Quanta ferocia, ne valeva la pena presidente Putin?

Società | 25 maggio 2022
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1.Pretese giustificatorie
Ne valeva la pena presidente Putin? Mentre scriviamo queste pagine tutto possiamo ipotizzare tranne quale sarà l’epilogo del conflitto russo-ucraino. Quando finirà. Come finirà. Se finirà. La sistematica distruzione da parte delle truppe di Mosca di infrastrutture – ospedali, scuole, edifici pubblici, musei, abitazioni – alimenterà un odio senza fine per chissà quante generazioni tra i due popoli. Gli stupri, gli assassini di civili a sangue freddo, gli atti di terrorismo psicologico e fisico su individui inermi, gli ucraini “desaparecidos”, le esecuzioni sommarie immotivate, le violenze spiegabili solo come strumento di intimidazione della popolazione non saranno mai dimenticati. Gridano vendetta e saranno implacabile motivo di corti penali, di decine se non centinaia di processi.
L’esercito russo ha mostrato inattese deficienze. O piuttosto fallimentari carenze. Nelle strategie, nelle tattiche, nelle catene di comando, nei posizionamenti sul terreno, nella determinazione a combattere. Soccombente di fronte all’orgoglio eroico di chi sul fronte contrapposto difende famiglia, casa, terra. Da una parte l’aggressore. Dall’altra la resistenza di un intero popolo.
Annunciando l’attacco il presidente della Federazione Russa aveva elencato, bene in cima tra le sue pretese giustificatorie, – in ogni caso inammissibili perché nel 2022 in Europa nessuno stato, specie se sulla carta più forte, si deve permettere di attaccare uno stato di minore consistenza – una considerazione che aveva lasciato il segno. A suo avviso “non esiste l’identità ucraina”. Ebbene, l’Ucraina sul campo gli ha dimostrato, esattamente al contrario, di essere una nazione. Un popolo di fortissima identità nazionale. Persino fin troppo nazionalista.
Anche la seconda importante pretesa giustificatoria di Putin ha fatto cilecca. Gli si è rivoltata contro. Con questa guerra siamo passati dall’obiettivo di allontanare la Nato dai confini della Russia ad una situazione opposta. Con l’adesione all’Alleanza Atlantica di due paesi storicamente neutrali, Finlandia e Svezia, ora l’intera frontiera occidentale della Federazione Russa, non più dal Mar Baltico ma ora dal Mare Artico al Mar Nero, confina con paesi aderenti alla Nato. Un vero colpo da maestro, presidente Putin. Roba da proporla per meriti speciali alla carica di Segretario Generale onorario dell’Alleanza Atlantica!
Sul fronte energetico sappiamo invece come sta andando. Guardare la cartina dei gasdotti verso l’Europa in attività o in progettazione, da Russia, Norvegia, Turchia, Africa settentrionale è diventato un esercizio che somiglia ad un tic. Come guardare il display dello smartphone per sincerarsi dell’arrivo di messaggi e chiamate, come guardare la riserva del carburante sul cruscotto dell’auto, la quantità di pane in dispensa o quella dell’acqua nel serbatoio di casa. Abbiamo familiarizzato con sigle astruse di gasdotti finora padroneggiate solo dagli addetti ai lavori: North Stream 1, North Stream 2, Northen Light, Yamal, Progress, Soyuz, White Stream, Blu Stream, Tanap, Turkish Stream, Eastrmed, Greenstream, Transmed. Con l’auspicata urgenza di chiudere quelli che si dipartono dall’immenso territorio russo. Rimpiazzandoli quanto più possibile con altre forniture da Algeria, Libia, Congo, Egitto, Angola, Mozambico, Azerbaigian, Stati Uniti, anche con navi metaniere dove non sono in esercizio gasdotti. Con aggravio di costi.
Il prezzo del gas dal mese di gennaio del 2021, e quindi da ben prima dell’inizio del conflitto, è quintuplicato sui mercati di approvvigionamento. Un settore in preda alla più insensata speculazione. Foriero a cascata di insostenibili, devastanti rincari nelle bollette di famiglie ed imprese. Le une e le altre rischiano come mai in passato di essere travolte se aumenti e manovre speculatorie non si attenueranno.
Pur con mille “stop end go”, ritardi, distinguo ed avvitamenti a causa del fondato rischio di restare al freddo e di dover bloccare produzioni, nel giro di due-tre anni l’Europa – anche a costo di confrontarsi con una seria crisi energetica, passeggera, ci tranquillizzano, ma non troppo aggiungiamo noi – finirà per affrancarsi dal tossico e ricattatorio acquisto di petrolio e gas russo. Finirà l’albero della cuccagna per le finanze russe. Mosca comunque coltiverà sbocchi di rimpiazzo del suo export energetico in altri mercati, in Cina, India, altri paesi asiatici. Finirà la pistola puntata sulle economie ed addirittura sulla vita quotidiana dei cittadini europei da parte di uno stato ostile. La leadership di Mosca ha sempre guardato all’Unione Europea con sufficienza, sottovalutazione, spregio. Ridacchiando delle istituzioni di Bruxelles, dei principi ispiratori dell’UE. Troppe discussioni, troppe riunioni, troppe mediazioni rispetto al modello prima sovietico e poi putiniano in cui pochi decidevano e adesso solo uno decide e gli altri eseguono. Con sensibile velocizzazione dei tempi del “decision making”. Per Mosca se credi ai valori fondanti dell’Unione Europea, se credi alla libertà, alla democrazia, al dialogo, al confronto per costruire insieme una decisione sei un debole. Ancora e sempre torna il contrasto insanabile tra due concezioni: tra democrazia ed autocrazia. Tra chi viene votato ed eletto per cariche a tempo e tra chi perpetua il potere. Tra libertà e chiusura sistematica sempre più opprimente degli spazi di libertà.

2.Una guerra “preventiva”?
Proponiamo tra i tanti “perché” che hanno spinto Vladimir Putin alla sua sconsiderata azione una ulteriore tesi che non si riscontra nelle analisi d’ogni genere finora lette od ascoltate. La seguente: e se il boss del Cremlino fosse meno andato di testa di quanto in troppi ritengono ed abbia voluto con la sua aggressione dare il via ad una guerra “preventiva” per far saltare tutte le strategie proiettate – soprattutto in Occidente – all’adozione di energia pulita (solare, eolico, idrogeno e via discorrendo) che prima o poi avrebbero portato inesorabilmente alla chiusura dei suoi gasdotti? O in ogni caso se non alla chiusura ad una massiccia riduzione delle sue forniture? Di fatto ad un drastico ridimensionamento dell’importanza dei rubinetti del gas e del petrolio. Ai quali l’Europa è legata come un paziente affetto dalla cosiddetta “fame di ossigeno” lo è ad una bombola di ossigeno o ad una attrezzatura per la respirazione ventilata? Si sa che in un conflitto - specie se di imprevedibili proporzioni e conseguenze in epoca moderna, nella quale la guerra è sempre più distruttiva perché non relegata ai campi di battaglia ma combattuta distruggendo centri abitati e colpendo civili ed infrastrutture - una delle prime vittime diventa l’innovazione. Scientifica in genere. Dunque anche energetica. Con l’eccezione dei ritrovati di morte tecnologicamente avanzati che si sperimentano in campo militare per i quali al contrario innovazione e ricerca accelerano. Le scadenze fissate nei periodici consessi mondiali sull’emergenza climatica, le nuove ed ambiziose politiche energetiche di allontanamento da carbone, petrolio e gas proposte dall’Unione Europea, le spinte del popolo di Greta Thunberg, dei giovani, dei “Friday for future” – potrebbero aver pensato il padrone della Russia, il suo apparato militare, i suoi oligarchi tanto legati al business degli idrocarburi – ci danneggeranno. Che tutte queste rivoluzioni climatico-energetiche siano quanto più rimandate nel tempo e nei decenni. Che a cominciare dall’Europa così assetata di energia e così esposta capiscano di non potersi staccare tanto facilmente dai nostri tubi di ossigeno energetico. Dal gas e dal petrolio russi, voce più che fondamentale dell’export di Mosca e delle sue entrate monetarie. Aerei e carri armati del resto vanno avanti ad idrocarburi, non ad idrogeno o ad energia eolica. E pannelli solari installati dappertutto nei centri urbani come nei borghi rurali, nelle grandi fabbriche come nelle piccole fattorie ridurranno non di poco negli anni le esportazioni del gas russo.
