Per Dario Fo, artista e giullare di multiforme ingegno

Cultura | 13 ottobre 2016
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E’ stato irresistibile, beffardo, strabiliante anche in punto di morte: il nostro grande Dario, incapace quasi di respirare, in piena crisi polmonare, eppure- sostiene il medico che lo ha assistito- ancora capace di parlare, affabulare, divagare – gli bastava un filo di voce- divorando argomenti, conoscenze, personali esperienze che “avevano dell’impressionante, dell’enciclopedico”. Senza che il degente se ne rendesse conto, come se fosse ancora sui praticabili di scena a confabulare e dare lucidi consigli ai suoi compagni d’avventura. Una sorta di Molière al contrario, che non aveva in uggia la scienza di Ippocrate, e che a cerusici e infermieri amava rivolgersi con amabilità, confidenziale rispetto, nessun cedimento alla consapevolezza di essere giunto al suo terminal di finecorsa.


Uno sghignazzo pure alla morte? Non credo. Dopo la scomparsa della compagna Franca Rame, anche Dario aveva imparato ad averne rispetto, distacco, distanza di sicurezza.

Trovando negli affetti più intimi (il figlio, la nipote) sostegno e carburante per continuare ad essere solerte – “sino all’ultimo respiro”?- nei doveri che la vita pubblica ed intellettiva ‘esigeva’ a quest’uomo di novant’anni, le cui opere, iniziative, realizzazioni avevano il marchio rinascimentale di quel ‘multiforme ingegno ’ non più rintracciabile in epoca di specializzazioni e compartimenti stagni, condotti sino alle estreme conseguenze: l’esclusione del ‘non sapere’, del top secret, dell’abisso fra nativi digitali e il resto dei viventi


Resta imponente, impressionante, quasi soggiogante il corpus drammaturgico dell’artista, nel suo un centinaio di testi teatrali, che gli valse (nel 1997, dopo una prima candidatura risalente al 1975) il tanto contrastato Premio Nobel per la Letteratura e la conseguente consacrazione internazionale: con opportunità di lavoro, consulenze, lezioni, supervisioni che non ebbero più confine di lingua e geografia. Ulteriore paradosso di un autore che (come attesta l’artiglieria dei suoi ‘grammelot’) nutriva, di suo, una natura basica, una struttura linguistico-sperimentale (sconvolta, disarticolata) affluente dai nei mille dialetti, accenti, sonorità della tradizione italiana – a partire dalla sempre amata (studiata e ristudiata) commedia dell’arte. Riflessa e corroborata da quella particolare fascinazione che s’era impossessata di Dario dopo la giovanile scoperta delll’universo del Ruzante, e della successiva ‘indagine’ svolta fra ciò che restava (di riesumabile, di riabilitabile) dei secoli degli zanni e dei giullari.


Con una precisazione storica a questo punto imprescindibile: l’appartenenza di quelle maschere ad uno sperduto universo che, più di ogni altro, aveva saputo contaminare, arricchire, far scintillare il meglio della cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’ (classificazioni tuttavia di comodo) derivante dalla tradizione medioevale. Per quel tanto che della cultura trobadorica e della ‘chanson de geste’ (di origine transalpina) s’era poi ingigantito a contatto con il mecenatismo, l’incitamento, il crogiolo delle lettere e delle arti fiorito in Sicilia (intorno al 1200) alla corte di Federico II. Liddove il ‘teatro di narrazione’ (o quello che adesso celebriamo tale, plaudendo a Baliani, Celestini, Paolini) ebbe inizio mediante il progressivo intersecarsi degli artisti di corte fra giullari- interpreti ed esecutori dal guizzo fescennino- e trovatori – in genere, intellettuali, letterati, poeti dall’eloquio elegante e laudativo, specie all’indirizzo di aristocratiche e damigelle d’onore.


