Le storie e i fatti che uniscono Pio La Torre e Aldo Moro

Cultura | 13 settembre 2016
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Uno dei dibattiti della festa nazionale dell'Unità conclusasi qualche giorno fa a Catania è stato dedicato a “Storie di cambiamento: Pio La Torre ed Aldo Moro”. A mia memoria è la prima volta che viene proposto un confronto tra i due personaggi, diversi per percorso formativo, idee politiche, esperienze di direzione e ruolo politico nazionale ed è significativo che avvenga all'insegna dei “ percorsi di cambiamento”.

 I due, infatti, non sono accomunati solo dalla tragica fine, ma si trovarono allo snodo di vicende fondamentali della storia repubblicana: il primo fu la più illustre tra le molte vittime della “guerra civile a bassa intensità” scatenata dalle Brigate Rosse; l'altro pagò con la vita (insieme a Rosario Di Salvo) la svolta che aveva impresso all'azione del PCI e della sinistra siciliana sul terreno della battaglia antimafia e della lotta per la pace. Se non si è trattato di una scelta casuale dovuta alla necessità di tenere insieme, per esigenze di programma, l'autore di un recente libro sul politico comunista siciliano e Gero Grassi (uno dei principali biografi dello statista pugliese) l'accostamento è interessante perché certamente Moro e La Torre rappresentarono storie di cambiamento, ma di un cambiamento fortemente radicato in culture politiche forti e proiettato nella prospettive dell'allargamento e del consolidamento di una democrazia che ampliasse le basi del consenso sociale alle masse popolari e consentisse una loro reale partecipazione al governo del paese.

Moro era democristiano, anzi uno dei maggiori teorici italiani della cultura politica del cattolicesimo democratico, La Torre era un comunista pienamente immerso nella storia, nella cultura politica e nella tradizione organizzativa del PCI. Non erano, insomma, eroi solitari, ma dirigenti che guidavano partiti politici con milioni di aderenti. PCI e DC furono i poli opposti dello scontro che segnò la ricostruzione della democrazia italiana dopo il fascismo e le distruzioni della guerra; e si trattò di uno scontro a tratti durissimo. Questa ricostruzione delle culture politiche che improntarono di sé gli anni '60 e '70 dello scorso secolo nel nostro paese appare tuttavia carente per l'assenza di un riferimento al mondo socialista, proprio in quegli anni attraversato da processi innovativi che ne avrebbero modificato in profondità la struttura di partito e le proposte politiche.

Ciò è probabilmente conseguenza della mancanza di una riflessione seria e non retorica sulle vicende del riformismo italiano negli ultimi quarantanni che sembra costituire la cifra culturale del PD. Una carenza che, tuttavia, non è addebitabile agli organizzatori del dibattito, quanto piuttosto alla “damnatio memoriae” cui l'intera sinistra italiana sembra essersi auto-condannata. Ma ciò travalica gli obiettivi limitati di questo scritto. Tornando al dibattito, in realtà, sarebbe stato più semplice collegare Moro e Piersanti Mattarella che dello statista pugliese era considerato l'erede naturale, e referente nazionale della sinistra democristiana sarebbe probabilmente diventato se non fosse stato assassinato la mattina dell'Epifania nel 1980.

All'allora presidente della Regione, infatti, il Giornale di Sicilia due giorni dopo il ritrovamento del corpo del presidente della DC aveva affidato il compito di tracciarne il profilo: “La sua prospettiva storica- scrisse il Moro siciliano”- in cui si collocava e inquadrava tutta la sua azione era quella di perseguire la realizzazione di una società più giusta, costruita cristianamente a misura d'uomo e che risultasse dalla più vasta partecipazione popolare alla responsabilità della cosa pubblica, dalla valorizzazione e dall'acquisizione di tutte le sue componenti...per dare alla base democratica dello stato ...più consistenza, più ampiezza, più solidità, per farne lo Stato di tutti” (cit. da Pierluigi Basile, “Le carte in regola”). Nella bibliografia di Pio La Torre recentemente pubblicata da Francesco Tornatore (“Ecco perché” pag 387, 0=1178), si cita un riferimento che il dirigente comunista, in un articolo pubblicato su Rinascita, fa al sequestro ed all'assassinio di Moro collegandoli alla situazione generale del paese, anche a quella economica contrassegnata dall'impossibilita per “uno Stato a pezzi di programmare”.