Anche questo proposito, non sappiamo quanto reale o recondito, gli si è sgonfiato tra le mani. Per quanto, almeno per ora, va ammesso senza troppi annacquamenti o giri di parole che le tanto strombazzate sanzioni contro la Russia di Washington e quelle “a puntate” di Bruxelles - lungi dal provocare gli sfracelli sull’economia e sulle finanze di Mosca annunciati da Joe Biden e da Ursula von del Leyen - stiano facendo solo un solletico alle casse pubbliche russe. E forse creando più problemi e danni a chi le vara. Al solito: a cominciare da quelle all’Italia deliberate della Società delle Nazioni nel 1935-1936 per punirla dell’aggressione coloniale all’Etiopia e proseguendo fino a quelle che colpiscono Iran e Corea del Nord, le sanzioni sempre più si dimostrano una arma spuntata. Tutt’altro che decisiva. Paradossalmente troppo punitiva per chi le applica piuttosto che per chi le subisce. Le tanto declamate “pesantissime” sanzioni alla Russia del 2022 non sfuggono a questa regola.

3.Guerra, affari e fame
Una lettura in chiave economica della guerra Russia-Ucraina è non meno necessaria di una lettura in chiave strategica. Troppo poco si è scritto sulla certezza che il Donbass non può che essere definito una sorta di Lombardia dell’Ucraina, il cuore pulsante dell’economia mineraria ed industriale del paese. Le distruzioni della guerra hanno ridotto in cumuli di ferraglia e rovine stabilimenti e produzioni. Ma i minerali, a cominciare dalle ben presenti “terre rare” necessarie per la componentistica informatica e telefonica, nel sottosuolo dei distretti minerari rimangono estraibili, conservati, recuperabili. Alla Russia - paese non al passo di Indo-Pacifico, Stati Uniti, Europa nelle nuove applicazioni tecnologiche - questo tesoro sia nel sottosuolo che in superficie di miniere, “terre rare”, produzione siderurgica su cui mettere le mani fa gola. Infrastrutture per ora distrutte ma ricostruibili.
Così come fa gola – altra spinta motivazionale o compretesto dell’invasione – il controllo del grano ucraino. Una operazione speciale come era stata definita di poche settimane, qualche carro armato con la famigerata Z agli incroci delle città ucraine occupate senza sparare tanti colpi, un governo fantoccio filorusso insediato a Kiev come in tante altre capitali regionali dell’ex impero zarista, sovietico, putiniano nel passato e l’oro giallo delle pianure ucraine sommato al grano delle pianure russe avrebbe significato per la superpotenza Russia un decisivo controllo sull’alimentazione planetaria. Altro che soliti missili puntati su ogni dove. Gas più petrolio più cereali e la Russia, cenerentola tra le tre superpotenze globali, avrebbe mani in pasta (l’espressione è voluta ed evocativa perché richiama oltre al pane anche la seconda diffusa destinazione del frumento) nelle sorti, nel sostentamento, nell’alimentazione di miliardi di individui, di decine e decine di stati. Dai più evoluti e ricchi ai più marginali. Poveri ed affamati. Nei secondi, tra l’altro, non è detto che nelle visceri della terra non si nascondano preziose risorse minerarie da sfruttare. Al contrario. In caso di scontro tra le fazioni locali nella peggiore delle ipotesi oltre all’uso politico del grano Mosca può fare sempre ricorso alla sua “assistenza” militare. A cominciare dai mercenari dalla “Wagner”.
La resistenza degli ucraini anche in questo caso ha sfasciato i piani del Cremlino. Ora con le esportazioni di grano di Kiev bloccate a seguito del blocco dei suoi porti, in ogni caso rallentate dalla guerra, con l’impennata dei costi di frumento e mais per l’insostenibile incidenza dei rincari su fertilizzanti, produzione, spese di energia, carburanti e trasporto, si parla apertamente di imminente “carestia” nelle aree più povere del pianeta. Assommano già nel giro di poche settimane a 300-400 milioni gli sventurati alle prese con inaccettabili difficoltà per sfamarsi. C’è chi con una immagine ancora più ad effetto parla di “Prima guerra mondiale alimentare”. L’aggressione all’Ucraina, con il blocco ad opera della flotta russa dell’export di grano e mais di quel paese (Mosca per allentarlo pretenderebbero l’immediata cancellazione delle sanzioni occidentali: che furbastri!) si è trasformata nella “Guerra del grano”. Planetaria.
In Africa in particolare i danni provocati dal cambiamento climatico in termini di alluvioni, ondate di calore, siccità costituiscono un “vulnus” ormai endemico. Si innestano su una crescita esponenziale della popolazione: 476 milioni gli abitanti del continente nel 1980. Triplicati nel 2020 a un miliardo e 340 milioni. Poi gli sconvolgimenti della catena commerciale causati dall’instabilità legata al covid, con una raffica micidiale di rialzi mai visti, oltre naturalmente ai danni del covid stesso, e infine la guerra. E fra i fattori di crisi anche le sanzioni, che esasperano i problemi. Cibo, finanza, energia, catene del valore. Tutto questo colpisce le popolazioni più deboli del pianeta.
Nel mondo 3 miliardi di persone erano povere al punto di non avere un’alimentazione sana, accettabile, già prima degli aumenti dei prezzi alimentari dell’ultimo biennio. Con il precipitare degli eventi fino alla guerra russo-ucraina, il numero aumenterà probabilmente di una cifra fra i 500 milioni e il miliardo. Metà della popolazione terrestre in difficoltà anche gravissime. Russia ed Ucraina sommano un terzo delle forniture di grano in tutto il mondo. A causa della guerra temporaneamente sparite quasi del tutto dai mercati internazionali. Una situazione insostenibile.
In Ucraina oltre alla guerra di conquista è in corso la guerra del grano. Con Kiev alla ricerca di rotte alternative ai porti bloccati dal conflitto come i treni merci che fanno quello che possono per portare il prezioso alimento verso i porti della Lituania per esportarlo. E con i russi accusati sia di distruggere deliberatamente i silos di frumento sia di rubare il grano ucraino. Storie che sembrano tratte da un film ma che a quanto pare sono vere.
“ ‘I ladri russi rubano il grano ucraino, lo caricano sulle navi - ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba -, passano dal Bosforo e cercano di venderlo all'estero. Invito tutti gli Stati a rimanere vigili e a rifiutare qualsiasi proposta di questo tipo. Non comprate il grano rubato. Non diventate complici dei crimini russi. Il furto non ha mai portato fortuna a nessuno’ ".
