Per una rifondazione dell’antimafia
L'analisi | 2 agosto 2024
Le riflessioni di Emilio Miceli e di Franco La Torre possono aprire un dibattito di cui si sente la necessità, in un contesto in cui nel movimento antimafia si registrano lacerazioni e contrasti fino alla litigiosità. Dobbiamo imparare a discutere e confrontarci, se non vogliamo annegare in un pantano.
L’assalto alla legislazione antimafia
Miceli, a cui auguro buon lavoro come nuovo presidente del Centro “Pio La Torre”, invita a partire dal “qui e ora”, ponendo come primo tema l’“assalto” alla legislazione antimafia da parte del governo e della maggioranza attuale, sulla base della considerazione che si tratta di una legislazione speciale, legata a una fase emergenziale, con la guerra di mafia più sanguinosa nella storia della mafia e i grandi delitti. Come si ricorderà, la legge “Rognoni - La Torre”, che ha introdotto il reato di “associazione di tipo mafioso”, è stata approvata il 13 settembre del 1982, dieci giorni dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, assieme alla moglie e all’agente di scorta. Non erano bastati gli assassinii di Mattarella e di La Torre e Di Salvo; Il legislatore si è sentito in dovere di intervenire solo dopo un delitto che colpiva un rappresentante delle istituzioni inviato in una Sicilia insanguinata quotidianamente dalla violenza mafiosa. E la legge era tarata sul modello siciliano, colto nella fase della “mafia imprenditrice” (ma già, con la lievitazione dell’accumulazione illegale, si profilava la “mafia finanziaria”) anche se si prevedeva l’estensione alla camorra; le associazioni straniere e la ’ndrangheta, per molto tempo ignorata, saranno prese in considerazione successivamente.
Nonostante il suo atto di nascita emergenziale, ma alle spalle c’era un lunga fase di gestazione (si può dire che cominci con la legge 575 del 1965, con le “disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere”), non c’è dubbio che la legge antimafia e la legislazione successiva hanno approntato gli strumenti che hanno consentito di battere la mafia, almeno nella sua componente stragista, gestita dai corleonesi, ma penso che sia stato proprio questo successo a destare più preoccupazione che consenso e approvazione. Facciamo un passo indietro. Nei materiali preparatori del maxiprocesso e poi nella sentenza di primo grado, si legge, a proposito degli omicidi politici: “omicidi in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente ‘voltare pagina’”.
Cioè: il maxiprocesso era il primo passo, contro l’ala militare, a cui sarebbero seguiti altri passi, e quel “voltare pagina” è stato sentito come una minaccia e un avvertimento. E, ad evitare che quella pagina venisse “voltata”, al successo del maxiprocesso è seguito lo scioglimento del pool antimafia. Ma il lavoro di Falcone al ministero della Giustizia avrebbe approntato altri strumenti come la Dia e la Dna e la reazione alle stragi portò all’introduzione del carcere duro e dell’ergastolo ostativo, assieme alla legislazione premiale per i collaboratori di giustizia. Un corpus legislativo che ha suscitato anche problemi e contrasti, ma che è stato ritenuto l’esempio più avanzato dell’azione giudiziaria contro la criminalità organizzata.
Ora è in atto un’operazione che si svolge su vari piani, ma tutti convergenti nell’attacco non solo alla legislazione ma anche alle prassi che ne hanno consentito l’applicazione. E questa volontà si materializza con la limitazione delle intercettazioni: dopo la battuta dell’ineffabile ministro Carlo Nordio, secondo cui “i mafiosi non parlano al telefonino”, si è tirato fuori il loro alto costo, ma l’attuale procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha fatto i conti: si parla di un costo di 170 milioni di euro l’anno, ma in un solo processo, grazie alle intercettazioni, sono stati sequestrati valori per 280 milioni di euro! E poi la divisione delle carriere, per mettere sotto controllo i pm in prima linea nel contrasto alle mafie; le limitazioni alla libertà di stampa soprattutto nel campo giudiziario; l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, un reato che apre le porte all’individuazione delle dinamiche corruttive.
La concezione della mafia nell’era digitale
Il problema è la concezione della mafia che hanno governo e maggioranza. Mi pare che perduri un vecchio stereotipo: la mafia c’è se spara, se non spara, non c’è o è come se non ci fosse.
