Mattarella: con Dalla Chiesa salto di qualità contro la mafia

Società | 3 settembre 2021
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 Carlo Alberto Dalla Chiesa contribuì in modo decisivo a imprimere un salto di qualità alle strategie di lotta alla mafia. Quell’eredità mantiene una sua carica attuale, che viene ricordata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a 39 anni dall’eccidio di via Isidoro Carini a Palermo. Con il generale morirono la moglie Emanuela Setti Carraro e il suo collaboratore, l’agente di polizia Domenico Russo. 

La loro barbara uccisione rappresentò, secondo Mattarella, “uno dei momenti più gravi dell’attacco della criminalità organizzata alle Istituzioni e agli uomini che le impersonavano, ma, allo stesso tempo, finì per accentuare ancor di più un solco incolmabile fra la città ferita e quella mafia che continuava a volerne determinare i destini con l’intimidazione e la morte». A quella «odiosa sfida» il Paese seppe reagire «facendosi forte della stessa determinata e lucida energia di cui Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva già dato esempio, durante il suo brillante percorso nell’Arma dei carabinieri, nell’impegno contro organizzazioni criminali e terroristiche». 


Lo Stato così rispose con «nuove norme e poteri di coordinamento più incisivi» mentre nella società civile è cresciuto un sentimento di «cittadinanza attiva, portatore di una cultura dei diritti contrapposta alle logiche dell’appartenenza e del privilegio».

Ecco perché quella strage del 3 settembre 1982 ha ora un valore simbolico. Lo ricordano, tra gli altri, la presidente del Senato Elisabetta Casellati, il presidente della Camera Roberto Fico, il presidente della Regione Nello Musumeci. Il sindaco Leoluca Orlando (“Il suo sacrificio non è stato vano”) ha conferito all’Arma dei carabinieri la cittadinanza onoraria di Palermo, nel ricordo di un impegno che ha lasciato molti segni.


Per l’anniversario dell’eccidio c’è ora a Palermo un clima molto diverso da quello cupo in cui 39 anni fa la città era precipitata. Una mano anonima aveva scritto sul luogo dell’agguato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». E il cardinale Pappalardo aveva puntato il dito contro il potere politico con una denuncia molto forte: «Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata». Sagunto, cioè Palermo, ha reagito. Gli investigatori hanno ricostruito gli scenari del delitto nei quali c’è spazio anche per la mancata attribuzione dei poteri di coordinamento che Dalla Chiesa reclamava. Le indagini hanno però raggiunto solo una verità parziale con la condanna all’ergastolo degli uomini della cupola - tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò - e degli esecutori materiali Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. Ai pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci la pena minore: 14 anni.

Rispetto ai suoi propositi di spezzare l’intreccio tra la mafia, la politica e il sistema degli appalti (“Non guarderò in faccia nessuno» aveva detto al presidente del Consiglio, Giulio Andreotti), Dalla Chiesa dovette fare i conti con ostilità politiche e ambientali. Sulla sua fine restano «ampie zone d’ombra». Così si legge nella sentenza sulla strage nella quale viene attestata «la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A farlo fuori quindi non fu solo la mafia. Cosa nostra sarebbe stata la mano armata di un disegno che mirava a fermare quel «salto di qualità» richiamato da Mattarella. 



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