“Putin sta usando il tema alimentare come un'arma, l'impatto si sente non solo sull'Ucraina ma in Africa e Asia: non abbiamo dubbi che le truppe russe rubano il grano ucraino o distruggono le scorte, si sono varie prove. Non possiamo dire cosa possiamo e vogliamo fare per contrastare la situazione perché è in corso una guerra ma sono in corso discussioni su come intervenire una volta che le navi hanno lasciato i porti". Lo ha detto un portavoce della Commissione Ue. "Bisogna sollevare la questione a livello globale e lo stiamo facendo; l'Egitto si è rifiutato di accettare grano rubato dall'Ucraina". (“Il primo treno con un carico di grano ucraino arrivato in Lituania. L'Ue: 'Ci sono le prove, la Russia ruba il grano ucraino' ”. Ansa, 24 maggio 2022).
I conflitti si sa sempre come iniziano ma non si sa mai come finiscono. Tuttavia appare incontrovertibile una constatazione: il pressapochismo della classe dirigente russa e del suo capo supremo è di quelli che lasciano sbalorditi per inadeguatezza di programmazione e di previsione. Altro che statisti. Nulla più di mediocri avventurieri da quattro soldi che hanno sovvertito e messo a repentaglio l’esistenza di milioni o miliardi di individui per calcoli politici e presunzioni di “grandeur”, come dicono i francesi. Senza averne stoffa, qualità, capacità. E soprattutto titolo.
Attenzione però in Occidente ad assecondare, o peggio ad alimentare, la “certezza” della vittoria che emerge in ogni dichiarazione degli ucraini. A partire dal presidente Zelensky fino al consigliere comunale di un villaggio o ad una recluta. Già nelle ultime settimane con la conquista di Mariupol e della fortezza assediata in cui era stata trasformato l’immenso impianto industriale siderurgico Azovstal le forze armate ucraine sono di nuovo in difficoltà come nei giorni iniziali dell’aggressione. La Russia ha potenziato non di poco il suo attacco. G7, Nato, Unione Europea recitano il ruolo di “perfido Jago” quando istigano a combattere, credono e fanno credere agli ucraini che la loro vittoria è possibile. Con questo modo di falsare la realtà accompagnano le copiose cessioni di armamenti grazie alle quali le forze con la bandiera gialloazzurra hanno potuto non essere travolte. La propaganda, si sa, gioca sempre un ruolo importante. Ma propaganda o non propaganda l’esercizio di realismo deve essere sempre concreto e necessario. Da una parte l’Ucraina non dispone delle risorse per battere la Russia. Dall’altra Mosca non potrà mai permettersi una disfatta in questa guerra. Non avanza, talvolta arretra, ma bombarda tutto quello che c’è da bombardare martoriando le infrastrutture militari così come, con un approccio criminale, le civili. Il Cremlino doveva conquistare l’intera Ucraina e si “accontenterà” dell’intero Donbass (non solo delle due piccole repubbliche secessionistiche di Donestk e Lugansk che ne costituiscono una porzione) della ratifica della annessione della Crimea del 2014 e di poco altro. Sempre troppo per Kiev ma nessuno pensi nella capitale ucraina e nelle capitali occidentali che, messa alle strette da improbabili vigorosi contrattacchi delle truppe ucraine, la Russia non finisca per sfoderare dalla fondina la pistola atomica. Magari quella “piccola” bomba tattica dimostrativa che tutti temiamo prima o poi impiegherà. Allora gli scenari e le evoluzioni del conflitto cambierebbero totalmente, si potrebbero paventare allerte nucleari vere e non simulate o persino risposte flessibili speculari dal versante Nato. Derive incontrollate ed incontrollabili. E non ci sarà più spazio per il benchè minimo accordo territoriale, per trattative e cessate il fuoco.

4.Kaliningrad e i “wargames” delle tv russe
Restiamo sul terreno, per ora, solo delle “minacce” nucleari. Non sappiamo se la vodka abbia una parte in certi dibattiti o talk show ma sui canali televisivi russi si sprecano le intimidazioni e gli ammonimenti da parte di conduttori, politici, esperti, invitati vari, di ricorso alle armi nucleari di cui gli arsenali russi sono strapieni.
I media moscoviti agitano apertamente e ripetutamente lo spettro del conflitto atomico. Il russo Dmitrij Muratov, direttore del giornale di opposizione (divenuti ormai una rarità a Mosca) “Novaja Gazeta” e premio Nobel per la Pace nel 2021, parlando a Ginevra il 3 maggio scorso ha osservato: “Da settimane non facciamo che sentire in tv che i silos dovrebbero essere aperti. Non sarebbe la fine del conflitto ma dell’umanità”. Secondo Muratov i propagandisti del Cremlino cercano di rendere l’uso delle armi nucleari più accettabile per l’opinione pubblica russa.
L’insistenza sul tasto dell’uso dell’arma nucleare in Russia sta diventando inquietante. Fino a raggiungere vette di delirio parossistico: “La minaccia è del giornalista russo Dmitry Kiselyov: il missile sottomarino Poseidon è in grado di “innescare uno tsunami radioattivo di 500 metri che potrebbe spazzare via il Regno Unito". Un avvertimento che arriva alla Gran Bretagna attraverso la TV di stato Russia1. “Con il sottomarino nucleare Poseidon possiamo cancellare interamente il Regno Unito - ha detto il conduttore, volto della propaganda di Vladimir Putin -. L’isola diventerebbe un deserto radioattivo”. “Il missile – ha aggiunto – può viaggiare alla profondità di un chilometro e a una velocità di 200 chilometri all’ora. Non c’è modo di fermarlo. Ha una potenza da oltre 100 megatoni”, ben superiore alla bomba sganciata su Hiroshima.
Ma non si è limitato alla minaccia verbale. Kiselyov, noto come il “portavoce di Putin”, ha mandato in onda in prima serata una simulazione grafica della sua avvisaglia intimidatoria paventando davanti alle telecamere l'ipotesi di cancellare la Gran Bretagna con un attacco nucleare. Sempre Kiselyov (l’1 maggio, n.d.a.) aveva già messo in guardia il Regno Unito con l'ipotesi di un attacco con il missile nucleare Sarmat 2, testato nelle settimane precedenti dalla Russia. "L'isola è così piccola che Sarmat potrebbe affondarla una volta per tutte. Basterebbe premere un bottone per cancellare l'Inghilterra per sempre", aveva detto.
Le testate all’interno dell’arsenale di Mosca sono circa 6mila, secondo un rapporto pubblicato su Iriad Review. Il percorso di modernizzazione ha reso queste armi 3mila volte più potenti nel giro di 30 anni”. (Sky TG 24, “Guerra in Ucraina, Tv russa: "Con il missile Poseidon tsunami atomico sulla Gran Bretagna", 3 maggio 2022)
Il missile o drone sottomarino Poseidon non è una novità di questi ultimi tempi. Ne avevamo scritto anche noi in un nostro libro pubblicato nel gennaio 2019. E’ noto anche con la sigla “Status-6 AUV” e con il nome in codice “Canyon”.
Il 5 maggio nell’enclave russa nel Baltico di Kaliningrad si è svolta una esercitazione nucleare, solo a livello elettronico. Il mondo, in particolare gli europei, si sono così prepotentemente accorti di Kaliningrad. Su queste pagine di cosa rappresenti quel territorio avevamo già scritto. Abbiamo avuto una riprova – ma ne eravamo ampiamente convinti – della patologica attitudine delle istituzioni russe alla menzogna. Nelle settimane scorse, quando si è cominciata profilare l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato, Mosca aveva minacciato i paesi rivieraschi che in tal caso non si sarebbe più potuto parlare di “un Baltico senza nucleare; l’equilibrio dovrà essere ripristinato”. A pronunciare queste parole l’ex presidente ed ex premier Dmitry Medvedev, uno dei più stretti e fedeli compagni di merende di Putin. Ma se la regione di Kaliningrad altro non è da decenni che un fornitissimo deposito di missili ed ordigni nucleari? Con quale sfrontatezza ed insulto alla intelligenza degli altri si ha il coraggio di definire il Baltico “area senza nucleare”?