E noi cosa pensiamo dell’attuale stato della mafia, in particolare di quella “nostrana”? Diciamo: con il maxiprocesso e gli altri processi è stata sconfitta la mafia corleonese; ora bisogna lottare la mafia affarista e i suoi rapporti con la politica e le istituzioni. Insomma: “voltare pagina”.
Stando alle relazioni della Dia, mi riferisco in particolare a quella del secondo semestre del 2022, la mafia, le mafie, avrebbero messo da canto la violenza e scelto come prassi privilegiata la corruzione. Si potrebbe dire: si sono iscritte al club delle lobbies. Si legge nella relazione: “Gli elementi investigativi finora raccolti confermano che le organizzazioni criminali di tipo mafioso, nel loro incessante processo di adattamento alla mutevolezza dei contesti, hanno implementato le capacità relazionali sostituendo l’uso della violenza, sempre più residuale, con strategie di silenziosa infiltrazione e con azioni corruttive e intimidatorie”. Ma il riferimento all’intimidazione lascia intendere che, alle sue spalle, non può non esserci una reputazione legata alla violenza, se non agita, almeno eventuale e potenziale. In questo processo di rigenerazione avrebbe un ruolo centrale la digitalizzazione, mediante il coinvolgimento di tecnici di altissima specializzazione che operano nel dark web e consentono il riciclaggio del capitale illegale e la movimentazione delle risorse in tempi ridottissimi. In tal modo il crimine organizzato assume una dimensione globale, costituendo una minaccia per gli Stati e la società mondiale. A quanto pare, in testa a questo processo, che muove verso l’intelligenza artificiale, sarebbe la ’ndrangheta, assurta a mafia più diffusa e potente del globo.
E Cosa nostra? Dopo i colpi ricevuti negli ultimi decenni, non avrebbe più una direzione centrale, decapitata con l’arresto e la morte di Riina e Provenzano, e non riesce a ricostituire la cupola, grazie all’efficace monitoraggio delle forze dell’ordine. Matteo Messina Denaro dominava solo nel trapanese e, dopo l’arresto e la morte, si è scoperta la “borghesia mafiosa”, la rete di complicità e connivenze in cui si incrociano professionisti, imprenditori, amministratori, politici e rappresentanti delle istituzioni. Fino a qualche tempo fa la stessa espressione “borghesia mafiosa” veniva considerata un cascame del veteromarxismo, ora è diventata un luogo comune.
Sono sempre in piedi famiglie e mandamenti, con commissioni scarsamente operative e una relativa autonomia delle famiglie. Con l’affievolirsi delle fonti di reddito tradizionali, dall’estorsione agli appalti, c’è stato un ritorno alla droga, ma non con il ruolo egemonico dei tempi di Badalamenti con la Pizza Connection. L’approvvigionamento avverrebbe tramite la ’ndrangheta e la camorra. C’è stata una convivenza con i gruppi nigeriani. Si sarebbe ricostituito il legame tra la Cosa nostra locale e quella americana, un’internazionalizzazione pionieristica e riverniciata. E questa dimensione, inter o trans-nazionale, convive con quella territoriale, rionale. Arcaico e postmoderno non sono in contraddizione, sono reciprocamente funzionali.
Sul terreno degli affari, è prevedibile la ripresa degli appalti e subappalti, se i fondi europei erogati dopo la pandemia saranno assegnati senza adeguati controlli. E poi ci sarebbe il Ponte! In una Sicilia con strade permanentemente dissestate e ferrovie da Far West.
Sul piano politico, una volta archiviato il ruolo di baluardo anticomunista, Cosa nostra è alla ricerca di “chi ci sta” e le disponibilità non mancano. Si è sempre in attesa di una verità sui grandi delitti e le stragi, ma la “trattativa” risulta che ci sia stata e costituisca un reato per il giudizio di primo grado, non sia un reato per il giudizio d’appello, non c’è stata per la Cassazione. Ma è un dato di fatto: la richiesta di contatto c’è stata ed è venuta da soggetti istituzionali. Sono d’accordo con Emilio che non nasconde le sue perplessità: al centro di tutto c’è stato il dossier “Mafia e appalti”? Il dossier potrà avere avuto un suo ruolo, ma non riesco a credere che Falcone e Borsellino siano caduti per una questione di appalti, anche se dentro c’erano imprese nazionali come la Ferruzzi-Gardini. Il coinvolgimento di magistrati come Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone ha qualcosa a che vedere con le stragi? A mio avviso, il gioco era molto più grande e complesso. Era proprio quello che si diceva ai tempi del maxiprocesso: gli “oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa pubblica”, cioè la morfologia del potere.
