Maledetto e profetico Pasolini a cento anni dalla nascita
Finalmente una commemorazione, a cento anni dalla
nascita, sulla grandezza del pensiero pasoliniano dopo quelle dei decenni passati
della morte, avvenuta per mano di Pino Pelosi, un bulletto di borgata,
all’idroscalo di Ostia (resta questa la versione ufficiale) la notte del 2 novembre
1975. Una morte diventata oggetto di bailamme e grancassa mediatica, non solo per
sfruculiare sadicamente ancora su uno dei tanti segreti di Stato – che tale
probabilmente continuerà a restare – ma altresì per rilanciare quell’ignobile
vituperio ideologico che da anni prova ad innescare la presunta contesa
sull’appartenenza politica dello scrittore, poeta, drammaturgo e regista, da
parte di coloro che furono in prima fila in quella “strategia del linciaggio”
iniziata quand’egli ancora in vita e intellettuale solitario, aveva già dato
alle stampe la sua “poetica” dell’annientamento della diversità del
sottoproletariato a favore di una omologazione voluta dal potere, mentre
contestualmente elaborava la disperata coscienza della inconsistenza sociale del
letterato-umanista, da cui appunto partire per costruire diverse forme di
comunicazione.
E’ noto, infatti, come ormai il citazionismo pasoliniano
sia divenuto quasi uno sport nazionale che dagli “Scritti corsari” e
“luterani”, apparsi come è noto sul Corriere della Sera allora diretto da Piero
Ottone, giunge fino alla scandalosa poesia “Il PCI e i giovani” ed altri
scritti ormai appannaggio di quella stessa stampa e parte politica che coniò
perfino l’aggettivo “pasolinoide” per coacervare significati quali “un cantore del sordido” , un “pornografo”,
un “vate delle marrane”, un “apologeta dei magnaccia e delle peripatetiche”.
Molte, in tutti questi anni, le tesi apparse sulla morte, perfino quella
attribuita ad una fantomatica banda di “siciliani e calabresi”, mentre in
realtà nulla è stato aggiunto (salve ipotesi su ipotesi, avanzate anche dai
film di Giordana e Grimaldi) al giudizio di primo grado emesso da Alfredo Carlo
Moro, Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, il 21 maggio 1976, che ha
condannato Pelosi come il solo autore dell’omicidio.
Per questi motivi ho scelto di ricordare Pasolini nel
modo spero più antiretorico, con un modesto lavoro sulla sua opera
cinematografica ed uno particolare di ritaglio “Una canzone popolare nel cinema
di Pasolini”, il più maledetto e profetico intellettuale italiano.
La
carriera cinematografica: da Accattone a Uccellacci e Uccellini
Quando esordisce nel 1961, come regista
cinematografico Pier Paolo Pasolini, ha già pubblicato alcuni dei suoi più noti
romanzi ed ha già acquisito una certa notorietà come poeta. Nato a Bologna nel
1922, fin dai primi anni di vita percorre in lungo e in largo la penisola a
seguito del padre ufficiale e della madre, una maestra friulana. L’iscrizione
al PCI nel dopoguerra si conclude con i fulmini dell’anatema che lo colpiscono
perché omosessuale. Espulso dal partito perde anche il lavoro d’insegnante a
Casarza e si trasferisce a Roma, dove continua la sua attività di scrittore ed
inizia a scrivere prima sceneggiature di scarso impegno e quindi a collaborare
con registi del calibro di Bolognini, Lizzani e Vancini.
Abbandonato il romanzo (ma non la poesia) nel 1961,
privo di particolari conoscenze tecniche (ma dirà lui stesso “cambiando lingua”,
utilizzando cioè “un sistema di segni che rappresenta la realtà non attraverso
i simboli – le parole – ma attraverso la realtà stessa” ) gira il suo primo
film, Accattone, ispirato ai personaggi
di “Ragazzi di vita” e dei suoi primi romanzi, annunciando la disperata e
poetica visione d’una umanità reitta e violenta, percorsa da magnaccia e
prostitute senza riscatto e redenzione, ma esprimendo nel contempo il suo amore
per i “semplici” (categoria gramsciana) contrapposti alla “cultura piccolo-borghese
portatrice di corruzione”. Il film lancia come attore “feticcio” Franco Citti e
iscrive subito il suo nome tra gli esponenti di punta d’una sorta di nouvelle vague, di rinascita del cinema
italiano, quasi una seconda ondata neorealista nella quale s’intruppano i migliori
nomi della regia cinematografica nazionale. L’anno successivo torna nelle
stesse squallide borgate romane per narrare il doloroso e fallimentare
tentativo di una prostituta di “salvare” il figlio da un destino cruento, girando
Mamma Roma (1962) protagonista una
dolente Anna Magnani e in cui “ricrea” (rivisitando ancora come in Accattone la sua cultura figurativa e le
lezioni di Roberto Longhi) il “Cristo morto” del Mantegna poco prima del
tragico finale. Subito dopo firma l’episodio La ricotta (1963), dal film Ro.Go.Pa.G.