Nel 1945 nella Conferenza di Postdam Stalin pretese che Konisberg, nella Prussia orientale, città natale del filosofo Immanuel Kant, culla della visione imperiale tedesca, patria della dinastia imperiale prussiana degli Hohenzollern rimasta sul trono a Berlino fino al 1918, fosse annessa all’Unione Sovietica nonostante la collocazione parecchio esterna ai suoi confini. Un territorio compreso tra la Polonia e l’attuale Lituania. Gli serviva “un porto che non gela nel Baltico”. A quelle latitudini gli unici due porti che non ghiacciano nel corso dell’anno sono Konisberg e Baltijsk. La ribattezza Kaliningrad, vi trasferisce coloni dall’Urss, cancella ogni retaggio tedesco a partire dalla popolazione germanica espulsa con la forza tra il 1946 e il 1949. La lingua russa rimpiazza la tedesca. Kaliningrad, mezzo milione di abitanti, è russa e tale rimane anche dopo la fine dell’Urss. A due passi da Danzica e da Varsavia. I sovietici l’avevano resa una munitissima base navale. Putin, più modernamente, l’ha trasformata in una cosiddetta “bolla missilistica”. Ossia una fortezza missilistica difesa da tre “strati” di vettori capaci di intercettare qualsiasi movimento nel Mar Baltico. Gli “S-400” antiaerei e gli antinave “Bastion” sono lo scudo per sbarrare all’occorrenza l’accesso al Baltico. Gli ipersonici “Iskander” che si possono armare anche con testate nucleari potrebbero colpire in pochi istanti sette capitali: Berlino, Stoccolma, Varsavia, Helsinki, Riga, Vilnius, Copenaghen. Dall’inizio della crisi ucraina è arrivata in rinforzo una squadriglia di aerei Mig-31 con sotto il velivolo i missili “Kinzhal” che volano a dieci volte la velocità del suono, vantati da Putin come “arma invincibile”. Mentre nel porto si intravedono i sottomarini armati con missili da crociera “Kalibr”, gli stessi con i quali i sottomarini della flotta del Mar Nero bersagliano le città ucraine.
Nella “simulazione nucleare” del 5 maggio 2022 la Russia ha inscenato un “lancio elettronico” di missili con testata nucleare da Kaliningrad. Attacchi “singoli e multipli” su obiettivi che simulavano sistemi missilistici, aeroporti, postazioni di comando e militari, infrastrutture. Dopo la simulazione elettronica dei lanci un centinaio di soldati ha effettuato una manovra di “cambio posizione” per evitare “un possibile attacco di rappresaglia” ed ha compiuto “operazioni in condizioni di radiazioni e contaminazione chimica”. Scenari da follia conclamata.
Di fronte a tanta isteria nucleare russa non solo in Svezia e Finlandia ma persino nella plurisecolare neutrale Svizzera aumenta il numero dei cittadini che vorrebbero che Berna entri a far parte della Nato.
Ha commentato Paolo Garimberti (“I flaccidi muscoli dello zar”, “la Repubblica”, 6 maggio 2022): “Quella che sembrava la sparata propagandistica di uno dei tanti “ultras” putiniani, che affollano i programmi della televisione russa dall’inizio della “operazione militare speciale” in Ucraina, è diventata ieri una esercitazione simulata., ufficialmente comunicata dal ministero della Difesa di Mosca: il lancio di missili armati di testate nucleari da Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania, accompagnato da “operazioni in condizione di radiazioni e contaminazione chimica”. La Russia agita sempre più spesso il fantasma dell’atomica e c’è da chiedersi se così voglia lanciare un segnale di forza o se, invece, cerchi di mascherare la propria debolezza.
Era stato Aleksej Zhuravliov, presidente del partito nazionalista Rodina (Patria, in russo), a brandire la minaccia nucleare in risposta alle dichiarazioni del sottosegretario alla Difesa britannico: il quale aveva definito “lecito” che gli ucraini attaccassero obiettivi in territorio russo “con armi fornite da noi”. “Basterebbe un missile Sarmat e le isole britanniche non ci sarebbero più”, aveva replicato Zhuravliov dai microfoni di “60 Minut”, uno dei programmi più disinformati e bellicisti di “Rossija 1”. E le sue parole erano state accompagnate da un grafico che mostrava quanto impiegava un missile con testata nucleare, lanciato (guarda caso) da Kaliningrad, a raggiungere Berlino (106 secondi), Parigi (200), Londra (202).
Ma neanche Putin, che pure dovrebbe avere più senso di responsabilità di un esaltato capopopolo come Zhuravliov, non aveva esitato ad alzare il tiro dopo le dichiarazioni del sottosegretario britannico. Aveva parlato di “armi mai viste”, “armi che nessuno può vantare e delle quali noi non vogliamo vantarci”. Ma, aveva minacciato, “le useremo se sarà necessario”. Non aveva citato espressamente le testate atomiche, ma l’allusione era fin tropo chiara. Del resto il suo zelante ventriloquo, il ministro degli Esteri Lavrov, aveva fatto un paio di volte riferimento al rischi di “conflitto nucleare”, che incombeva sull’Europa. Ora Putin non può non sapere che l’equilibrio del terrore, sul quale si è retta tutta la Guerra Fredda e che ha portato leader americani e sovietici a firmare accordi per la limitazione delle testate nucleari, è ancora valido. L’avevano tradotto in un acronimo, “Mad”, che sta per “mutual assured distruction” (reciproca distruzione assicurata), ma che suona anche come “matto” in inglese. Qualcuno pensa che il presidente russo lo sia davvero: dall’inizio della sua guerra circolano svariate speculazioni sulle sue infermità fisiche e debilitazioni mentali. Ma è più probabile che, come dice tutta la sua storia personale e la sua cultura cekista (sinonimo di agente del Kgb), sia un cinico amorale, per il quale il fine giustifica ogni mezzo, compresa la più bieca e terroristica propaganda. E dunque pronto a gonfiare i muscoli nucleari per nascondere (anche a se stesso) i flaccidi muscoli convenzionali. La guerra non sta andando come Putin aveva creduto, o gli avevano fatto credere.
(…) Che la minaccia nucleare sia un bluff o no, resta però il fatto che oggi l’Europa è meno sicura di quanto lo sia mai stata dal 1945 in poi. In sei mesi, tra l’ottobre 2021 e marzo 2022, in seguito all’attacco russo all’Ucraina, gli effettivi della Nato ai confini orientali sono aumentati di 10 volte. L’ex cortina di ferro, dal Baltico al Mar Nero, è diventata una cortina di armamenti. Ma, al tempo stesso, sono venuti meno i guardrail che davano certe garanzie di sicurezza. Il trattato sull’interdizione dei missili di crociera, con gittata da 500 a 5.500 chilometri (Inf), è scaduto. L’accordo Open Skies, che autorizzava Russia e Nato a ricognizioni reciproche, è lettera morta. I canali di comunicazione sono disabilitati e chi prova a riattivarli (ultimo, Macron) viene rimbalzato da un muro di “niet”. L’escalation verbale non ha limiti, neppure l’intoccabile figura del papa è stata risparmiata. Se la Russia agita la minaccia nucleare, l’America si propone un indebolimento irreversibile della potenza militare russa, come ha detto il segretario alla Difesa Austin, se non un vero e proprio cambio di regime a Mosca. Thomas Friedman, uno dei più rispettati opinionisti della stampa americana, gli ha ricordato il saggio monito di un allenatore della sua squadra preferita di hockey su ghiaccio: “Quando perdi, parla poco. Quando vinci parla ancora meno”. ”

5”Vedete quanto siete stati fessi a rinunciare all’atomica?” (direbbero i nordcoreani)
Il 5 dicembre 1994 con il “Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza” l’Ucraina firmò un accordo con il quale accettava di rinunciare alle armi nucleari in suo possesso, ereditate a seguito dello sfaldamento dell’Unione Sovietica. Aderendo così al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Ora a Kiev se ne saranno probabilmente pentiti. La questione è stata correttamente inquadrata da due esperte ucraine del settore nucleare, autrici del saggio “Storia nucleare dell’Ucraina”.
