Per un populismo d’antan, le disastrose prove generali di Trump

Politica | 11 gennaio 2021
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Grottescamente innamorato di sé stesso, si è impadronito del potere per soddisfare il suo ego, visceralmente impegnato a catturare l’attenzione del mondo intero.

Nella più compiuta delle democrazie, quella americana, l’unica adatta a realizzare il sogno dell’uomo di strada, trasformando il ranocchio in principe, quel Donald Trump è entrato a forza, invertendo i termini dell’equazione, vestendo i panni del manipolatore dei valori di base della nazione. Anche lui, redivivo trasformista, sceso dal gotha della finanza per assumere il ruolo di improbabile politico.

Ma tant’è. Sulla strada della democrazia ci sono baratri profondi a interromperne il cammino. Nel più profondo è precipitata senza scampo, l’America, nel tentativo nuovista, allora per oggi, di rinnovare la politica attraverso la sovranità popolare, affidandosi a strangers in the night.

A discutere dell’influenza esercitata dagli States sul rimanente dei continenti non basterebbe un saggio di migliaia di pagine. Ci si accontenterà, in cambio, di ricorrere all’immagine di una pioggerellina caduta dal cielo su Washinton trasformatesi in uragano a Parigi, Londra, Roma o Sidney. Almeno, prima dell’avvento del Tycoon. Adesso, si valuti la tempesta in America con le inevitabili ricadute sul rimanente del globo e, non ci sarà da ridere neanche per i populisti di borgata.

Chiunque avesse sottovalutato l’ex-presidente, straniero nella notte della politica americana, ha commesso un macroscopico errore, giacché operando in regime di sospensione di giudizio degli elettori ha alzato muri, abolito l’Obama care, unica protezione sanitaria per i meno abbienti, ridotto i diritti degli afroamericani, riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele, in palese disprezzo delle millenarie presenze interreligiose nella Città Santa, solo per citare significativi esempi.

Con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, Trump ha forzato per destabilizzare gli assetti costituzionali, legislativi e consuetudinari della democrazia americana.

A fermarlo sulla soglia della guerra civile, la seconda nella storia del Nuovo Continente, la sua prima crisi di autostima, indotta dalla paura di perdere con il potere derivante dalla posizione del più potente uomo al mondo, la libertà, le ricchezze e, non ultimo, la ricandidatura insieme con l’influenza sulla destra estremista, da lui considerata, a ragione, il suo braccio armato.

Già, del consenso moderato, guadagnato a causa della reazione degli elettori alle famiglie dinastiche, le sole a disputarsi la presidenza degli States, nella sera della scorsa Epifania, Trump ha dissipato quasi tutto. Gli rimangono solamente frange violente ed eversive, che colgono nel suo messaggio, lungo anni, il desiderio di vendetta, magari mascherato da propositi reazionari, adatto a soddisfare il loro bisogno di guerriglia urbana, basato su odio razziale, inesistenti complotti di pedofili, di ebrei depositari delle ricchezze del pianeta, negazionisti del Covid 19, guerrieri dell’informazione e compagnia cantante.

In talune vignette diffuse in rete, nei giorni a seguire la sua bocciatura elettorale, veniva raffigurato a saltare con una palla rimbalzante. Invitato a lasciare il giocattolo al bimbo, legittimo fruitore, si rifiutava. Tascinato via a forza, scalciava e provava a divincolarsi.

All’ignoto regista della scenetta, girata da un attore somigliante, nella parrucca sicuramente, va il merito di avere penetrato la personalità del presidente uscente.

Porello, nell’intercalare romano, disperato alla ricerca di un risarcimento per avere avuto sottratto il più prezioso dei trastulli conquistato nella sua vita, ha dovuto rifugiarsi nel Risiko, gioco di strategia, non propriamente adatto alle idee devianti di Trump, tuttavia unica opzione rimastegli, nei prossimi anni, avendo scommesso e perso nell’azzardo di giorni or sono il patrimonio di voti proditoriamente intercettati nelle elezioni del 2016, grazie alle manipolazioni dei suoi guru. Tuttavia, sicuro di rimanere sulla scena ha escogitato ora per l’avvenire, di radunare il peggio del peggio, scurnacchiati, nel dialetto napoletano, non nel senso letterale del termine, in quanto alla prova dei fatti, delinquenti, fautori di violenze, sociopatici a caccia di emozioni nel massacrare gente di colore o dare fuoco ai clochard, tralasciando cospirazionisti, terrapiattisti, seguaci del QAnon, veterani di guerra delusi e depressi.

