Poltrire è un’arte ed esige un lungo periodo di apprendimento

Cultura | 28 maggio 2020
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«Poltrire è un’arte. E, come tutte le arti, prima che un plauso, esige un lungo periodo di apprendimento, un vero e proprio sforzo (fisico come intellettuale) per imparane le tecniche giuste, per gestire una vocazione pertinente. Pigri si nasce? Macché: piuttosto si diventa, se si ha la capacità di fiutare l’aria che tira, di insinuarsi nelle pieghe di un mondo in continuo divenire e, soprattutto, di lottare contro le sirene stakanoviste che inneggiano al lavoro come realizzazione di sé, all’azione come principio primo e fine ultimo dell’essere umano». Un’analisi condotta da Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica all’Università di Palermo nel libro «La fatica di essere pigri». 

Un testo che arriva in questa Fase 2 dopo il lockdown per la pandemia da coronavirus: un periodo storico che ci ha messi tutti a fare i conti con un tempo sospeso da declinare in tutti i suoi aspetti. "E in un periodo di ozio forzato qual è quello che abbiamo vissuto e dal quale stiamo lentamente uscendo - prosegue Marrone - , riuscire a essere pigri è ancora più difficile e straziante. Alla prova dei fatti, la gente non ce la fa, abituata com'è a un regime di vita dove occorre essere sempre presenti e prestanti, per cui lo stare obbligatoriamente in panciolle è vissuto come un incubo, una tortura cinese. La nostra, è stato detto, è una società della prestazione, una società nella quale è saltata ogni differenza fra impegni e svago, di modo che il tempo libero è ancora più affannoso, stancante, performante di quello del lavoro. I nostri consumi sono — devono essere — altamente produttivi: siamo tutti dei prosumer. Nella pausa pranzo dall’ufficio ci fiondiamo in palestra per misurarci coi nostri muscoli guizzanti. Terminate le fatiche del call center, torniamo ad allenarci per l’ennesima maratona. Poi andiamo al supermercato per la spesa d’ordinanza, e subito a casa per preparare l’immancabile cena gourmet, badando a non dimenticare le indicazioni della nutrizionista. Una lezione di tango chiude la giornata. Mai fermi, mai pigri. Per rilanciare inseguiamo il nostro mito infantile: partecipare alla prossima gara di Ironman in un gelido paesino dei fiordi, facendo del nostro corpo una macchina, e sfiorando la dimensione fumettistica del supereroe. Ancora allenamenti su allenamenti, nel cosiddetto tempo libero, sfiancandoci sino all’esaurimento, con l’app dello smartphone che ci informa sul livello di rendimento raggiunto dal nostro corpo». 

«Per non parlare delle vacanze, ottima occasione per destinare allo sport l’intera giornata, salvo poi, tra una gara e l’altra, godere di lunghe escursioni sulla cima del vulcano più vicino», afferma. E allora ecco emergere una metafora. «La fatica di essere pigri, capiamo allora, è direttamente proporzionale a quella del vivere che le varie società e le diverse culture impongono agli individui: è una forza - osserva Marrone -che resiste a un’altra forza; un progetto personale di vita che contrasta l'organizzazione biopolitica della nostra esistenza», osserva il saggista. Le lingue, di questo conflitto sotterraneo, sanno già tutto. Il pigro, secondo il dizionario italiano, è qualcuno "che cerca di evitare la fatica e l’impegno", che sgobba dunque per non strapazzarsi, per eludere gli impegni che il mondo gli impone. Più che il latino (dove piger vuol dire immobile, sterile, improduttivo), è il greco a essere più chiaro in merito: nella lingua di Platone e Aristotele pigro è argos, contrazione di a-ergos, dunque negazione del lavoro, dell’azione operosa, dell’esecuzione di un compito qualsiasi».

 Eppure, ricorda l’autore, «decisamente più interessante il punto di vista di Leonardo Sciascia, che in Occhio di capra commenta un modo di dire siciliano, un ritornello, quasi una preghiera, che recita: O santa lagnusìa, 'un m'abbannunari/ca mancu spieru abbannunari a tià. Ovvero "O santa pigrizia non mi abbandonare / che io pure spero non abbandonarti". Prima osservazione: nel dialetto siciliano pigro si dice lagnusu, ossia qualcuno che si lagna, che si compiange senza soluzione di continuità, e che fa di questa lagnanza una specie di litania, un sottofondo musicale che lo accompagna per ogni dove», osserva lo scrittore. Poi da buon semiologo ricorda che Roland Barthes, esaltava la saggezza orientale degli haiku, per i quali la poesia del mondo sta nell’inoperosità. Così Basho: Seduto pacificamente senza far nulla / viene la primavera / e l'erba cresce da sola». Ma l’apoteosi della pigrizia si ha in sede letteraria con Oblòmov, eroe eponimo del celebre romanzo di Ivan Goncarov del 1859. «Basti dire che nelle prime 150 pagine del libro Il'jà Il'ic Oblòmov non s'alza mai dal sofà del salotto, dove usa trascorrere - chiosa Marrone - quasi tutto il suo tempo osteggiando le pretese di tutti quegli "altri"che lo desidererebbero più attivo».


GIANFRANCO MARRONE

 LA FATICA DI ESSERE PIGRI

RAFFAELLO CORTINA EDITORE 

168 PAGINE, 14 EURO

 di Giovanni Franco

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