Dovettero sicuramente esserci contatti e scambi di vedute tra Mattarella e La Torre nella fase in cui il primo, presidente della Regione siciliana, recideva i fili che avevano legato una parte della Democrazia Cristiana al sistema di potere politico-mafioso che gravava sulla Sicilia e ne condizionava lo sviluppo economico e sociale e il dirigente comunista, in quel momento ancora impegnato al centro nazionale, andava maturando la scelta di rientrare in Sicilia per riassumere la carica di segretario regionale del partito, come avvenne il 29 settembre 1981. Come giustamente osserva Tornatore, La Torre non si disgiunse mai dalla Sicilia e partecipò, anche negli anni romani, a tutti i momenti di elaborazione politica del partito comunista siciliano ed aveva piena cognizione del messaggio connesso alla morte di Mattarella.

Tanto che, appena rientrato nell'isola, attaccò con toni sferzanti la procura di Palermo che intendeva restringere le indagini sull'asse della mancata assegnazione al costruttore mafioso Spatola delle sei scuole palermitane. Spatola, tra l'altro, era colui che nel 1975 aveva coperto il falso rapimento di Michele Sindona in Sicilia e la vicenda del banchiere siculo-milanese rappresentava per il dirigente comunista una delle chiavi di volta per comprendere i processi di trasformazione in corso nell'organizzazione mafiosa. In ogni caso, il convegno di Catania coglie nel segno perché nelle vicende dello statista pugliese e del politico siciliano è davvero possibile individuare un filo comune: con l'assassinio di Moro si avvia il processo di dissoluzione della “prima Repubblica”, così come l'omicidio di La Torre e Rosario Di Salvo segna un punto di svolta nell'attacco della mafia di un punto di collegamento v'è tra le due vicende: come l'assassinio dello statista pugliese segna l'inizio della fine della “prima Repubblica”, così l'omicidio di La Torre e Rosario Di Salvo segna un violento salto di qualità nell'azione della mafia.

Inoltre, il terrorismo e la mafia, pur essendo fenomeni diversi, utilizzarono entrambi la violenza omicida per impedire l'apertura di scenari nuovi e più avanzati nella vita politica nazionale e regionale. Non a caso nel trentennale del 30 aprile 1982 (Mondani e Sorrentino, “Chi ha ucciso Pio La Torre), l'assassinio del dirigente politico siciliano venne esplicitamente accomunato non solo a quello del generale Della Chiesa (il cui anniversario è caduto il 3 settembre) ma anche agli omicidi di Aldo Moro e Piersanti Mattarella. La Torre aveva piena consapevolezza del rapporto tra terrorismo e mafia. In un noto articolo su Rinascita del 16 novembre 1979 (ricordato nel libro di Vito Lo Monaco e Vincenzo Basile “Pio La Torre”), “precisa e corregge lo slogan del “terrorismo mafioso” che nella vulgata corrente tende ad identificare due fenomeni tanto diversi.

 Il fatto è , scrive... che terrorismo e mafia si scambiano le tecniche...Si tratta in primo luogo di cogliere le specificità di ciascun dei due fenomeni...che perseguono obiettivi ben diversi...i terroristi puntano a colpire a morte lo stato democratico...la mafia invece tende ad un indebolimento dei pubblici poteri ed a un collegamento con essi per realizzare i propri fini di illecito arricchimento. Sta di fatto però che oggi si verifica una convergenza oggettiva nell'azione...Non c'è dubbio che a Palermo un gruppo politico- mafioso ha scelto di farsi avanti con i sistemi del terrorismo politico.” Certamente la forza del La Torre tornato a dirigere il partito siciliano derivava anche dal possedere la chiave interpretativa di tali fenomeni. Lo storico Salvatore Lupo, nel suo “Storia della mafia” nota che “scorrendo le interviste fatte dalla Commissione parlamentare alla metà degli anni Settanta tra gli operatori sul campo si comprende subito chi sono i morituri: i pochi che danno risposte impegnate ed intelligenti”.

La Torre era stato fino al 1967 segretario del Partito comunista siciliano e prima della Cgil regionale, aveva compiuto una lunga ed importante esperienza dal 1972 al 1976 nella Commissione parlamentare antimafia in cui fu relatore della famosa relazione di minoranza votata dal PCI e dal Psi in contrapposizione a quella di maggioranza presentata da Carraro. Quella stessa relazione di minoranza che qualche mese fa l'attuale Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi ha voluto approvare all'unanimità con un atto carico di contenuti simbolici. Era anche stato il promotore del disegno di legge sull'introduzione del reato di associazione mafiosa e sulla confisca dei patrimoni ai mafiosi. Tornato in Sicilia, La Torre si trovò subito di fronte la decisione del governo italiano di installare a Comiso i missili Cruise.