Perché mai Trump dovrebbe guidare una moltitudine di disadattati, ci si chiederà, legittimamente?

In prima istanza non gli è rimasto null’altro per le considerazioni appena espresse, in secondo luogo, in quanto costituisce, nella sua struttura narcisistica, la più affascinante playstation che un adulto possa possedere.

Nella personale ed esclusiva fabbrica di post-verità, cioè la realtà virtuale, la tecnica di comunicazione adottata da Trump è quella della parlata deviante, così definita dai semiologi.

Poiché la circonlocuzione è usata segnatamente in contrapposizione al positivo di parlata indicante, si sostituirà la prima definizione con parlata subliminale. Servirà a comprendere meglio l’oratoria di Trump, in quanto essa nasconde sempre, comunque e dovunque, significati interpretabili dietro o avanti la linea delle parole pronunciate.

Nei messaggi, da Twitter a Facebook, ai comizi, l’ultimo dietro vetri blindati, si coglie la polivalenza semantica per usare l’espressione degli studiosi di linguistica, ovvero proposizioni aperte dal punto di vista concettuale, anche del linguaggio, percepiti dai sostenitori, la frangia violenta, in base alle proprie devianze, sempre rivolti a fini eversivi.

Nell’idea di Trump, il concetto di eversione contempla la sostituzione della morale degli schiavi con la morale aristocratica, attraverso la trasposizione dell’assunto nietschiano dal campo dell’etica a quello della finanza, operando, in modo tale da abolire la rete di protezione sociale, parimenti, qualsiasi spazio di redistribuzione della ricchezza per fermare il processo avviato da Obama di riconoscimento dell’emarginazione, quale fenomeno di disabilità fisica o psichica. In chiaro, il più forte vinca, non importa in che modo. Siamo alla estremizzazione del concetto di liberismo in economia, ricadente sugli assetti sociali per gli aspetti riguardanti la distribuzione dei redditi, per cui i plutocrati si avviano verso maggiore accumulo di risorse, mentre il ceto medio e le soglie di povertà arretrano sempre più, a fronte delle bolle speculative, trading pirateschi, svalutazioni dei crediti, rendite fondiarie gonfiate e via di questo passo. In sostanza, meccanismi economici sovrastrutturali, tarati per arricchire esclusivamente chi possiede i capitali per lucrare.

In Trump, versione digitale dell’uomo solo al comando, interprete del pensiero unico in chiave di eloquio subliminale, sono racchiuse le febbri di palude della democrazia reale chiusa all’angolo da quella virtuale da fantasmi evocativi di profonde crisi sociali patite da nazioni a guida di governi liberali agli inizi Novecento, riprodottesi negli anni uno e due del terzo millennio.

A dirla lunga sulla lucidità di Trump circa lo stuolo di seguaci, schierati davanti alla Casa Bianca per ascoltarlo, la protezione dei vetri blindati nel comizio di chiusura della sua parabola di presidente degli Usa. Nel riconoscere gli esaltati, si è adoperato a guidarli verso l’obiettivo, schermandosi dalla loro furia nella consapevolezza di avviare la prima scorribanda armata dopo la Guerra di secessione, a distanza di oltre 150 anni.

Marciate su Capitol Hill, ha esortato il presidente in veste di guastatore, rivolto a teppisti, golpisti, banditi assiepati davanti al palco. Questi sì, tenuti a debita distanza dallo schieramento di polizia, poco dopo, inesistente, davanti al Campidoglio, nel momento dell’incursione.

Nella sua spregiudicatezza, ormai debordante il limite della paranoia, il presidente degli Usa aveva speso tante fiches per radunare la folla di esagitati, e, al contempo, usato residui di credibilità, se non minacce, per ottenere che non venisse schierata la Guardia Nazionale a protezione del Palazzo del Congresso.