Alla domanda “Nel 1994 l’Ucraina rinunciò alle armi nucleari sovietiche che erano sul suo territorio aderendo al trattato di non proliferazione in cambio di un impegno da parte della Russia a rispettare la sua sovranità e integrità territoriale. È quanto prevedeva il cosiddetto “Budapest Memorandum” che fu sottoscritto anche da Usa e Gran Bretagna e poi da Francia e Cina. Invadendo l’Ucraina la Russia ha platealmente violato questo impegno. Nel suo libro sulla Storia nucleare dell’Ucraina che sta presentando in questi giorni a Roma lei ricostruisce la vicenda del Budapest Memorandum del 1994. Che lezioni se ne possono trarre?” la professoressa Polina Sinovets, direttrice del “Centro di Odessa per la non proliferazione (OdCNP)” ha risposto: “La lezione principale che si può trarre è che le assicurazioni non sono sinonimo di garanzie. In occasione del memorandum di Budapest gli Stati Uniti hanno accettato di dare assicurazioni all’Ucraina, ma non hanno mai voluto dare garanzie di sicurezza. Il problema sta nel fatto che, in russo e in ucraino, il termine “assicurazioni” viene tradotto con il termine “garanzie”. Quindi prima del 2014 l’Ucraina faceva affidamento sulle garanzie di sicurezza del “Budapest Memorandum”. La lezione principale che l’Ucraina ha imparato è che, a prescindere dalle garanzie di cui si dispone, è necessario rafforzare le proprie capacità di deterrenza. Non ha senso affidarsi a potenze esterne se non si hanno garanzie simili a quelle della Nato”.
E alla domanda “La Russia, una superpotenza nucleare, ha invaso uno Stato, l’Ucraina, che aveva accettato di rinunciare all’arma nucleare. Questo non rischia di convincere altri Stati che l’unico modo per difendersi è dotarsi di un arsenale nucleare? Non diverrà più difficile contenere la spinta verso una proliferazione nucleare?” Irina Maksimenko, professore associato del Dipartimento di Relazioni Internazionali dell’Università nazionale “Mekinkov” di Odessa ha risposto: “Sicuramente l’invasione dell’Ucraina ha già impattato la proliferazione di armi nucleari perché ha fornito una scusa ad altri attori per dotarsi di un arsenale nucleare o per rafforzarlo. La situazione attuale fa emergere crescenti preoccupazioni su come negoziare con attori quali la Corea del Nord o l’Iran che hanno messo in atto programmi nucleari – ufficiali o meno. Una delle implicazioni della guerra della Russia contro l’Ucraina è legata alle garanzie di sicurezza e, prima di tutto, alla credibilità di tali garanzie da parte degli Stati dotati di armi nucleari. Il fatto che uno Stato dotato di armi nucleari abbia attaccato e minacciato l’utilizzo di armi nucleari contro uno Stato non dotato di armi nucleari, al quale aveva fornito assicurazioni in precedenza, rafforza la sfiducia verso tutti gli impegni e le assicurazioni di stati dotati di armi nucleari. Possiamo quindi aspettarci che gli Stati non dotati di armi nucleari cercheranno garanzie di sicurezza più stringenti da parte degli Stati dotati di armi nucleari e la domanda che ci si pone è se questi ultimi siano pronti a fornire tali garanzie di sicurezza.
Viene poi legittimata la percezione che l’opzione nucleare sia una polizza assicurativa per la sicurezza a lungo termine contro la minaccia militare sia nucleare che convenzionale. E possiamo già vedere alcune prove di questa posizione. Per esempio, la Corea del Nord ha fatto riferimento al caso ucraino, sottolineando che l’Ucraina non sarebbe mai stata attaccata se non avesse rinunciato alle sue armi nucleari.
La guerra della Russia contro l’Ucraina non fa altro che consolidare la volontà di alcuni Stati a investire nel nucleare. La Corea del Nord è incentivata a continuare a sviluppare i suoi programmi nucleari. Per l’Iran la possibilità di missili nucleari è percepita ora come ancora più importante in una logica di autodifesa e di garanzia di sopravvivenza”. (Ettore Greco “Proliferazione nucleare e guerra in Ucraina: intervista a Polina Sinovets e Iryna Maksimenko” in “AffarInternazionali.it”, 2 maggio 2022).
Inquieta il commento autoassolutorio del governo della Corea del Nord. Ma è innegabile che il possesso dell’arma atomica finisca per essere considerato – come mette in guardia la professoressa Maksimenko – una “polizza assicurativa”. Così come pochi dubbi possono esistere circa gli effetti di quanto sta accadendo in Ucraina su parecchi altri stati nel mondo. Al pari della Corea del Nord cercheranno in tutti i modi di avvicinarsi al possesso dell’arma nucleare come polizza di assicurazione teoricamente infinita. Come formidabile strumento di sopravvivenza spesso di regimi e dinastie non precisamente esempio di principi democratici.
Anche in questa ottica siamo alla prese con un “effetto Putin”. Peserà non poco sul generale peggioramento delle relazioni internazionali già a partire dall’imminente futuro. Nonché sulla probabile ripresa della proliferazione nucleare per far sì che nuovi stati entrino nel club dei possessori dell’arma atomica. Una delle tante gravissime colpe, di inimmaginabile portata storica, di cui si sta macchiando il dittatore che siede al Cremlino.

6.Armi, armi, sempre più armi
Intanto non c’è angolo della Terra o paese del mondo dove non aumenti la spesa per le armi. Nel 2021 si sono toccati 2.113 miliardi di dollari. Cifra record. Mai così tanto finora nell’annuale computo. Considerando l'escalation della guerra in Ucraina e l'intento di molti Paesi occidentali di potenziare l’incidenza di questa voce nel proprio bilancio statale, ci vuole poco a capire che negli anni a venire la spesa militare aumenterà ancora. L'impegno dei Paesi Nato di centrare l'obiettivo di spese militari pari al 2% del Pil, ribadito dopo l'aggressione russa in Ucraina, per gli esperti probabilmente significherà infatti una ulteriore crescita. La netta accelerazione nel riarmo della Germania è un caso di scuola. Anche questa inversione di tendenza rispetto ai canoni della politica estera e militare tedesca dal 1945 ad oggi è “merito” ovvero colpa di Vladimir Putin.  
Ha scritto “Il Post.it” il 26 aprile 2022 (“La spesa militare globale ha raggiunto il suo massimo dal 1949”): “Secondo un rapporto diffuso lunedì dal centro di ricerca Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), tra i più autorevoli e rispettati al mondo riguardo alla misurazione di commerci di armi e spese militari, nel 2021 la spesa militare complessiva di tutti i paesi del mondo ha superato la soglia dei 2mila miliardi di dollari annui, per la prima volta dal 1949 (cioè da quanto l’istituto ha iniziato a misurare questo dato). Secondo gli autori del rapporto, la guerra in Ucraina accelererà ulteriormente l’aumento di queste spese, soprattutto per gli investimenti che verranno fatti per sviluppare nuove tecnologie militari.
