“Orson Welles Roast”, il teatro fisiognomico di Giuseppe Battiston

Cultura | 4 novembre 2019
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Come crediamo di avere già scritto (e adesso ribadire), Giuseppe Battiston, da attore e da teatrante di perseveranza e ingegno, abita le zone più inusitate -e apicali- del nostro teatro e del nostro cinema, spesso “disputando” contro il peso di gravità la sua personale, bizzarra apoteosi della squisitezza – e leggerezza- dell’essere,  ben oltre e ben prima della (sua) massa corporea.

Avviandosi, ora, a replicare il successo della scorsa stagione con il pregnante monologo ispirato ai “pensieri” post bellici di  Winston Churchill, l’interprete friulano inaugura la fitta stagione dell’Ambra Jovinelli con un altro personaggio, e  fenomenologia umana, estremi e “razionalmente caotici” in cui potersi (fisiognomicamente) mimetizzare, per poi sceverare ed auto esaltarsi senza nulla concedere al compiacimento. Unendo cioè al virtuosismo (istrionico) di “essere” Orson Welles quello di sapersene distaccare, per “osservarlo” e se serve biasimarlo, quando l’evolversi della confessione in pubblico lascia riaffiorare amarezze, rimpianti, ciclici fallimenti. Affrontati tuttavia con dignità, ironia e conflittuali sentimenti di riluttanza e autostima.

Puntualizza il programma di sala:  come sarebbe, oggi, un breve incontro con Orson Welles, se potesse, solo per un’ora, tornare a stare tra noi?  Ci svelerebbe qualche segreto della sua genialità (“inspiegabile” per definizione) o passerebbe tutto il tempo a raccontare aneddoti esilaranti?

Scaglierebbe, indignato, invettive contro i nemici di allora e gli orrendi tempi moderni o ne sorriderebbe sornione?” . Godibile e sintetico  per la sua dichiarata essenzialità di svelarsi quale prova d’attore esplicita e carnale,  “Orson Welles Roast” (titolo preso in prestito da una celebre serie di “faccia a faccia” televisivi, anni settanta, curata da Dean Martin) è, a suo modo, un “entracte” senza rete e senza filtri, immune dalla (diffusa)  pretesa di scavalcare i canoni  di una performance ad alta gradazione di artigianato interpretativo (a  tratti affannato e col cuore in gola, nella sua  umana schiettezza).  Qui incrementata, grazie a Battiston, dal un  tangibile e irresistibile  valore didascalico\divulgativo (non celebrativo, men che mai commemorativo) indirizzato  alle generazioni che del vulcanico “artefice” statunitense conoscono a stento il nome.

Di fatto, l’attore entra in scena  indossando (svogliatamente) un accappatoio bianco,  inebriandosi    un sigaro cubano perennemente in bocca ed  “esprimendosi in buon italiano dall’accento americano” (non per vezzo ma per naturalismo scenico). Di seguito,  l’  epopea esistenziale di Welles diventa  un fiume (in piena) di ricordi, rincrescimenti, ‘incidenti o accidenti’  di  vita che si mescolano alle riflessioni sul modo come cucinare bene, quindi  soddisfare i sempre coltivati piaceri della gola e del buon bere (i quali e ovviamente si fanno “gusto, sapore, cultura”).

Impreziosendosi di una ambientazione che è una meta-teatrale via di mezzo fra un palco teatrale e l’angolo di un set cinematografico in disuso.  Tutto polarizzato dal comportamento di Welles/Battiston che ama rivolgersi  direttamente al pubblico, ammiccando all’emapia, all’umana complicità o apostrofare, e a  più riprese,  il datore luci per accendere o spegnere faretti e ‘cannoncini’.   Molto sapido: non fa una  grinza.

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Orson Welles Roast

scritto da Giuseppe Battiston, Michele De Vita Conti. Musica originale di Riccardo Sala

Regia Michele De Vita Conti. Sala Umberto di Roma dal 30 ottobre al 10 novembre (poi, in tournée)


 di Angelo Pizzuto

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