Massimo Ranieri e il Riccardo III, dal dire al fare...
Ogni storia, alla fin fine è una storia di sopravvivenza. Anche Riccardo III vuole riscattare il suo ego, sopravvivere mediante ambizione smodata al disamore per se stesso e le proprie fattezze. (L. Amidei)
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Considerati
i tempi ‘delittuosi’ che si consumano a
Roma e in Italia (per l’egemonia della sovranità criminale), e rapportando il
tutto (per una volta) alla fantasmagoria tolkeniana del “Signore degli anelli”
(citato nell’inchiesta in corso, convenzionalmente ed esplicitamente, con il
titolo ‘terre di mezzo’), il “Riccardo III” che Massimo Ranieri interpreta e
dirige al Teatro Brancaccio (dopo il debutto estivo a Ostia Antica), pur narrando la più esemplare ed insana brama
di potere ascrivibile al repertorio shakespeariano (prototipo di ogni nefandezza),
non palpita nè si solleva dal profondo degli inferi in cui, eticamente, merita
di ancorarsi. Non elevandosi quindi verso le ‘alte sfere’ cui la sua
ambientazione regale dovrebbe assegnarlo; né in quella superficie ‘mediana’ cui
ambiscono incontrarsi, da sempre, i pittoreschi, esiziali protagonisti del
perenne ‘romanzo criminale’ che ci avviluppa ed affoga. E che “Riccardo III”, a
suo modo, insudicia e nobilita.
A distanza
ravvicinata, la tessitura narrativa dello spettacolo ha l’impeto, il turgore
che impone e tramanda la drammaturgia del Bardo, incentrandosi (in buona
sostanza) sull’umana sventura di Riccardo da Gloucester, deforme di corpo e
feroce nell’animo, intento a progettare il regicidio del fratello Edoardo IV,
per una conquista della corona che- come è noto- diverrà la più oscura ordalia
di complotti, adulterio, omicidi e falsi processi. Pervenendo, in tal modo, alla
perenne ‘ipostasi’ che si abbina alla avidità di ‘assoluto’: secondo cui ogni
Scalata al Trono (in tutto il suo significato ampio, allegorico ed applicabile
ad ogni tempo) non è altro che premessa,
senza ritorno, della perdizione umana e della solitudine incolmabile d’ogni
‘apparente vincitore’. Per una supremazia da scontare, quasi dantescamente, con
la pena dell’isolamento e dell’ ‘amaro sapore del potere’. Riccardo infatti spodesterà il trono di
Britannia, ma cadrà sconfitto nella battaglia di Bosworth (proclamando la
celebre battuta, o litania, “il mio regno
per un cavallo”dopo quella
iniziale, altrettanto inflazionata concernente l’ “inverno” di chiunque è scontento).
Molto scuro,
ma privo di chiaroscuri (specie di sottigliezza psicologica), sopra le righe
(di una presunta rilettura ‘pop’), ma ingabbiato da spartiti (registri di
recitazione) del tutto monocordi, la
sortita registica di Ranieri, del tutto improvvida, ambisce ad una esplicita
‘citazione’ di atmosfere, atteggiamenti, ruinose cadute mutuate da una memoria
cinematografica celebrante il ‘noir’ americano anni trenta e quaranta, e con
esso quel cinema francese d’autore (‘realismo magico’ e ‘polar’) che ne sono
sorgente e complemento . Senza però che
lo spettacolo offra occasioni, angolazioni, preziosità di stile che possano
minimamente evocare paragoni non velleitari con “Scarface”, “Piccolo Cesare,
“La fiamma del peccato”; ovvero con l’impareggiabile tradizione dello ‘spleen’
transalpino che impone, giocoforza, improponibili confronti con la lezione di Renoir, Carné, Melville, Dassin (da “Porto
delle nebbie” a “Notte sulla città”)
Il ‘rififì’
del “Riccardo III” secondo Ranieri (modernizzato dalla ‘svelta’, sbrigativa
traduzione di D’Amico e dalla ‘nevrotica’, esclamativa resa del protagonista,
bello in viso e mimetizzato in minima cifosi alla spalla destra) si infrange invece nelle sabbie mobili del prolungamento
soporifero, preceduto dalla amputazione (inspiegabile) dell’opera originaria di
alcune scene basilari (un esempio: il sogno di Riccardo prima dello scontro con
Richmond, che ‘umanizzerebbe’ un po’ la sua scelleratezza di ‘escluso’) e snervandosi nel ripetuto gioco scenografico
d’un torrione tozzo e sinistro, che si
apre e si chiude in continuazione- intorno al quale ruota una sorta di
porticato circolare. Al cui interno- perigeo di luce smagliante rispetto al
nero tenebra che lo avvolge- va di moda un’ eccentrica recitazione in bianco e
nero ed ‘abito da sera’ .“ Affinchè il male assoluto prenda corpo” (sarà…) e la prevalenza di statuine, di involontarie macchiette appesantiscano la
messinscena per un tempo interminabile e fuori ordinanza.
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“Riccardo III” di
Shakespeare. Traduzione di Masolino D’Amico. Regia di Massimo Ranieri, scene di Lorenzo Cutuli, costumi di Nanà Cecchi,
musiche di Ennio Morricone le musiche. Con Massimo Ranieri, Paolo Lorimer, Carla
Cassola, Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati, Federica Vincenti.
Roma, Teatro Brancaccio (in tournée sino a febbraio 2015)
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