Malandrini, spie e mafiosi tra i Borbone e i Savoia in Sicilia

Cultura | 3 dicembre 2016
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Pendagli da forca, spioni, briganti e assassini, questori al soldo, agenti provocatori, camorristi e mafiosi. Pur di conquistare o mantenere il potere, se ne sono serviti tutti. Borbone e liberali, garibaldini e mazziniani. Nel lungo e tormentato cammino che ha portato all’Unità d’Italia malandrini di ogni risma sono stati usati (e si sono fatti volentieri usare) per colpire con qualunque mezzo avversari politici, per tramare e uccidere. E, dopo il 1861, proseguirono gli altri. Destra e Sinistra, per ultimi ma non meno dei predecessori pure i Savoia. Un ricorso alla violenza sistematica e al coinvolgimento di forze criminali organizzate con un alibi sempre pronto: difendere l’ordine e la sicurezza pubblica. E anche la proprietà privata. In principio furono solo banditi e gaglioffi, dall’inizio dell’Ottocento sino alla fine di quegli Anni Sessanta. Poi vennero le mafie, che cominciarono a spadroneggiare.


 Una pratica mai abbandonata, quella di ricorrere alla brutalità e all’intimidazione per fare politica. È tutto ricostruito in Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento (Salerno) un saggio che, attraverso una robusta documentazione svela i piccoli e grandi misteri di quando l’Italia non si chiamava ancora Italia. L’ha scritto Enzo Ciconte, storico, studioso di mafie e autore di molti libri sulla materia, che inizia la sua esplorazione sulle «reciproche fascinazioni» fra due mondi solo apparentemente lontani con una domanda: «Come mai una parte più o meno ampia delle classi dirigenti liberali, prima e dopo l’Unità, ha continuato a blandire e ad avere rapporti con forze con le quali il governo borbonico aveva ampiamente trescato impiegandole proprio per ostacolare il movimento risorgimentale?». Quelli che erano considerati pericolosi nemici si trasformarono improvvisamente in alleati, diventarono preziosi per salvaguardare interessi. Feudi, baroni, guardianìe. Poi la svolta, un mercato della violenza governato da uomini che non la esercitavano più per conto terzi ma per conto proprio. Così si è imposta una classe dominante alla quale avevano delegato il potere dell’autorità pubblica, così sono nate la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Ciconte racconta l’«utilità della violenza». Gruppi armati che proteggevano masserie e grano e a loro volta venivano tutelati per i delitti che commettevano, una sorta di polizia ausiliaria, «un’aristocrazia delinquentesca». Il libro dedica le prime pagine alla rivolta contro i Borbone, poi passa allo sbarco dei Mille con i mafiosi che si «batterono prodemente» alle porte di Palermo insieme ai “picciotti” di Garibaldi.


Rivela macchinazioni con l’avallo di Francesco II, in campo c’è già la camorra e sullo sfondo un misterioso carico d’armi fatto arrivare da Cavour a Napoli per far insorgere la città prima dell’arrivo della camicie rosse. Intrighi di corte. Al tempo dei Savoia l’esercito è tutto schierato contro il brigantaggio, il nuovo Regno è sotto scacco per una spaventosa emergenza criminale, la Destra al Governo non capisce che il brigantaggio non è solo un tentativo di rimettere in piedi la dinastia dei Borbone ma c’è fame nera nella campagne. In quegli anni ci sono i primi scontri fra le forze di polizia e una magistratura garantista, arrivano le leggi eccezionali in tutto il Mezzogiorno. E ancora una volta entra in scena “la malandrineria”, lotta politica e repressione di mescolano. Palermo fa scuola. Con prefetti e questori — siamo nel 1875 — che assoldano la feccia per avere informazioni dai bassifondi, che ricalcano gli schemi operativi dei Borbone, che ripropongono una cogestione del territorio tra mafia e autorità statale. Il passaggio dalla Destra alla Sinistra non cambia le cose in fondo all’Italia, lentamente ma inesorabilmente il notabilato mafioso si assicura «una legittimazione nel ruolo di classe dirigente» e un grande futuro. La vicenda che chiude il cerchio è un omicidio, il primo delitto eccellente di Palermo. Nel febbraio del 1893 Emanuele Notarbartolo, ex direttore generale del Banco di Sicilia, «avveduto amministratore e inflessibile moralizzatore», viene ucciso. Sospettato come mandante, il deputato Raffaele Palizzolo. Che viene assolto. Da quel momento, mafia e politica non si lasciano più.(La Repubblica)
 di Attilio Bolzoni

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