Piccoli crimini coniugali
“L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello nella messinscena di Giuseppe Dipasquale. Col Geppy Gleijeses Lello Arena Marianella Bargilli e Renata Zamengo. Prod. Teatro Stabile di Catania. Di scena al Teatro Quirino di Roma e al Comunale di Norcia (recite, in Sicilia. dal prossimo autunno)
Satira
e Satiri.
Tratto dalla
sua novella “Richiamo all’obbligo” del 1906, “L'uomo, la bestia e la virtù” di
Pirandello prende corpo autonomo e drammaturgico intorno alla fine del 1919, palesando sin da subito le sue
potenziali, molteplici ‘opportunità interpretative’ (angolazioni, prospettive
di osservazione, chiavi di letture) cui deve, ancora adesso, la sua strenua resistenza
scenica e la presenza, quasi ad ogni stagione, di traslazioni, adattamenti,
ambientazioni che ne esaltano la scrittura ‘ad incastro’ (nel suo ‘crescendo’
di ritmi espressivi quasi rossiniani) e l’opportunità di adeguare la sua
struttura dialogica, l’intreccio borghese-plautino alla più nutrita qualità di
talenti che vi si accostano.
Per quanto
ci riguarda, sin dalla fescennina
versione (metà anni settanta) di Gabriele Lavia ed Enrico Montesano, passando
per quella ‘pantomimica’, ipergrottesca del grande Carlo Cecchi (fine anni
settanta), alla più recente, scoppiettante, passionalmente arzigogolata del
‘sorgivo’ Leo Gullotta (inizio nuovo millennio, fortunata tournée di due anni)
E’ normale
chiedersi quale sia la miscela, il segreto linguistico di quest’opera
pirandelliana, singolarmente ‘sbarazzina’ e ‘sopra registro’ – rispetto ai
canoni consueti, riveriti del suo
repertorio di intenso struggimento morale, esistenziale, cerebrale.
L’edizione cui si adoperano Dipasquale e Gleijeses saetta lungo la
traiettoria (divertita ma non plateale) della tragicommedia borghese,
increspata fra paradosso ed iperbole:
momenti di magistrale demenzialità misturati ad una sorta di effetto
grottesco(e burlesco), corroborati dalla formidabile maschera scenica di Lello Arena, subito bilanciata dalla relativa
pacatezza raziocinante delle altre presenze attorali (Bargilli e Zamengo, maestre
in ‘vaudeville’). E da quel certo glamour di seriosità beffarda, irreale, sulfurea
che la regia sa imporre al costrutto scenico.
Pur ‘amoreggiando’ con sapide digressioni
freudiane ( Pirandello studiava…) la commedia conserva intatta la sua matrice
sanguigna, mediterranea, quasi ‘marinara’, arieggiata da una ‘prouderie’
erotico\ridiculosa, secondo cui “una moglie adultera, la signora Perella,
rimane incinta nel corso della relazione col suo amante, mentre è quasi sempre
contumace il marito capitano di piroscafo. Che, si suo, è fedifrago con altra
donna in altra città di mare”
Quale
l’elemento maggiore di comicità (che
nasce comunque dalla commistione di velleitarismo retorico e palese
balordaggine dell’impresa)? La presenza dell’ineffabile professor Paolino -amante della Perella – assiso
a debordare tra consigli, strategie, suggerimenti che divagano dal Boccaccio e la “Mandragola” del Machiavelli,
con fatua ribalderia e sostanze
afrodisiache da suggerire alla ‘donna amata’ (ma può più la paura…) per far sì che nell'unica notte di sosta a
casa del marito si consumi un rapporto intimo giustificante una maternità che
attende legittimazione paterna. Di qui, e in buona sostanza, un’ opera (zione) cinica, limpidamente immorale ove intrigo
ed per ipocrisie rispondono alle
‘esigenze’ di un teatro ‘a copertura’ perbenista, già contiguo a quello
dell’assurdo e delle ‘inettitudini’- da Copi ad Almodovar.
Giuseppe Dipasquale, in regia e Geppy Gleijeses, che interpreta lo ‘stratega’
Paolino utilizzano scientemente la commedia quale esemplificazione di una “tragedia incombente”,
incapace di immaginare il minimo sentimentoo di catarsi (riscatto,
dignità, orrore di sè), tuttavia decantata
in quel
genere di umorismo, cupo e malandrino, teorizzato dallo stesso Pirandello: dunque
imparentato (storicamente) con
l’avventura del Teatro Umoristico dei
fratelli De Filippo.
Filologia a parte (e apprezzato lo snellimento stilizzato, agrodolce di tutta la messinscena) conveniamo sul fatto che “L'uomo,
la bestia e la virtù” è un misto quasi
irripetibile di farsa e desolazione, accostabile senza appropriazioni indebite (e
come da note di regia) a “Sik Sik,
l'artefice magico” e alla “Grande magia” di Eduardo.
Liddove la comunità e la cultura borghese del
novecento, e oltre, “si giocano definitivamente la faccia”. Ed ogni presunto ‘fascino
discreto’.
****
“L’uomo, la bestia,
la virtù” di Luigi Pirandello. Regia di Giuseppe Dipasquale,Con Geppy
Gleijeses, Marianella Bargilli, Lello Arena, Renata Zamengo, Mimmo
Mignemi, Vincenzo Lerto. di Luigi Pirandello
costumi Adele
Bargilli scene Paolo Calafiore musiche Mario Incudine luci Luigi Ascione foto Federico Riva regia Giuseppe Dipasquale
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