Rispetto al 2020, nel 2021 la spesa militare globale è cresciuta dello 0,7 per cento, raggiungendo così i 2.113 miliardi di dollari (quasi 2mila miliardi di euro), equivalenti al 2,2 per cento del PIL globale.
Secondo il rapporto, i cinque paesi con le spese militari più alte nel 2021 sono stati Stati Uniti, Cina, Russia, India e Regno Unito: messe insieme, le loro spese militari ammontano al 62 per cento di quelle globali. Gli Stati Uniti sono il paese con la spesa più alta: 801 miliardi di dollari (circa 749 miliardi di euro) nel 2021, equivalenti al 3,5 per cento del PIL (in Italia siamo all’1,41 per cento, meno della metà) e al 38 per cento della spesa militare globale. Sull’aumento della spesa del 2021 ha avuto un peso notevole lo sviluppo di nuove tecnologie nucleari.
Al secondo posto, con l’equivalente di oltre 274 miliardi di euro, c’è stata la Cina, che rispetto al 2020 ha aumentato le proprie spese militari del 4,7 per cento: sono 27 anni, comunque, che la Cina sta aumentando le proprie spese militari, e da questo dipende anche l’aumento di quelle di altri paesi della regione del Pacifico, soprattutto l’Australia, che si sentono minacciati dalla sua presenza e intendono contrastarne l’espansione. Anche la Russia ha aumentato la propria spesa militare nel 2021, anno in cui ha preparato la propria invasione dell’Ucraina.
Complessivamente il rapporto del SIPRI conferma un trend di crescita ricominciato nel 2015 dopo una flessione durata qualche anno, e che ha diverse cause: in Europa è legato soprattutto all’invasione e annessione russa della Crimea nel 2014, che ha contribuito a rendere più forte la percezione della presenza di minacce da cui difendersi. I fatti in Crimea hanno inoltre spinto più paesi membri della NATO (da 2 che erano nel 2014 a 8 nel 2021) a portare le proprie spese militari al 2 per cento del PIL, come peraltro previsto dagli impegni con l’alleanza.
Uno degli aspetti più interessanti del dato descritto dal SIPRI, comunque, è che è considerato in crescita: Lucie Béraud-Sudreau, tra gli autori del rapporto, ha detto a “Bloomberg” che su questo peserà particolarmente la guerra in Ucraina, che porterà l’aumento della spesa militare globale a «intensificarsi e ad accelerare», contrariamente alla gradualità che normalmente contraddistingue cambiamenti di questo tipo. Dopo l’invasione iniziata lo scorso febbraio altri paesi membri della NATO si sono infatti detti pronti ad aumentare le proprie spese militari fino al 2 per cento del PIL, Italia compresa.
Il rapporto del SIPRI permette anche di farsi un’idea di come potrebbe essere fatto, concretamente, l’aumento di queste spese militari. Negli Stati Uniti come in diversi paesi europei sembra che la priorità sia continuare a modernizzare i propri eserciti e investire nello sviluppo di nuove tecnologie, più che semplicemente acquistare armi esistenti da altri paesi e aumentare numericamente il proprio arsenale.
Béraud-Sudreau ha detto a “Bloomberg” che anche da questo punto di vista la guerra in Ucraina avrà un peso: tra le altre cose, le difficoltà avute dall’esercito russo hanno mostrato quanto sia fondamentale avere mezzi moderni e di alta qualità, linee di comunicazione sicure e criptate e un’organizzazione logistica efficiente”.
Nell’Indo-Pacifico Giappone (+7.3%) e Australia (+4%) sono i paesi nei quali - a causa del rapido riarmo di Pechino e, aggiungiamo noi, delle incontrollabili bizze nucleari della Corea del Nord - le spese sono cresciute più che altrove. In altre aree geografiche da segnalare la Nigeria, con un balzo del 56% sul 2020 per i problemi di sicurezza interni. In termini di percentuale sul Pil Oman (7,3%), Kuwait (6,7%) e Arabia Saudita (6,6%) sono in testa. In queste tre petropotenze ogni 100 dollari di spesa pubblica circa 7 vengono spesi per acquistare armi sempre più moderne. La percentuale è notevolmente inferiore in Europa e Sud America.
Se guardiamo alla classifica della percentuale di spese globali, e dunque alla quota che nel mondo detengono i principali paesi nel settore delle spese militari, gli Stati Uniti da soli spendono nientemeno il 38 per cento della spesa globale mondiale in Difesa. Seguiti nell’ordine da Cina (14%), India (3.6%), Regno Unito (3.2%), Russia (3.1%), Francia (2.7%), Germania (2.7%), Arabia Saudita (2.6%), Giappone (2.6%), Corea del Sud (2.4%)

7. Europa e Stati Uniti. Fronte comune. Ma se possibile non troppo comune
Un fronte comune dell’Occidente contro le velleità russe di scardinare il continente europeo partendo dall’Ucraina era doveroso. Anzi indispensabile. Attenzione tuttavia ad unificare gli interessi strategici ed economico-finanziari degli Stati Uniti – super-azionisti di maggioranza della Nato – con quelli dell’Unione Europea. E’ stato osservato che sul suolo americano le radiazioni di un eventuale ordigno atomico “dimostrativo” che dovesse esplodere in Ucraina avrebbero modestissime o zero ricadute. E persino la bellicosa Gran Bretagna di Boris Johnson non patirebbe irrimediabili conseguenze. Non così i paesi, specie quelli orientali, dell’Unione Europea. Bruxelles agisca con fermezza e sanzioni (purchè si rivelino efficaci…) ma non assecondi la furia assistenzial-bellicista di Washington, Londra, Varsavia, Riga, Tallin, Vilnius. E, soprattutto, abbia finalmente una “sua” autonoma politica estera pur in un coordinamento atlantico, una “sua” identità difensiva-militare.
Paolo Rumiz - giornalista, inviato, “viaggiatore” ma prima di tutto scrittore, conoscitore della storia europea a partire dal Medioevo e dal ruolo anche culturale unificante avuto da ordini religiosi come i Benedettini - ha scritto profonde riflessioni che interrogano su cosa è diventata in questi mesi di guerra sul suo suolo l’Europa, un “continente schiacciato fra due mondi”. Riportiamo, purtroppo solo in parte per ragioni di spazio, le sue illuminanti parole:
“Per una sera, smetto di ascoltare l’onnipresente Zelensky e mi concentro sulle tv russe e statunitensi. E lì arriva la sorpresa. Lo spettacolo di una dittatura e di una democrazia ugualmente chiuse in una bolla fuori dalla realtà. Eccoti Dmitry Kiseliov, mezzobusto di regime, che ringhia “di colpire l’Inghilterra con ordigni nucleari”, cui fa eco un popolo rancoroso, ignaro della realtà sul campo, che vede nell’Occidente la fonte dei suoi mali e urla di “bombardare Polonia e Germania”. Poi ecco Rachel Maddow, conduttrice “Msnbc” (canale televisivo statunitense via cavo, n.d.a.), così assatanata da far sembrare Biden un pusillanime. Una che esige che la Russia sia colpita più duramente, e subito. Intorno, un paese imbandierato di giallo-azzurro, bombardato dagli opinion-makers, ma che non sa neanche dove sia Kiev, pensa che l’Ucraina sia un paese super-democratico e si sorprende se gli spieghi che fino a ieri gli Usa lo giudicavano corrotto e inaffidabile.
Pur nelle abissali differenze sorprendono le somiglianze. Entrambi gli antagonisti guardano alla guerra come a un videogioco e alla terza guerra mondiale come ad una cosa lontana. Ma soprattutto né l’uno né l’altro sembrano ricordare che fra le due potenze esiste una cosa chiamata Europa, intesa al massimo come una protuberanza dell’America. Forse non se ne sono mai accorti: e li capisco. Come accorgersi di una terra che non ha una sua politica estera né un suo esercito, e resta inchiodata al palo, in bilico tra le strategie di Washington e i rifornimenti di gas dal Cremlino? Un’alleanza incapace di agire in modo autonomo, forte e unitario?
