Parte da Milano il necessario viaggio nel Memoriale della Shoah
Appena si entra, ben visibile, ad accogliere i visitatori c’è un muro di colore nero. E’ il muro dell’indifferenza – tra l’altro la stessa parola “indifferenza” è incisa sulla parete di questa struttura - quella stessa indifferenza che si è resa complice del regime nazi-fascista nella scellerata deportazione e nel criminale sterminio di milioni di ebrei.
Quel muro non simboleggia solo l’indifferenza, ma anche la separazione tra chi sta da un lato e chi sta dall’altro, tra chi ha voluto far finta di non vedere e tra chi è stato vittima di quella barbarie umana. Il colore nero, inoltre, non può far altro che evocare la cupezza delle atrocità di quella terribile pagina di storia. Quel muro, tanto fisico quanto simbolico, è al Memoriale della Shoah di Milano, che sorge in un’area della Stazione Centrale sottostante a quella che ospita i binari ferroviari ordinari. Quello spazio era adibito al carico e scarico dei vagoni postali. Tra il 1943 e il 1945, però, da lì migliaia di ebrei furono trasportati nei campi di concentramento e di sterminio.
Una volta giunti, camminando, dall’altra parte del muro, si
giunge alla “Sala delle testimonianze” e poi subito allo spazio
di manovra dei vagoni, chiamato “Binario della Destinazione
ignota”. Gli ebrei, infatti, furono caricati su vagoni merci, che
venivano sollevati tramite un elevatore fino al sovrastante piano dei
binai. Le carrozze erano così agganciati a convogli diretti ad
Auschwitz-Birkenau e ad altri campi di sterminio e di concentramento,
così come anche ai campi italiani di raccolta come quelli di Fossoli
e Bolzano. Dal binario 21 di questa stessa stazione partì, il 30
gennaio 1944, Liliana Segre. Aveva solo 13 anni. E con lei, in quel
treno che portava alla morte, c’era anche il padre, morto ad
Auschwitz. Quel posto, da cui ebbe inizio a Milano l’orrore della
Shoah, oggi è un luogo della memoria, in cui non solo si rende
omaggio alle vittime dell’olocausto, ma al contempo si rivive,
anche grazie al racconto delle guide, quell’immane tragedia. Si fa,
appunto, memoria. Quella memoria che dovrebbe arginare il rischio che
il passato possa ripetersi.
Una volta attraversati due dei
quattro vagoni originali, di fronte è ben visibile il “Muro dei
nomi”, dove scorrono i nomi di tutti coloro che da quel luogo sono
partiti alla volta dei campi di sterminio e non vi hanno fatto più
ritorno. E sulla banchina che separa il binario che ospita i
convogli dall’altro, vuoto, sottostante il “Muro dei nomi”, vi
sono le targhe in cemento, con caratteri in bronzo, in cui sono
incisi tutti i convogli di deportati partiti da questo luogo per i
campi nazifascisti di sterminio, di concentramento e di transito. A
fine percorso, ci si ferma a riflettere nel “Luogo di Riflessione”.
Un luogo volutamente buoi, per rielaborare interiormente, ed
eventualmente con gli altri, cosa è stato l’olocausto, e rendersi
“testimoni” di quella esperienza da trasmettere fuori da quel
luogo. Una testimonianza che oggi, più che mai, visti i recenti
fatti di cronaca di odio e intolleranza, deve essere quanto più
condivisa.
Il sito è stato mantenuto, per quanto possibile,
nel suo aspetto originario, rendendo così questo spazio un reperto.
Ed è così che il cemento armato non è stato coperto né da
colorazioni né da interventi di revisione estetica , mostrando i
segni del tempo sulle superfici. Il Memoriale della Shoah, promosso
da una serie di sigle tra le quali l’Associazione Figli della
Shoah e la Comunità Ebraica di Milano, è il solo tra tutti i luoghi
di deportazione in Europa ad essere rimasto intatto.
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