Pasolini, angelo nel buio

Cultura | 29 ottobre 2015
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Pier Paolo Pasolini è stato uomo del futuro, proteso a precorrere il suo tempo, per lasciarsi alle spalle, il buio straniante del mondo.

La bulimia con la quale ha affrontato i molteplici aspetti della realtà in trasformazione degli anni cinquanta e sessanta è ascrivibile alla sua straordinaria carica eversiva, al rigetto dei cambiamenti meccanici, in funzione di altri traguardi di giustizia umana, prima individuale, poi sociale, al desiderio estremo, visionario e utopico, in uno, di indicare direzioni alternative, modellate per liberare l'uomo dalle catene delle convenzioni, pesanti condizionamenti della libertà, della sensibilità e dell'intelligenza di ogni individuo.

Pasolini, intellettuale corsaro, pietra dello scandalo, è tutto dentro questa visione amplissima di dilatazione del tempo, in funzione mitica della ricerca di nuovi ancoraggi, rispetto alla società dei consumi, primo tra tutti il logoramento, da lui avvertito drammaticamente, della cultura del Paese.

Il tempo, appunto, è stata la categoria con la quale il friulano di Casarsa ha voluto confrontarsi nell'arco della sua vita, cosciente, come tutti i poeti, del traguardo proibitivo, cui gli scrittori di razza devono ineluttabilmente conseguire. La sua proteiforme attività di regista, giornalista, poeta, filologo, traduttore, scrittore è scandita da questa consapevolezza. I tempi, quelli da lui vissuti con candido furore, obbligavano l'esigenza di un approccio proteiforme, di cui si rese protagonista unico e inimitabile.

La filologia, cui dedicò con consapevole profondità, parte della sua giovinezza, traducendo dal greco l'Edipo re, preferito dall'Istituto del dramma antico di Siracusa a quello di Quintino Cataudella, all'epoca ordinario di letteratura greca all'Università di Catania, costituiva il primordio interpretativo dell'indagine analitica delle relazioni parentali, di cruciale importanza nella sua vita, sia per la morte del fratello Guido sia per il rapporto ancestrale, simbiotico con la madre, segnato da complessi di colpa irrisolti.

Pier Paolo traduceva all'impronta dal greco antico, e mentre tutti ammiravano la sua perizia epistemologica, lui s'arrovellava, indomito, a cercare nell'humus della tragedia greca le risposte ai misteri dell'esistenza. Aveva iniziato così a rivisitare Sofocle, Euripide, Eschilo, esplorando gli anfratti dell'animo umano, in epoche in cui emozioni, percezioni, sogni potevano avere, per la rarefazione imposta dal tempo trascorso, orme visibili, più e meglio di quelle prodotte dagli uomini della modernità. I confini, poi, furono allargati, e dotandosi dello strumento della macchina da presa, approdò alla letteratura del quattordicesimo secolo, Boccaccio e il suo Decameron, poi fu la volta del Mille e una notte, successivamente del marchese de Sade, ancora prima dei Racconti di Canterbury, insomma l'indagine non ebbe mai fine e l'introvabile pietra filosofale dell'alchimista 

Pasolini produsse capolavori, rischiarando angoli bui dell'uomo e della sua mente. 

Non a caso aveva scelto Marx e Freud, come consanguinei, fratelli del suo sentire l'umanità dolente, bisognosa di liberazione. Non era comunista, pur iscritto all'omonimo partito italiano, dal quale fu espulso, odiando la barbarie della dittatura, qualunque essa fosse, anche quella del proletariato. Spirito libero come tutti gli intellettuali di razza era esso stesso eretico, meglio cultore dell'eterodossia, assunta come strumento di comprensione dell'uomo e dei suoi bisogni spirituali.

Ecco, l'anima del mondo, i viandanti e il loro destino, era per Pasolini l'esigenza primaria rispetto, anche, allo stesso diritto naturale, in ogni caso fruibile attraverso la solidarietà di gruppo; si pensi a Ragazzi di vita, Una vita violenta.

A quaranta anni dal suo atroce e insondabile assassinio, ricostruibile soltanto attraverso un Teorema, l'intuito pasoliniano sul meccanismo del potere, descritto con meticolosa precisione, al punto tale da rimanere occulto, si comprende, con sgomento la contraddizione dell'uomo, di Pasolini, appartenere al pozzo cosmico dell'intera umanità, in cui il groviglio tra sensibilità e lato oscuro è lì, intonso, mortifero, a testimoniare la sfuggente ed erinnica natura delle cose.

La letteratura, l'arte di Pasolini, in sé, ha spaziato tra tempo, finzione, realtà, offrendo capolavori d'immortale bellezza. Chi non ricorda Uccellacci e uccellini con l'inimitabile Totò, oppure La ricotta, epilogo di un mondo straniato, dove emarginazione, povertà e fame sono il destino di viandanti del mondo, sconfitti dalla vita

Il genio e il talento, non certo l'arguzia, gli appartennero; Pasolini non poteva essere ironico, giacché doveva bastare da solo a se stesso, in una lotta impari, da lui identificata contro la società dei consumi, nei fatti profonda solitudine, elevata a sistema di vita. In lui, il mito dell'antica civiltà greca, impersonato dal contrasto tra mortalità e divinità, era presupposto di sintesi tra significante e significato, insomma la scissione tra conscio e inconscio, tra ragione e istinto, avrebbe trovato il suo equilibrio nella poesia, nella scrittura, nell'arte.

Soccorrono alcuni ricordi personali, avendolo conosciuto, agli inizi degli anni settanta, a Catania, durante le riprese sull'Etna del Decameron, sobrio e sommesso con le comparse come con Ninetto Davoli, Angela Luce, Franco Citti e gli altri attori, pur nella bolgia della produzione. La fotografia era la sua ossessione, la nitidezza delle immagini e l'inquadratura dei volti, possibilmente del più sconosciuto tra i figuranti, veniva perseguita con tenacia, solerzia, professionalità, acquisita dal più grande tra i maestri, quel Federico Fellini, che lo aveva introdotto nel mondo della regia cinematografica dalla porta principale.

Lo rividi a Roma, durante il primo dei miei trasferimenti di lavoro nella capitale, pochi mesi prima del suo assassinio, parlammo di Pavese del Mestiere di vivere, della raccolta di poesie dello scrittore di Santo Stefano Belbo, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; paragonava le Langhe al Friuli, là, dove stavano le sue radici, era stanco, tale, almeno, appariva; curioso, come sempre, chiese quale fosse l'opera di Pavese a me più cara, alla risposta, Dialoghi con Leucò, scoppiò a ridere, recitando a memoria uno dei racconti della raccolta, titolo, La madre, "?.. tragedia di uomini schiacciati dal loro destino.", negli appunti di Pavese; Meleagro, il protagonista, sarà ucciso ancora giovane.

Appresi della sua morte, qualche mese dopo, dalla voce del telegiornale. Con lui, ricordo ancora la sensazione di vuoto, era morta la speranza, seppure illusoria della fantasia al potere, l'utopia di un mondo migliore aveva il volto tumefatto e gli abiti lacerati, gli occhi stanchi del cantore dei diseredati, riverso sull'arenile di Ostia.

 di Angelo Mattone

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