E lì, per la prima volta, ho sentito il rischio che l’Europa unita sparisse davvero, o fosse già scomparsa, schiacciata fra due mondi che giocano alla guerra ignorando la sua presenza, in preda a un ebete sonnambulismo come nel 1914, quando si gettò nel baratro. Una percezione fisica. Come se dovessi prendere improvvisamente atto della fine di un’idea. Come se, dopo aver scritto un “Canto” per lei, la dea-madre che sta all’origine della nostra stirpe, oggi dovessi dedicarle un “Requiem”. Un epitaffio, dove non resta che consolarsi con la nostalgia dei padri fondatori, che nel 1945 concepirono il Sogno sulle sue rovine.
(…) Esisti ancora, Europa? Non ti trovo più, tu sei la mia essenza, la mia fede ma anche il mio infinito sconforto; sedimento di millenni, lingue, religioni, incubi, speranze e convulsioni, dai quali è nata, come per miracolo, l’Idea. Il tuo silenzio è assordante. Ti leggo come un corpo inerte, spezzato e subalterno. Un’alleanza incapace di pensare in grande, ossessionata dalla sicurezza, crocefissa da reticolati, dimentica delle guerre che hanno lacerato la tua carne. Quasi nessuno scatta in piedi al suono del tuo inno. Generi sbadigli. Sei una rovina nel vento, come un anfiteatro romano o una sinagoga vuota. Comunque vada a finire, l’Unione stellata uscirà a pezzi, stretta da una durissima recessione, ridotta a pura essenza strategica, con gli ultimi entrati nella Ue – gli ex comunisti del Patto di Varsavia – autorizzati a imporci una linea bellicista, non “per” l’Ucraina, ma “contro” la Russia. La fine di un mondo, quello in cui abbiamo creduto.
(…) Ma il vero pericolo non arriva dall’esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L’Ue spende già ora il quadruplo della Russia in armamenti, me è un nano strategico. Non ha un suo esercito e una sua politica estera. Avere un’armata con bandiera blu stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna l’aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d’scita. Invece di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha scelto di smobilitare dall’Afghanistan senza nemmeno la cortesia di preavvertirci.
Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo favorito la secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base militare nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del potenziale epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a prendere il Donbass? E ancora: siamo sicuri di mandare armi all’Ucraina per amore della sua indipendenza se fino ai ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio universale si gioca l’accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri rifugiati sono violentemente respinti o lasciati morire nei gulag greci e turchi?
(…) Non ti conosco più, Europa. La tua femminilità si è rattrappita, il tuo ventre è sterile. La tua gente è annoiata dalla pace e da vent’anni si lascia governare da paure. Prima l’Islam, poi il terrorismo, poi l’invasione dei migranti, poi la pestilenza virale. Ora, l’Ucraina. Una successione di emergenze monotematiche che ci travolgono sul piano emozionale, ma ci lasciano inerti, esposti a bruschi risvegli come chi ha dormito troppo. Una nevrosi da informazione che diventa amnesia totale, e pare fatta apposta per impedirci di leggere la realtà di una guerra globale per l’accaparramento delle risorse. Che prosegue imperterrita, mascherata da eufemismi. (…)”. (“Paolo Rumiz “Requiem per l’Europa”, “la Repubblica”, 6 maggio 2022”).
Hanno ragione i cinesi quando ripetono che l’Europa è troppo appiattita sulle posizioni americane. Non lo dicono per amore di pace ma solo per tornaconto. Comunque hanno ragione.

8.Non dimentichiamoci della rotta di collisione Usa-Cina
Chiodo schiaccia chiodo. La guerra in Europa per alcuni mesi ci ha fatto dimenticare il braccio di ferro sino-americano nell’Indo-Pacifico. O comunque lo abbiamo retrocesso in seconda posizione rispetto agli incubi scatenati dal conflitto armato in Ucraina e dai rischi di allargamento che comporta. Errore. Lo scontro in Asia è più che mai attivo. Pronto a diventare a sua volta conflitto armato.
“Se gli Stati Uniti insistono nel giocare la carta di Taiwan e vanno "sempre più lungo la strada sbagliata, porteranno sicuramente la situazione a un punto pericoloso": è l'avvertimento di Yang Jiechi, a capo della diplomazia del Partito comunista cinese, nella telefonata avuta ieri con il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan.
Yang ha detto che Washington dovrebbe "avere una chiara comprensione della situazione", ha riferito una nota notturna del ministero degli Esteri di Pechino.
"La Cina prenderà sicuramente un'azione decisa per salvaguardare la sua sovranità e i suoi interessi di sicurezza", ha aggiunto. (“ANSA”, Pechino, “Cina a Usa,si sta formando situazione pericolosa su Taiwan”, 19 maggio 2022).
A Tokio il 22 maggio il gaffeur seriale Biden pronuncia una frase sibillina. Viene interpretata come segue: in caso di una invasione di Taiwan da parte della Cina gli Sati Uniti risponderebbero militarmente. Gli stessi consiglieri della Casa Bianca ammettono di essere stati “colti di sorpresa” dalle dichiarazioni che sembrano spingersi oltre le posizioni americane, finora mai così categoriche sulla spinosa questione. Agitazione e comunicati per chiarire la posizione degli Usa. Poche ore dopo giunge la rettifica con una precisazione del segretario alla Difesa Lloyd Austin: “La politica americana sull’unica Cina non è cambiata. Il presidente ha sottolineato il nostro impegno a fornire a Taiwan i mezzi per difendersi”. Ma l’uscita di Biden era bastata per scatenare la durissima reazione di Pechino.
“La Cina è pronta a difendere i suoi interessi nazionali su Taiwan, in risposta all’impegno espresso a Tokyo dal presidente Usa Joe Biden sulla difesa dell’isola contro qualsiasi invasione della Cina. «Nessuno dovrebbe sottovalutare la decisa determinazione, la ferma volontà e la forte capacità del popolo cinese di difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri”. (“Biden: “Se la Cina invade Taiwan interverremo”. Il Pentagono precisa: politica Usa non è cambiata”, “Il Sole 24 Ore”, 23 maggio 2022).
A scopo dimostrativo il 24 maggio jet militari cinesi e russi hanno volato congiuntamente sul Mar del Giappone e sul Mar Cinese Orientale mentre i leader del blocco del Quad – Giappone, Usa, India e Australia – si incontravano a Tokio per discutere di sicurezza regionale. Ed è stato rafforzato il dispositivo navale cinese nell’area “in risposta alle provocazioni degli Usa e alle osservazioni giapponesi”. Il governo di Tokio aveva infatti manifestato le sue “gravi preoccupazioni” ai governi di Pechino e Mosca.

