori italiani utilizzando le riforme Treu (1997) e
Biagi (2001 e 2003). In un nostro lavoro abbiamo utilizzato i dati Inps sui
redditi annuali lordi di un campione di circa 50mila lavoratori dipendenti
maschi continuamente occupati, prima e dopo l’introduzione delle riforme Treu e
Biagi. E i risultati mostrano come quelle riforme abbiano fatto aumentare il
grado di instabilità dei salari, rendendo più incerta la traiettoria dei redditi
nell’arco della vita lavorativa. Come spesso accade, le riforme non hanno
colpito tutto il mercato del lavoro in modo uniforme, ma hanno riguardato molto
di più i giovani. La figura sotto mostra l’instabilità media del salario delle
generazioni in cui l’incidenza dei contratti a termine è inferiore al 5 per
cento e quelle per cui l’incidenza supera il 10 per cento dello stock dei
contratti. Prima delle riforme, i giovani avevano un livello di instabilità di
circa l’80 per cento più elevato rispetto a quello degli anziani; dopo le
riforme, il rapporto diventa 2 a 1. Dunque, le riforme hanno aumentato
l’instabilità di più del 10 per cento.
In conclusione, anche a parità di occupazione, un lavoratore a termine ha redditi più instabili di un collega a tempo indeterminato. La ragione va attribuita ai fenomeni di apprendimento e investimento che caratterizzano il rapporto lavoratore-impresa. In sostanza, durante i primi anni del rapporto di lavoro impresa e lavoratore si conoscono e investono nella relazione. Tuttavia, questo è vero nel caso di rapporti a tempo indeterminato, non in quelli a termine, il cui esito scontato non incentiva alcun investimento. Ad esempio, abbiamo calcolato che in Italia nei primi tre anni del rapporto di lavoro il grado di instabilità si riduce del 20 per cento all’anno; valori analoghi sono stati calcolati anche per gli Stati Uniti.
INCENTIVARE LE TUTELE CRESCENTI
Questi risultati suggeriscono alcune riflessioni rispetto alla riforma del mercato del lavoro. Il decreto Poletti del marzo 2014 ha liberalizzato l’utilizzo dei contratti a termine, che possono essere rinnovati per cinque volte nel corso di tre anni senza fornire una causale. Pur con tutti i dovuti distinguo per la differente fase storica in cui ci troviamo (peraltro il nostro studio potrebbe tratteggiare scenari ottimistici, visto che oggi i contratti a tempo determinato sono ben più diffusi di quanto lo fossero alla fine degli anni Novanta), sembra di poter affermare che l’ulteriore liberalizzazione dei contratti a tempo determinato renderà più instabili le carriere reddituali, in particolare dei lavoratori più giovani, rischiando di aumentare il dualismo, anziché ridurlo. Il contratto a tutele crescenti è molto più idoneo a “stabilizzare” i rapporti di lavoro proprio perché interviene riducendo i costi di licenziamento nella fase iniziale, quella in cui hanno luogo i processi virtuosi di apprendimento di impresa e lavoratore. Deve però competere con i contratti a termine. Per indurre le imprese a utilizzare il contratto a tempo indeterminato invece del contratto a tempo determinato, sono previsti generosi sgravi contributivi per le attivazioni del 2015. Ma dal 2016, quando gli incentivi fiscali saranno esauriti, è necessario restringere in qualche modo la flessibilità di utilizzo del contratto a termine, attraverso la reintroduzione della causale o di un costo di non-trasformazione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato.(info.lavoce)
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