Strano a dirsi: Dario Fo non fu che il prosecutore, consapevole, di una genìa di girovaghi e ospiti di corte iniziata con Ciullo D’Alcamo (e il suo “Contrasto”), Ruggeri Apugliese (e il ciclo dei “Vanti”), Matazone di Caligano (autore del “Detto dei villani”): quando all’intrattenitore di riguardo era concesso incantare le folle ed i notabili graditi al sovrano, con i prodigi della fantasia ‘al potere’ e del sapere sconfinato (anche a costo di sperticarsi in “frottole e visioni”, secondo una metodologia che durerà almeno sino ai poemi di Ludovico Arisosto, ma io azzarderei anche Borges e il misconosciuto Cavazoni).


Ulteriore paradosso per un artista come Dario che, con il mutare dei secoli, aveva impiegato ogni sua energia per riscattarsi da ogni forma di potere e sudditanza, ovvero dimostrare quanto il Re sia nudo (e crudo) e che il ruolo dell’interprete “ha da essere di parte”, ma da una sola, quella degli oppressi, dei derelitti, degli emarginati – sino all’ingiuria della follia e della tentata ‘dannazione di memoria’ (come nel caso di Campana, Artaud, Alda Merini)


Quante vite ha vissuto Dario, tra palcoscenico, studio di pittura, responsabilità di impresario e trasferte all’estero (ove tutti lo reclamavano senza mai traduzione)? “Una più straordinaria dell’altra, una dentro l’altra, riflesse come in un gioco di specchi capace di moltiplicare il tempo e le storie” diceva di se stesso, ancora incredulo di quanta esagerata fortuna avesse accudito “quel figlio smunto, indisciplinato, stravagante d’un povero capostazione del varesotto che tremava all’idea di immaginarlo a Milano, preda di una città per soli cummenda “

Tutto andò invece per il verso giusto, specie dopo l’incontro con la bellissima Franca (“mai creduto che mi desse retta”), che il teatro e lo spettacolo lo aveva nel sangue, e bene in testa, per tradizione familiare e personale intelligenza. Tra gli anni 50 e 60, nascono così i primi copioni del “teatro comico” e debitamente surreale (nel senso più stralunato, derisorio e meneghino ancora possibile), recitati tra mille peripezie logistiche ed economiche: “Gli Arcangeli non giocano a flipper”, “Chi ruba un piede è fortunato in amore”, “La signora è da buttare”, tutte visioni di un’Italietta svenevole e illusoria che già deragliava dai ‘fabulosi’ anni del boom ed affluiva, sera dopo sera, nella piccola berlina del Derby Club, ove già si esibivano Gaber, Jannacci, i Gufi, Franco Nebbia, Beppe Viola e persino Umberto Eco.


Seguì indubbiamente il sogno (con relativi ‘sghei’) della popolarità televisiva e l’intoppo di “Canzonissima” del ‘62 che costò a Dario e Franca la messa al bando per 14 anni dalla Rai democristiana. Ma già nel nel ’69 è tutto un deflagrare del “Mistero Buffo” (alla storica Casina Liberty) in cui l’autore recupera, come spiegavamo all’inizio, la lezione dei fabulatori, dei cantastorie, reinventando, tra sacro e profano, sberleffi e commozione, “le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci”. Cifra stilistica (riduttivo definirla anticlericale) che resterà immutata sino alle ultime performance dedicate a Giotto, San Francesco, Leonardo e altri ingegni perlustrati sino ai loro più intimi aneliti.


Con quella vis polemico- dissacrante che sta alla base di tutto un itinerario di sberleffo e denuncia civile, che ha inizio con “Morte accidentale di un anarchico” (sulla ‘misteriosa’ fine dell’anarchico Pinelli) e con “Il Fanfani rapito”, per poi proseguire con “Non si paga non si paga”, “Pum pum! Chi è? La polizia”, “Tutta casa, letto, chiesa”, “Clacson, trombette e pernacchi”. Per un susseguirsi di cachinni e satira al vetriolo (niente inibizioni, autocensure, servo encomio, “altrimenti è tutto uno sfottò vicendevole”) che troverà l’anziano maestro “disponibile a trasformare ogni imprevisto in una nuova farsa”. Come farà a tempo debito, e traendone immenso gusto, all’indirizzo del suo bersaglio preferito, il Cav. Berlusconi Silvio (oggi disarcionato?), prima ridotto a feroce nanerottolo in “Ubu Bas” (omaggio alla ‘patafisica’ e al celebre personaggio di Jarry), quindi trasformato in “Anomalo bicefalo” come una specie di Frankenstein con il corpo di Silvio e il cervello di Putin. Esemplari di un bestiario umano ancora contundente, di cui Fo sapeva metterci in guardia a suo modo: persuasivo e allarmato, sinchè una risata “non li seppellirà” (quando?)