Laviamoci il cervello (acronimo di
Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti) storia d’un affamato generico che
ingozzatosi di ricotta, muore realmente sulla croce come Cristo. Un
insofferente e loquace Orson Welles appare nei panni del regista alter ego. Famose
e straordinarie le scene a colori del tableau
vivant, rappresentazione della “Deposizione” ispirata a Rosso Fiorentino e
Pontormo, ancora un omaggio alla pittura presente in tutta la sua opera cinematografica.
Nello stesso anno sperimenta il montaggio di repertorio con La rabbia (1963), film-flop firmato con
Giovanni Guareschi che lavora sulla seconda parte quella di “destra”, mentre la
prima rappresenta l’interpretazione ideologica “di sinistra”. Sopralluoghi in Palestina (sempre del 1963)
sono appunti visivi per progetti irrealizzati.
Rinunciando ad
ogni retorica iconografia classica, lui laico dedica “alla cara, lieta,
familiare, memoria di papa Giovanni XXIII”, nel 1964 Il vangelo secondo Matteo, pervaso ancora una volta da chiari
riferimenti alla pittura quattrocentesca. In scena una figura di Cristo dalla dirompente
carica quasi libertaria contro il potere costituito; uno scandaloso Cristo con
cui il poeta-scrittore-regista s’identifica e nel quale appare una nutrita
pattuglia di scrittori amici e la stessa madre di Pasolini nei panni di Maria
anziana. Negli angoscianti deserti lavici dell’Etna ambienta le scene della
tentazione. Premiato a Venezia, disprezzato dalla destra. Con Comizi d’amore (1965) passa all’inchiesta
e raccoglie una prima radiografia d’una Italia inedita in rapida trasformazione,
prima conferma di quella teoria dello “sviluppo senza progresso” e della
“omologazione culturale” che costituisce una delle riflessioni più inquietanti sull’inizio
dell’era consumistica e sulla “mutazione” antropologica dell’Italia in fase di
passaggio dal paleocapitalismo al neocapitalismo.
Uccellacci e
uccellini (1966) “fiaba
illuministica”, apologo, sull’ormai irreversibile crisi della sinistra (i funerali
di Togliatti ne rappresentano appunto la “fine”), film dallo stesso Pasolini
definito come “racconto in prosa con punte poetiche, cosa che è tipica delle
favole”, è già una profetica incursione nel mondo dei nostri anni e sfrutta un
inedito, stralunato, Totò (premiato a Cannes) e un’altra delle sue scoperte
sottoproletarie Ninetto Davoli, alla fine assassini del noioso e petulante corvo
parlante con cui s’accompagnano, simbolo di certa intellettualità marxista (e
di se stesso) che narra loro la storia di due fraticelli francescani predicatori
di pace.