E su “uno dei depistaggi più gravi della storia giudiziaria italiana”, consumato per la strage di via D’Amelio, non penso che la verità possa venire dai processi di Caltanissetta: gli incriminati sono comparse, i protagonisti o sono morti o sono rimasti nell’ombra. Siamo un Paese (qualcuna risuscita la Nazione!) in cui gli “arcana imperii”, a cui faceva riferimento Norberto Bobbio, sono destinati a rimanere, o rischiano di rimanere, in archivi di cui non si trovano le chiavi.
Il contesto, l’antimafia silente e i beni confiscati
Franco La Torre ricorda le parole di suo padre: “Noi concepiamo la lotta alla mafia come un aspetto della più generale battaglia di risanamento e rinnovamento democratico della società italiana”. Purtroppo questo modo di fare antimafia e politica è crollato con il suicidio delle sinistre e la sostituzione dei partiti storici con corti e cortili di personaggi interessati solo a ottenere, mantenere e rafforzare posizioni di potere, facendo dell’illegalità, e anche dei rapporti con la mafia, il loro passaporto. È vero che la società civile, partiti, sindacati, enti del terzo settore, hanno fatto la loro parte nel cercare di portare avanti quella battaglia, ma negli anni ’90 del secolo scorso ci sono stati mutamenti epocali e ancora oggi se ne avverte il segno. La fine della guerra fredda ha dato la parola alle armi, siamo all’anteprima di una possibile guerra mondiale; il neoliberismo e la religione del mercato sono diventati pensiero unico, la globalizzazione ha globalizzato diseguaglianze e squilibri territoriali, favorendo le mafie; la finanziarizzazione dell’economia ha reso impossibile, o abbastanza difficile, distinguere capitali illegali e legali, e ora hanno preso piede il sovranismo, il populismo che riscrive il potere affidandolo a improbabili “salvatori delle patrie”. Un mondo disumano, schierato contro i poveri che cercano di sfuggire alle carestie e ai disastri ambientali: la rapina di risorse e l’inquinamento atmosferico hanno reso il pianeta sempre più invivibile. “Restiamo umani”, diceva Vittorio Arrigoni, il militante pacifista ucciso a Gaza nell’aprile del 2011, ma dovremmo dire: “Diventiamo umani”, perché tanti non si pongono neppure il problema, considerano tutto quello che accade normale, in ogni caso ineliminabile.
Se oggi abbiamo un’antimafia “debole, divisa, silente e assente dal dibattito pubblico”, ciò si deve a problemi interni al mondo dell’antimafia, di per sé composito ed eterogeneo, ma anche a un contesto in cui è difficile trovare alleanze e riferimenti. Occorre ripensare strategie e tecniche, scrive Franco La Torre, e approfondisce un aspetto nodale come l’uso sociale dei beni confiscati. L’agenda che propone è pienamente condivisibile; si aggiunga il recente accordo tra il ministero dell’Agricoltura e l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) grazie al quale terreni sottratti alle mafie verranno messi a disposizione di giovani imprenditori agricoli, con un canone agevolato. Si tratta di sostituire l’antimafia sociale, sulla base della legge 109 del 1996, con l’iniziativa privata. È intervenuto Peppino Di Lello, estensore del disegno di legge, sono intervenute Libera, la Confcooperative, la Cgil, ma la reazione mi pare inadeguata.
Il problema dell’uso dei beni confiscati non è solo il mercato degli incarichi di amministratore giudiziario gestito dall’ex giudice Silvana Saguto; il problema è di fondo: va dall’inadeguatezza dell’Agenzia alle lungaggini nell’assegnazione, alla riconversione delle aziende e ora pure alla negata disponibilità dei fondi del Pnrr. Non c’è la volontà politica di fare dell’uso sociale dei beni confiscati l’asse portante di una strategia di riappropriazione collettiva della ricchezza accumulata dalle mafie.