Sulla prima pagina dell'Unità nel ricordare che “il potere mafioso ha rialzato la testa e abbiamo assistito ad una sequenza drammatica di omicidi politici culminati nell'assassinio del presidente della Regione Piersanti Mattarella sottolineava che era impossibile “non vedere il pericolo che la trasformazione della Sicilia in una gigantesca base militare ….” spingerebbe alle estreme conseguenze i processi degenerativi già così allarmanti?” (Lo Monaco-Vasile). Nel lanciare l'iniziativa di massa che porterà alle grandi manifestazioni di Comiso ed alla raccolta di un milione di firme conclusa dopo la sua morte, egli individuò il nesso tra servitù militari imposte all'isola e ruolo della mafia, anche in seguito alle notizie che già circolavano di acquisizione di terreni attorno alla base da parte di esponenti mafiosi.

Il movimento siciliano per la pace ebbe carattere dirompente soprattutto per la capacità di creare vaste alleanze con il sindacato e con una parte significativa del mondo cattolico, a partire da esponenti della gerarchia ecclesiastica e dalla presenza di personalità politiche significative della DC come Angelo Capitummino. Come ricordano Sanfilippo-Caleca in “Perché è stato ucciso Pio La Torre” “il progetto politico di La Torre era- ormai conclusa la stagione delle intese autonomistiche- di sviluppare una lotta dall'opposizione rilanciando la bandiera dell'autonomia, costruendo larghi schieramenti unitari di forze laiche e cattoliche in modo da creare contraddizioni nel blocco sociale della Democrazia cristiana”.

Si è già detto che nel 1980 il dirigente comunista aveva presentato un disegno di legge contro la mafia che raccoglieva e sintetizzava l'elaborazione della Commissione antimafia. Qui è utile un accenno ai rapporti tra La Torre e Della Chiesa che erano stati intensi e di stima reciproca perché il generale era tra i pochi investigatori sensibili alla necessità di approfondire il rapporto tra la mafia e le spinte eversive terroristiche. Per questo La Torre il 3 marzo 1982 compì un gesto che ebbe probabilmente un ruolo nella decisione di accelerare la sua morte: insieme a Rita Bartoli Costa vedova del procuratore di Palermo ucciso nell'agosto 1980 e al dirigente del PCI Ugo Pecchioli incontrò l'allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e gli sollecitò il rapido invio a Palermo del generale-prefetto però arriverà solo dopo l'agguato del 30 aprile in via Turba.

Nel settembre 1982, subito dopo la strage di via Carini in cui morirono il generale-prefetto Carlo Alberto Della Chiesa, la moglie Emanuela Setti-Carraro e l'autista, quel disegno di legge diventerà la legge Rognoni-La Torre; la numero 646 del 1982 che consentirà alle forze dell'ordine ed alla magistratura le indagini sui patrimoni mafiosi e introdurrà nell'ordinamento giudiziario il famoso articolo 416 bis, strumento decisivo nella lotta contro la mafia. Come provvisoria conclusione di questa riflessione vorrei ricordare che in entrambi- Moro e La Torre- il segno del cambiamento fu rappresentato dalla consapevolezza che, senza il superamento della contrapposizione tra comunisti e democristiani che aveva segnato la vita del paese dopo la conclusione della Resistenza e il lavoro della Costituente, il rinnovamento della democrazia italiana (di cui Moro che fu uno dei più qualificati rappresentanti) e, per quanto riguarda La Torre (e, mi permetterei di aggiungere, Mattarella) la realizzazione di un ampio schieramento sociale e politico che liberasse la Sicilia dalla mafia e le garantisse un avvenire di pace e di sviluppo, sarebbero state destinate a diventare più deboli e meno capaci di dare risposte agli immensi ed impellenti problemi che il paese aveva di fronte e che- purtroppo-restano ancor oggi in gran parte da risolvere.

 La morte violenta impedì ad entrambi di raggiungere gli scopi che si erano prefissi, ma la loro lezione resta ancora del tutto valida per una politica che oggi appare assai indebolita e nel complesso lontana dai problemi della gente.



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