Dalla
fine degli anni ’60 alla “trilogia della vita” e l’ultimo Salò
Abbandonata ogni speranza nella palingenesi e nella
rivoluzione, alla ricerca di “verità parziali”, dà vita al lirismo surreale
dell’episodio La terra vista dalla luna del
film Le streghe (1967), diviso in
cinque capitoli tutti interpretati da Silvana Mangano e inizia con Edipo re (1967) una specie di percorso
atemporale (con un prologo negli anni venti e una conclusione nella Bologna
degli anni ’60), tragedia metastorica e universale eppure chiaramente autobiografica,
in cui ricostruisce in Marocco una favolosa Grecia e affida al genio inventivo
di Danilo Donati l’elaborazione di sbalorditivi costumi d’epoca. Ritaglia per
se stesso la parte del gran sacerdote e chiama nel cast Franco Citti, Silvana Mangano,
Alida Valli, Carmelo Bene, Ninetto Davoli e Francesco Leonetti. Con Teorema (1968, che apre con il deserto
lavico dell’Etna accompagnato da una citazione del libro dell’Esodo) radicalizza
l’avversione verso una borghesia alla quale non resta che autodistruggersi (la
sequenza in cui Massimo Girotti corre nudo sulla nera sabbia vulcanica) e
accentua il proprio rifiuto d’un presente inaccettabile e irrazionale,
attribuendo all’eros una forza dirompente e salvifica, mentre nel successivo,
estremo e provocatorio, Porcile (1969)
– come a suggello di tutta un’opera
attraversata da insanabili ossimori – sarà l’establischment a divorare i propri
figli ribelli; l’Etna e il Castello di Aci tornano nella prima parte, finché il
cannibale che ha ucciso il padre non viene condannato ad essere sbranato da
bestie feroci. Il successivo Medea (1970),
affidato ad un personaggio carismatico e affascinante come Maria Callas,
“racconto filosofico e intrigo d’amore” (parole di Pasolini), sancisce ormai la
definitiva scomparsa della civiltà agricola e la perdita d’ogni sacralità, una
deriva dalla quale è impossibile salvarsi.
Sempre più attratto dai paesi del Terzo Mondo e da
quelli ancora non corrotti dalla cultura borghese e dal neocapitalismo, alla
fine degli anni ’60 gira Appunti di
viaggio per un film in India (1968) e altri Appunti per un’Orestiade africana, entrambi mai girati. Ormai non resta che la fuga verso un
passato incontaminato, in quella “amata” barbarie, tempo in cui era ancora
possibile vivere in accordo con la natura e i sensi. Nasce così la cosiddetta
“trilogia della vita” sapientemente ricavata da grandi classici del passato: Il Decameron (1971) da Boccaccio, I racconti di Canterbury (1972) da
Chaucer, capolavoro della letteratura medievale e Il fiore delle mille e una notte (1973) iniziati da Antoine
Galland, viaggiatore e orientalista francese, nati da una tradizione orale e
scritti tra il X e il XVII secolo. “Nei tre film, che sono un omaggio al
trionfo della natura e delle sue leggi, un inno di beatificazione e
glorificazione della carne, un itinerario di ascesi e di liberazione dai
condizionamenti religiosi attraverso il sesso – scrive Brunetta in ‘Cento anni
di cinema italiano’ – i personaggi si spingono al di fuori della loro dimensione
di inferno terreno per raggiungere gli spazi edenici della beatitudine sessuale
delle Mille e una notte”. Un inno alla vita è vero, ma dove tuttavia non è
possibile ignorare la presenza della morte non meno incombente e sinistra, con
tutti i suoi presagi linguisticamente disseminati nel corso della rappresentazione
e infine con la sua diretta “mostrazione”: nel Decameron con il racconto di Lisetta (che sotterra la testa
dell’amante ucciso dai fratelli); o nel Racconto
dell’indulginziere nel secondo film della trilogia I Racconti di Canterbury (Orso d’Oro a Berlino) dove tre giovani si
uccidono tra di loro per non spartire un piccolo tesoro. Sull’Etna l’ultima memorabile sequenza dei Racconti di Canterbury quella
dell’Inferno, percorsa da orribili mostri, diavoli e monaci dannati.
Quando Pasolini tornerà nel presente la farà per intonare un vero e proprio inno alla morte girando lo spaventoso Salò o Le 120 giornate di Sodoma (1975), ispirato a De Sade, che uscirà dopo la morte violenta del regista, una discesa agli inferi che avrebbe dovuto iniziare una “Trilogia della morte” in contrapposizione alla precedente. Una specie di sigillo testamentario della “maledizione” pasoliniana. Nell’ultima intervista rilasciata Pasolini aveva dichiarato: “Io sto per scendere all’inferno, ma presto l’inferno salirà da voi”.
Ultimi articoli
- Lotte e sconfitte
nelle campagne siciliane
al tempo di Ovazza / 1 - La legge bavaglio imbriglia l'informazione
- Perché l’Occidente si autorinnega
- Ovazza, storia di un tecnico
prestato alla politica - Si smantella l’antimafia
e si indebolisce lo Stato - C’era una volta l’alleanza progressista
- Vito Giacalone, un secolo
di lotte sociali e politiche - Violenza sulle donne, come fermare
l’ondata di sangue - Ovazza, l'ingegnere ebreo comunista
padre della riforma agraria - Uno studio sui movimenti
studenteschi e le università