A copertura esplicita della sommossa, il promotore, il Tyocoon, aveva consegnato ai teppisti l’intimidazione nei confronti del vicepresidente, Mike Pence e dei restanti deputati, riuniti per certificare l’elezione di Joe Biden a quarantaseiesimo presidente, vietandone il riconoscimento, pena la loro stessa incolumità.

Fosse riuscita la mossa, qualora gli assalitori avessero dato fuoco all’edificio in più punti segnalati, come da programma, anziché dedicarsi all’hobby dei selfie, Trump avrebbe preteso dal Congresso poteri speciali per spegnere le rivolte divampate in diverse regioni dell’America.

Con il rinvio dell’insediamento di Joe Biden e la fuga dal Campidoglio dei deputati per rifugiarsi nei bunker domestici, la strada per trattare con lo stesso Congresso sarebbe stata spianata. E, Trump avrebbe, formalmente mediato tra gli States e i rivoltosi, nei fatti ne avrebbe assunto la leadership.

Avendo mancato l’obiettivo, il Tycoon, ormai in disarmo, si parla sempre del presidente degli Stati Uniti, ha tempestivamente condannato i farabutti, osannati qualche ora prima da patriots.

Nell’affermazione di Trump di essere di intelligenza superiore ci si può credere o no. A propendere per il sì, necessiterebbe, segnatamente, attribuirgli il calcolo di presunta immunità per il tentativo di eversione del 6 gennaio, perdurante allo scadere del suo mandato, cioè da subito.

Se lo si accreditasse di ambedue, intelligenza e immunità dai rigori della giustizia americana, in tal caso non ci vorrebbe l’indovino per intuirne la parabola futura. Salirà sul palcoscenico della politica fondando, a destra dei repubblicani, un movimento, reazionario a parole, sovversivo nei fatti. Sempreché non riesca, impresa ardua, se non impossibile, a impossessarsi dello storico partito di provenienza.

Contemplando l’ipotesi, invece, della cessazione dell’immunità, in automatico Trump non potrà annoverarsi tra le persone di intelligenza superiore, bensì tra le personalità disturbate, come da ipotesi iniziale di questo articolo.

Nel mirino della macchina della giustizia, Trump è già entrato, in quanto gli inquirenti hanno prove a ufo del ruolo di promotore della rivolta contro le istituzioni degli Stati Uniti. Nessun dubbio, il presidente in persona, ha provveduto a ordire il raid. Ora, il Tycoon sosterrà di avere solamente insistito sulle parole d’ordine (elezioni truccate, congiura contro e via di seguito), mentre i magistrati, verisimilmente, gli contesteranno il disegno complessivo, attribuendo allo scaduto presidente le deleghe a figli e familiari per curare le esigenze organizzative del raduno, per perorare e sostenere la chiamata all’assalto del Palazzo del Congresso, assistendo e supportando la massa proveniente dalle più disparate località.

Non regge il confronto, neppure il De Catilinae coniuratione, giacché se dovessero essere confermati i sospetti, qui espressi sommariamente, il processo penale, potrà avere risvolti clamorosi. Considerando, in aggiunta, il ricorso al venticinquesimo emendamento, rimandato dopo il centesimo giorno della presidenza Biden, strumento adoperato non solo dai democratici, anche da una parte dei repubblicani per mettere definitivamente fuori dallo scenario della politica Donald Trump, si profila all’orizzonte uno scontro dagli esiti imprevedibili tra il modello dell’America, culla della democrazia, contro le frange estremiste, volte allo scardinamento di essa, guidate dal Tycoon.

Se il neopresidente, Joe Biden si è espresso contro l’applicazione del venticinquesimo emendamento, lo si deve alla sua volontà di recuperare l’unità del Paese, in prospettiva della presumibile contesa perseguita dal Tycoon nei prossimi mesi, compromessa da quattro anni di odi sparsi a piene mani dal predecessore. Ma, a onore del vero sembrerebbe una spartizione dei ruoli tra il neoeletto e la presidentessa del Congresso, Nancy Pelosi.