Angelo Pizzuto


Un intenso rapporto con la Sicilia

"Palla al piede, non si può andare avanti e non ci può essere sviluppo. Le sembro troppo duro? E invece no, io mi arrabbiavo moltissimo quando sentivo questa scusa, eppure la storia mi ha dato torto: chi combatte la mafia sul serio è vessato, isolato e anche fatto fuori. Poi c' è la falsa antimafia, ma quella è un' altra storia».
Dario Fo a tutto campo, lo sberleffo in punto di labbra, un uomo che parlava con le mani, con gli occhi: restavi così a soppesare ogni parola, perché se te ne scappava una, poi la dovevi recuperare per serbarla. Dario Fo, novant' anni, se n' è andato ieri, a Milano, dopo una malattia che lo aveva stancato parecchio; poche ore prima che lo sedassero, aveva intonato una canzone napoletana: ecco Dario Fo è in questa voglia liberatoria di dare un calcio a tutto e fare a modo suo.
E così è apparso ogni volta, anche a Palermo.
Anche nell' ultima occasione, poche settimane fa, su quel palco del Foro Italico dove partecipò in videoconferenza al raduno del Movimento 5 Stelle.
Il suo innamoramento per i grillini non era piaciuto ai «compagni» come Vauro, ma Dario Fo non lasciava morti sul campo, e quel suo grido liberatorio del 2013 - «Mi sembra di essere tornato indietro di molti anni, alla fine della guerra, l' ultima guerra mondiale. Ci fu una festa come questa e c' era tanta gente come siete voi: felici, pieni di gioia e, non dico speranza, la speranza lasciamola a parte, ma di certezza che si sarebbe rovesciato tutto e non ci siamo riusciti. Fatelo voi per favore, fatelo voi! Ribaltate tutto per favore» - era rimbalzato fino a Palermo. Ma questa è un' altra storia, l' Italia nel frattempo piange l' uomo di teatro, il folletto dei calembour, il raccontatore di storielle morali che saltellano per un millennio e sorridono ancora. E l' uomo sociale attento ai cambiamenti.
«In Sicilia c' è il tormentone dell' equilibrio connivente, il compromesso con la mafia: perché vivere contro è pericoloso e vivere senza vuol dire essere fuori dal mercato», lo diceva in un' intervista dell' anno scorso, quando portò il suo «Mistero buffo» sul palcoscenico del Teatro Antico, a Taormina.
Il suo rapporto con Palermo è datato addirittura 1954: è al Teatro Biondo con «I sani da legare» con Giustino Durano e Franco Parenti. Ritornerà nel 1987 con la mostra «Il teatro dell' occhio». Ma è negli anni Settanta, che scoppia l' amore: a Termini Imerese e poi a Palermo, «Legami pure, tanto spacco tutto lo stesso» viene interrotto dall' arrivo della polizia.
Le serate si tramutavano velocemente in dibattiti accesi sulla repressione, ma Palermo in quegli anni seguiva la scia di quanto avveniva nel resto d' Italia.
A dicembre 1988 lo troviamo al Metropolitan, ma fu un caso visto che Dario Fo salì sul palcoscenico all' improvviso per sostituire la moglie, Franca Rame, ammalata: il pubblico andò in visibilio e l' attore parlò per due ore buone della crisi del teatro.
Nello stesso anno ritorna di nuovo al Biondo, con uno spettacolo e una mostra; sarà di nuovo ospite con «Il diavolo con le zinne» con Albertazzi, che ritornerà cinque anni dopo. Nel 1992 gli fu invece uesta vostra terra è disgraziata, l' handicap della mafia è una consegnato il Premio Pirandello per l' affabulazione del suo teatro.