9.Tensioni e conseguenze sulla ricerca scientifica e sull’ITC
Un dramma per il futuro dell’umanità che l’impennata di tensioni e conflitti tra le superpotenze blocchi o comunque colpisca la cooperazione e la ricerca scientifica. Saltano accordi in campo medico, bioingegneristico, informatico, nelle ITC. Non mancano contraccolpi e ritardi sulla cooperazione e sulla ricerca in campo spaziale. Dramma nel dramma, non avremo più reti informatiche universali. Piuttosto un doppio sistema di comunicazione, reti, standard digitali, autostrade informatiche. Uno occidentale e l’altro sino-russo. Aumentano così la babele e la separazione. Significheranno che alla cortina di ferro che divide i due blocchi dovremo aggiungere una divisione insormontabile nella comunicazione e nella scienza, nei sistemi di trasmissione e in tutto quanto compone le infrastrutture informatiche e tecnologiche. Con risultati sempre più divisivi e destabilizzanti. Non comunicare e non avere quanto meno piattaforme infrastrutturali comuni e condivise produrrà due rette parallele che non solo non si incontrano. Ma che si faranno concorrenza spietata e confliggeranno in tutti i modi possibili. Andremo verso le Intelligenze Artificiali con due impostazioni non comunicanti. Una di concezione cinese e, con posizione del tutto gregaria, russa (secondo Robert Kaplan, analista del Foreign Policy Research Institute di Filadelfia, “la Cina usa la Russia come un distributore di benzina”). La seconda di concezione americana ed europea.

10.“Il Manifesto Russell-Einstein”
Era il 9 luglio 1955 quando a Londra venne presentato il più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia per il genere umano rappresentata dalle armi nucleari. Concepito dal filosofo e matematico britannico Bertrand Russell (1872-1970) e dal fisico Albert Einstein (1879-1955), reca oltre alle loro le firme di altri nove eminenti studiosi, uomini di scienza, premi Nobel. E’ noto come “Il Manifesto Russell-Einstein”. Uno dei documenti più importanti della storia. Un “alert” chiaro come pochi. Di una attualità che non solo non cessa di essere tale ma che si accentua man mano che trascorrono gli anni e gli arsenali atomici si rimpinguano. In una follia militarista che negli ultimi periodi ha raggiunto vette impressionanti in termini di numeri di strumenti di distruzione di massa e di loro carica distruttiva.
Alle “esercitazioni atomiche” russe fanno da contraltare qualche settimana dopo (20 maggio) le dichiarazioni del Pentagono che assicura la presenza stabile in Europa di centomila soldati rispetto ai sessantamila di prima dell’acuirsi della crisi. E le dichiarazioni di Pechino: nel 2023 la Cina è pronta ad elevare massicciamente il livello del suo riarmo nucleare. Puntando a passare da 350 a ben 1.000 ordigni. Nelle stesse giornate Mosca annuncia che, a seguito dell’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato, lungo il suo fronte occidentale allestirà dodici nuove basi militari e schiererà nuovi battaglioni ed armamenti. Sicuramente non solo convenzionali.
Ed allora se raziocinio e moderazione sono spariti dai palazzi del potere nelle capitali che “fanno” la storia, è proprio il caso di rileggere il “Manifesto Russell-Einstein”:
“Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.
Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella
nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio.
Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anti-comunismo. Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.
Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all’altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare.
Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?
Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba–A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba-H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. Non c’è dubbio che, in una guerra con bombe-H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione su di una area ben più vasta di quanto si pensasse.
Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.
Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott’acqua, emetterebbe particelle radioattive nell’atmosfera. Queste ricadono giù gradualmente e raggiungono la superficie terrestre sotto forma di polvere o pioggia mortifera. E’ stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci.
Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe-H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe-H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.
Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi.
Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell’esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi.
Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?
La gente non affronterà l’alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale.
Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine “umanità” suona vago e astratto. La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità.
Possono a malapena afferrare l’idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe-H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe-H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l’altra no, la fazione che l’avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.
Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti.
Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finchè serve ad allentare la tensione. Secondo, l’abolizione delle armi termo-nucleari, se ogni parte credesse all’onestà dell’altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.
Noi dovremmo, quindi, accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo.
Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, Comunista o Anti-comunista, Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all’Est che all’Ovest.
Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti?
Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale.
Risoluzione:
Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione:
“In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa.”
Firmato da Max Born, Perry W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frederic Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa.

11.Un “no” assoluto all’atomo. Sia a quello delle bombe che a quello delle centrali nucleari
Nel 2022 è come se un meteorite avesse colpito la Terra. Ma non è venuto giù dallo spazio a devastare la vita degli esseri viventi. Lo hanno lanciato da Mosca. Quando un meteorite di consistenti dimensioni impatta sulla superficie terrestre si scatena una sequenza di sconvolgimenti climatici ed ambientali che distruggono flora e fauna, specie animali e specie vegetali. Con il meteorite “Putin” saltano a livello planetario tendenze economiche e stili di vita, commerci e contatti, flussi turistici ed aperture, collaborazioni e cooperazioni. Per ora. Ma se la variabile atomica entra in azione l’effetto del meteorite “Putin” sarà uguale a quello degli impatti dei corpi e detriti celesti di cui sanno qualcosa i dinosauri estinti così come gli uomini primitivi che si sono dovuti confrontare con le terribili condizioni di vita delle ere glaciali. Ma attenzione: questo si può verificare domani a seguito dell’aggressione scatenata da Putin ma si può verificare in qualsiasi conflitto nucleare, non inaugurato da qualche ordigno russo. Anche in Asia per esempio.
Il punto fermo, dunque, rimane quanto abbiamo detto e ridetto, scritto e riscritto e che sempre più esseri umani condividono: o si smantellano, al più presto, gli arsenali nucleari o l’energia atomica, più precisamente termonucleare, distruggerà per sempre la vita sul pianeta. Sul tema, accanto al “Manifesto Russell-Einstein”, sono diventate celebri altre citazioni. La prima, secca, lapidaria, ancora di Einstein nel 1948: “Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la Terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta con i bastoni e con le pietre”. La seconda, del 1961, del presidente americano John Kennedy: “L’umanità deve mettere fine alla guerra o la guerra metterà fine all’umanità”. La terza del nostro Gino Strada nel 2007: “Se la guerra non viene buttata via dalla storia degli uomini, sarà la guerra a buttare fuori gli uomini dalla storia”. Ne aggiungiamo una quarta, più recente, di domenica 27 marzo 2022, di Papa Francesco all’Angelus: “È passato più di un mese dall’invasione dell’Ucraina, di questa guerra crudele e insensata, che rappresenta una sconfitta per tutti noi. C’è bisogno di ripudiare la guerra, luogo di morte dove padri e madri seppelliscono i figli, dove uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono. La guerra non devasta solo il presente, ma anche l’avvenire della società. Un bambino su due è stato sfollato dal Paese, significa distruggere il futuro e provocare traumi tra i più piccoli e innocenti. Ecco la bestialità della guerra, atto barbaro e sacrilego. Non può essere qualcosa di inevitabile, non dobbiamo abituarci e dobbiamo convertire lo sdegno di oggi nell'impegno di domani. Se da questa vicenda usciremo come prima saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l'umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla Storia”.   
Siamo consapevoli di essere alla prese con la più complicata delle utopie ma non abbiamo alternative. Si badi bene: il nostro “no” all’atomo è totale e senza riserve. Sia quello “di pace”. Sia, a maggior ragione, “quello di guerra”. Il motivo è facilmente comprensibile. Facciamo finta o poniamo che finalmente si debelli quello “cattivo”, si smantellino tutti gli armamenti nucleari, si distruggano tutti gli ordigni atomici. Anche con gli eserciti armati solo convenzionalmente cosa di più distruttivo di lanciare un missile – ripetiamo: ormai armato solo con testate convenzionali – sulle centrali nucleari, di vecchia o nuova generazione che siano, dei paesi avversari? Facendoli così piombare - con dieci, cento repliche di Chernobyl e di Fukushima, in questo caso provocate - nello sterminio di massa causato dalle radiazioni incontrollabili di quelle centrali, radiazioni per le quali non esiste cura o rimedio?
Le centrali nucleari vanno smantellate al pari delle ogive e dei missili nucleari. O l’atomica e l’atomo o l’essere umano. O l’atomica e l’atomo o la vita sul pianeta.
 di Pino Scorciapino

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