In questo quadro, il recupero del consenso ai Democratici di quella porzione di elettorato moderato rifugiatosi nel voto a Trump per la profonda delusione della candidatura di Hilary Clinton nelle elezioni del 2016, e rimasta a sostenere Trump per via delle associazioni di trust promosse dal Tycoon insieme con i provvedimenti di protezione delle aziende americane, efficaci dal punto di vista imprenditoriale, diventa essenziale per scongiurare un conflitto dalla portata imprevedibile. Nel caso dei voti acquisiti dal presidente uscente nella fascia degli industriali, si tratta, ovviamente, di ceti abbienti, attratti dal presupposto sbandierato da Trump, in fase di prima campagna elettorale, di spezzare il filo tra le direttive economiche del Governo e Wall Street, a detrimento della finanza e in favore di provvedimenti di rilancio dell’imprenditoria. Su questo terreno di disputa da sempre della politica americana, la Clinton, già nel 2016, aveva perso la corsa alla Casa Bianca. Errore tesaurizzato da Biden, attento a non palesare le opzioni nel campo dell’economia fino a quando non ha conquistato il soglio presidenziale. Adesso ha riconfermato l’asse con Wall Street, con la cooptazione di tre dirigenti del colosso finanziario Blackrock nella squadra di governo, da Micheal Pyle, capo economista, a Brian Deese, direttore dei consiglieri economici di Joe Biden, per finire con Wally Adeymo, nominato vicesegretario al Tesoro. Aprendo così la strada, probabilmente, a una guerra senza quartiere con la fazione di Trump.

Alla finanza internazionale, la setta di QAnon attribuisce la congiura e più, contro il Tycoon, compartecipata da pedofili, autori degli omicidi di diversi bambini! Se qualcuno dovesse sorridere dell’affermazione, consideri, la fazione in questione ha eletto due deputati al Congresso.

Nell’eventualità, Trump uscisse intonso dall’accusa di assalto al Campidoglio, la democrazia americana subirebbe un colpo pesante. Con essa, per le note ripercussioni, a causa dell’effetto domino, i paesi a democrazia avanzata del mondo.

Qualora, invece, punito, in modo tale da fermarne la candidatura alle presidenziali del 2024, non reagirà con la violenza?

Eppure, la giustizia sarà costretta a sbarrare il passo a Trump, senza alternative plausibili. A quel punto cosa potrà fermare il Tycoon dall’intraprendere un percorso di vendette, di rivalse, radunando intorno a sé, seppure a debita distanza, separato sempre da vetri blindati, frustrati sociali, neonazisti, nostalgici di dittature, personalità disturbate, narcisisti patologici, scontenti. Costoro, guidati dalla micidiale arma della comunicazione del Tycoon, una mistura di luoghi cospiratori, all’abbisogna redatti, ricorrendo alla lingua subliminale, già adoperata nel comizio del 6 gennaio, coniata sui leit-motiv di QAnon, teoria, diventata di recente ideologia di estrema destra con l’obiettivo di sostenere Donald Trump nella missione di rompere l’ordine mondiale colluso con mass-media, ebrei, pratiche occulte e compagnia cantante, non saranno l’arma puntata contro il Congresso e contro il Presidente degli Stati Uniti?

Ci ricorda qualcosa, questa salsa di veleni?

A chi, ancora tentennasse nel fermare per tempo Trump, senza scomodare la storia, si vuole rammentare la pericolosità del progetto che lo muove, quello di manipolare l’informazione su scala globale a supporto dei fini perseguiti. Tralasciando il Russiagate, come definire altrimenti la comparsata allestita in rete nelle ultime ore, svelata dal La stampa, dai fiancheggiatori, secondo cui Obama ha elargito 400 milioni di dollari per pilotare in favore di Biden le elezioni presidenziali americane, servendosi dell’agenzia italiana di controspionaggio estero Leonardo, del Vaticano, di Matteo Renzi e del presidente del consiglio italiano, Giuseppe Conte?

Bannato da Zuckerberg su Twitter, il Tycoon ha già inaugurato un social network personale, dove aizzerà i propri adepti alla sedizione, influenzando, facile profezia, sbandati, malintenzionati e sempliciotti in giro per il mondo.

Così è (se vi pare). Purché non si giunga a recitare il requiem della democrazia.

 di Angelo Mattone

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