«Il legame tra Fo e Pirandello, protagonisti di generi teatrali diversi, è segnato dalla singolare circostanza che lo stesso Fo nel 1992, cinque anni prima del Nobel, vinse la sezione internazionale dello storico premio dedicato al drammaturgo siciliano», ricorda Gianni Puglisi, presidente del Premio.
Il Nobel arriverà quindi nel 1997, insolita desi di Simonetta Trovato gnazione che fece gridare allo scandalo una buona metà degli intellettuali italiani (l' altra metà applaudiva...): poco tempo dopo Dario Fo arriva di nuovo a Palermo e porta al Teatro Biondo «Johan Padan a la descoverta de le Americhe». Ma è l' anno seguente che rinsalda il legame con la città: riceverà infatti dalle mani del sindaco Orlando la cittadinanza onoraria.
Oggi il primo cittadino lo saluta con un ricordo: «Perdiamo anche un grande amico, nostro e dell' intera comunità cittadina. Sedici anni fa a Dario ed alla moglie Franca Rame, fu conferita la cittadinanza onoraria di Palermo, come segno di riconoscimento a delle carriere ed un impegno civile che hanno segnato la storia e la cultura d' Italia e mondiale».
In pochi ricordano che proprio Franca Rame nel 1993 venne seriamente messa in difficoltà per «Settimo: ruba un po' meno n.2» in cui parlava di tabù e sesso, stupro e aborto.
In quel caso, fu la signora Fo a spiegare che «assessori e imprenditori ci hanno scippato il copione senza darci una lira».
E sono sempre Dario Fo e Franca Rame a riempire Villa Trabia in una delle prime edizioni di «Palermo di Scena«, guidata da Pino Caruso: era il 1996, uno dei primi rari esempi di teatro urbano, andava in scena la «Bibbia dei Villani».
Dario Fo e Franca Rame, indelebili, ritorneranno ancora, tante volte. Ma alla Sicilia inviarono anche le loro lettere, non ultime quelle in difesa del giudice Caselli prima, dei magistrati poi. Oggi manca la voce squillante e leggera di Fo che sa anche raccontar fole. E fiabe. E storie.
Come quella di Francesco, giovane scavezzacollo medievale che amava vivere rimbrottando i potenti, fustigando i signori, predicando la povertà. Francesco Santo e Francesco Papa, Dario Fo trovò talmente tanti punti d' incontro da mettere di lato - lui anticlericale convinto, ieri come oggi - i suoi sberleffi e provare ad abbracciare, seppur virtualmente, questo signore in bianco, che parla con gli occhi buoni.
«Lu Santo Jullàre Françesco» è stato il suo ultimo spettacolo in Sicilia, a Taormina appunto. «Mi chiedono di tutto, interventi morali, politici, civili, sono diventato buono per ogni commento - rideva l' attore - ma quando inizio a parlare, poi preferiscono che io stia zitto. Eppure questa data di Taormina la volevo fare, si trattava persino di un debutto anche se su questo palco io ho ritirato diversi premi, e venivo con Franca. Anzi, proprio qui montammo "Il diavolo con le zinne" con Albertazzi, lui recitava con Franca, io curavo regia e testo, poi debuttammo a Messina e venimmo a Palermo, al Biondo...».
Il suo ricordo investe anche il Teatro Antico di Taormina. «Questo teatro è fantastico, possiede una cosa impressionante che, solo se si è attori, si nota: una cassa acustica di proporzioni enormi, senti la voce come se avessi un apparecchio dentro il cervello. Le gradinate che salgono in progressione determinano l' eco: è come quando parli in riva al mare e la voce per 10 metri è uguale, precisa, non inquinata dai ritorni. SI tratta di una vera magia».(Giornale di Sicilia)

Simonetta Trovato




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