Un’antimafia come forma di Resistenza
Ripensare le strategie vuol dire ripensare il ruolo e i compiti dell’antimafia nel contesto attuale, farne la parte di un progetto complessivo, che recuperi un vecchio termine: Resistenza (invece dell’imperversante “resilienza”) e lo leghi a un progetto di mutamento possibile. Un’antimafia che vada di pari passo con l’antifascismo, di fronte al governo di un partito con la fiamma che sprizza dalla tomba del duce; con un netto no al premierato forte, all’autonomia regionale differenziata (da abrogare con il referendum per cui abbiamo raccolto le firme, con esiti che fanno ben sperare); al guinzaglio alla giustizia e al potere giudiziario, al bavaglio all’informazione, alla criminalizzazione delle manifestazioni. Un’antimafia che affianchi e condivida la mobilitazione per il lavoro legale e tutelato, non schiavistico e nelle mani del caporalato; che sostenga le lotte ambientaliste e pacifiste, riprendendo la stagione di Comiso, che vide protagonista Pio La Torre, in un quadro aggravato. Con guerre in atto e non solo potenziali. Che contribuisca a costruire una politica alternativa alla persecuzione dei migranti, rilanciando l’esperienza di Mimmo Lucano, risuscitato dal calvario a cui l’avevano condannato. Riace è anche antimafia.
Si parla di un’antimafia “intersezionale”; non è una problema di terminologia, il problema è la volontà e la capacità di costruire un progetto complessivo, fondato sulla correlazione tra aspetti di una società articolata e complessa. E se è necessario mutare il linguaggio, possiamo farlo, a cominciare dallo stesso termine “antimafia”, in cui domina l’“anti” che dovrebbe cedere il posto al “per”.
Un progetto per Palermo e un’alternativa alla società mafiogena A Palermo, oltre a problemi, che si dicono emergenziali ma sono permanenti, come i rifiuti, l’acqua, la mancanza o l’inadeguatezza di servizi pubblici, dai trasporti alla scuola, agli asili nido, alla sanità, da alcuni anni si vive una tragedia: la diffusione del crack, un derivato della cocaina, gestita dalla mafia con il concorso di famiglie, compresi i bambini, che vivono di illegalità in mancanza d’altro, e che coinvolge soprattutto i giovani, soggetti a rischi di emarginazione e spesso di morte.
Ne parliamo nel libro Mafia & droga in cui, oltre a fornire analisi e documentazione, raccogliamo proposte come un disegno di legge: “Dalla dipendenza all’interdipendenza”, elaborato da docenti universitari (un nuovo modo di fare Università, aprendola al territorio) e da organizzazioni che operano sul campo. Il progetto è stato presentato all’Assemblea regionale ma non si sa che fine abbia fatto e, nel corso dell’ultimo festino, l’arcivescovo Corrado Lorefice, che aveva partecipato alla presentazione, ha rivolto un aspro rimprovero a chi lo tiene nei cassetti. Bisognerebbe costruire una mobilitazione adeguata, farne una vertenza, sindacalizzare l’antimafia, coinvolgendo tutti gli interessati in questa battaglia di civiltà.
Una nota finale. Nonostante arresti e condanne, la mafia si riproduce e rigenera, perché viviamo in una società mafiogena: con una mafiosità diffusa: atteggiamenti, comportamenti, modelli di vita quotidiana fondati sulla prepotenza e l’appartenenza; l’estraneità o la scarsissima partecipazione alla vita comunitaria, la noncuranza per l’ambiente, un’economia legale debole o inesistente, una diffusa richiesta di beni e servizi illeciti, l’illegalità e il clientelismo come prassi abituale, un analfabetismo educativo di gran parte della popolazione, una condizione giovanile allo sbando, con gruppi dediti alle aggressioni e al vandalismo, all’occupazione del territorio: non lo controlla nessuno, né lo Stato, né Cosa nostra, la cui “signoria territoriale” o ha smagliature o non è più totalitaria com’era prima. Sono gruppi in tirocinio per l’ingresso nella mafia o per formare baby gangs autonome, con o senza il nulla osta di Cosa nostra.
Nel 1878 Pasquale Villari, uno de padri della “questione meridionale” (c’è ancora e l’autonomia differenziata la riproporrebbe in versione aggravata), scriveva: “La camorra, il brigantaggio, la mafia sono la conseguenza logica, naturale, necessaria di un certo stato sociale, senza modificare il quale è inutile sperare di poter distruggere quei mali”. Nel frattempo molte cose sono cambiate, ma quelle parole, anche se non circolano più briganti con gli schioppi e i pugnali, sono ancora attuali.
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