Lo spreco del patrimonio edilizio nell'Isola

Economia | 26 settembre 2020
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Case che si chiudono perché abitate da anziani che da coppie che sono state per una vita diventano vedovi/e e poi si congedano anche loro dall’esistenza terrena. Case che si chiudono perché abitate da coppie ancora giovani o di mezza età andate via con i figli a cercare lavoro altrove. In Italia, in Europa, da qualche parte nel mondo. E’ tutto un pullulare di case disattivate, puntualmente “flagate” con un cartello “locasi” o “vendesi” che resterà inutilmente affisso per chissà quanti anni. Perché nessuno comprerà o affitterà quella casa.

Girare per le vie - specie quelle del centro storico e dei paesi più che delle principali città - dei trecentonovanta comuni siciliani è un tour tra un patrimonio edilizio enorme come numero di immobili ma senza più valore commerciale: deprezzato, sprecato, di problematica ridestinazione abitativa.

Le case degli anziani quasi sempre sono monofamiliari, su due o tre piani. Scale, molte scale. Talvolta abitazioni anguste e malandate, bisognose di essere ammodernate e di incisiva manutenzione. Altre volte alloggi ristrutturabili con pochi e mirati interventi. Perché sono ormai numerose anche le abitazioni seminuove, comode, con doppi servizi igienici, bagno, sistema di riscaldamento, talvolta rifinite in ogni dettaglio, spesso ampie. Ma puntualmente non molto appetite. Non c’è mercato. Non ci sono gli acquirenti se nuove famiglie se ne formano poche e buona parte di quelle che si formano prende il trolley e va via inseguendo un lavoro. Una casa si vende anche solo un paio di decine di migliaia di euro o addirittura meno. E’ costata il lavoro di una vita intera per costruirla o comprarla. Tassata a più non posso da mille balzelli, alla fine non vale niente. Non c’è mercato neppure per appartamenti di 100 - 150 metri quadrati con tanto di autorimessa a pianterreno, comodi, accessoriati, costruiti negli ultimi trenta - venti anni, quelle delle coppie più giovani stabilitesi altrove per lavoro. Mancano i soldi per comprarli o affittarli. E poi, chi dovrebbe affittarli o comprarli se la popolazione diminuisce a vista d’occhio?

Il fenomeno dello spreco del patrimonio edilizio - presente anche nelle città, sebbene in misura minore - è diventato drammatico nei paesi.

La pandemia in qualche modo ha prodotto un ritorno. Temporaneo e limitato. Con la micidiale crisi economica provocata dall’emergenza Covid-19, con le attività chiuse o sospese, con la disoccupazione conseguente, un certo numero di giovani e meno giovani è tornato al paesello in attesa del da farsi. Non c’è dubbio che la straordinaria attitudine alla mobilità geografica nell’era dei voli low cost ha ricevuto una brutta mazzata dal Covid. Ma, superata l’emergenza, quando – speriamo entro il prossimo anno – il vaccino comincerà a rendere il coronavirus solo un tragico incubo da raccontare, se continueranno a non esistere condizioni lavorative anche minime in loco, riprenderà in grande stile la fuga dalla Sicilia e dal Meridione. Più in generale dalle aree montane e interne di tutt’Italia. Allora il maxispreco di patrimonio edilizio – con case sprangate a doppia mandata perché le famiglie che le abitavano si sono estinte oppure sono andate via alla ricerca di prospettive lavorative – continuerà a segnare città e soprattutto paesi. E se non riprenderà vigore la tanto vituperata globalizzazione con la conseguente (ma non vituperata) mobilità geografica, neppure le formule riservate ad acquirenti dal NordItalia e dal NordEuropa della vendita simbolica a 1 euro o comunque a prezzi più che invitanti messa in atto da un numero crescente di amministrazioni comunali finirà per avere presa. Formula che era servita, specie nei borghi meglio conservati, ad assicurare almeno una percentuale di ristrutturazioni con l’acquisto e la riattivazione dell’immobile da parte del nuovo acquirente “continentale”, se non per l’intero anno quanto meno per qualche mese.

 di Pino Scorciapino

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