Le scarpe dell'antimafia sui beni confiscati ai boss

Società | 18 settembre 2021
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“ Avemu a livari i picciuli e mafiusi “ (Dobbiamo levare i soldi ai mafiosi). Con questa frase nel suo slang di palermitano verace Pio La Torre – Dirigente politico e Parlamentare del Partito Comunista assassinato dalla mafia insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo – sintetizzava per i suoi Compagni di Partito una strategia politica di grande complessità sul piano giuridico e procedurale senza la quale però la Lotta alla mafia era destinata ad un’inevitabile, drammatico e perdurante insuccesso.

Tale strategia culminò nella Legge N. 646 del 13 settembre 1982 - emblematicamente approvata solo dopo l’uccisione di La Torre, estensore e firmatario della Legge insieme al Ministro competente del tempo (Legge Rognoni-La Torre) - che prevedeva la fondamentale previsione del reato di associazione di tipo mafioso (art. 416/bis) che di fatto innovò e razionalizzò in termini di efficacia tutto un complesso legislativo precedente, assolutamente inadeguato per contrastare il fenomeno mafioso.

Da questa profonda innovazione legislativa derivò – tra tanto altro – la previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali, vero e sostanziale obiettivo delle cosche mafiose che a questa fondamentale ragione di arricchimento dal malaffare subordinavano – e subordinano ancora - tutte le loro strategie territoriali e relazionali e perfino l’uso della violenza.

Successivamente e grazie all’apporto di vari soggetti impegnati nel contrasto alle mafie – e in particolare all’Associazione Libera – si fece largo l’idea e la pratica di un uso sociale dei beni confiscati che venivano affidati a Cooperative e vari Soggetti per operare una virtuosa trasformazione di beni che da proventi e volani di violenza e malaffare potevano divenire occasioni di lavoro per giovani, possibilità di proseguire in modo legale attività imprenditoriali con il conseguente salvataggio di posti di lavoro e realizzazione della funzione sociale del bene confiscato per allargare il tessuto associativo di tipo etico e affrontare problemi sociali drammatici come l’emergenza abitativa nelle città.

Non occorre scomodare analisi sociologiche particolarmente sofisticate per comprendere che il settore dei beni confiscati è estremamente complesso e delicato sul piano della conduzione economica e delle dinamiche territoriali, anche in ragione di tentativi di intimidazione – più o meno subdoli – da parte di una mafia che conferma ai giorni nostri - anche dopo una stagione di oggettivo impegno repressivo delle Istituzioni - una straordinaria capacità adattiva e di rigenerazione.

Il quadro è reso ancora più complesso da fatti – accertati giudiziariamente e in via di ulteriore accertamento – di inaccettabili attività di malversazione e corruzione - anche da parte di rappresentanti delle Istituzioni che – al di là dei pur gravissimi fatti specifici – hanno minato la credibilità di tanti Soggetti – in particolare giovani – che ogni giorno affrontano con coraggio e abnegazione enormi difficoltà di tutti i tipi per condurre beni che se abbandonati all’incuria e al mancato utilizzo – come purtroppo avviene in tantissimi casi – diventerebbero di fatto una sorta di devastante “monumento” allo strapotere mafioso e ad una sorta di invincibilità delle cosche che non è né vera né accettabile.

Ma cosa succede in questo nostro strano Paese, tradizionalmente caratterizzato da smemoratezza e mancanza di determinazione – più o meno interessata – ad affrontare i veri nodi dei problemi che sono ineludibili se si vuole perseguire lo sviluppo di una reale integrazione sociale in termini di sostanziale libertà e democrazia?

Si tergiversa, si prendono le distanze e si ignorano grossi problemi a partire dalla inadeguatezza dell’azione delle Istituzioni competenti a favorire l’assegnazione dei beni, creando a contorno un sistema di opportunità e di garanzie che – di fatto – non abbandoni a se stessi i Soggetti che scelgono di fare questa impegnativa scommessa.

Così i Soggetti sociali sani che operano generosamente in questo ambito così complesso spesso vanno allo sbaraglio, specialmente quando c’è da condurre imprese in una Terra dove è difficilissimo fare impresa in condizioni normali, figurarsi su beni confiscati sui quali non hanno titolo di proprietà, con i conseguenti problemi di credito e in generale di possibilità razionale di investimenti.

Ma se quello dei beni confiscati è un campo dove si misura la credibilità di un movimento contro degenerazioni di tutti i tipi, allora tutti i Soggetti in campo, mentre sviluppano la loro capacità di denuncia del tanto che non va sul piano istituzionale, devono prendere coscienza di eventuali propri limiti sul piano gestionale per realizzare una sostenibilità economica e una compatibilità della loro azione ai principi ispiratori l’intero movimento dell’utilizzo sociale dei beni confiscati.

Quindi, nessuno può permettersi di dormire sugli allori o enfatizzare eccessivamente qualche buon risultato che pure non va ignorato, ma valorizzato a beneficio dello sviluppo del bene interessato, come anche dell’intero Sistema.

E tuttavia togliere ogni alibi da tutte le parti non significa ignorare il livello e la portata delle responsabilità in capo ai vari soggetti.

In tal senso va detto che in Sicilia da stime attendibili - ma non ancora supportate da un censimento definitivo e razionalizzato che si attende invano da tempo - i beni confiscati sono circa 20.000 e quelli utilizzati sono certamente una minoranza che probabilmente non arriverà nemmeno al 10%.

Non parliamo dei beni mobili e strumentali che spesso giacciono abbandonati in depositi di fortuna verso un’inevitabile distruzione non essendo nota una procedura evidente per le richieste di questi beni da parte di Soggetti titolati - per esempio assegnatari di beni immobili - che verrebbero valorizzati dall’assegnazione di beni mobili compatibili con la specificità del bene originario.

Ma c’è un altro tema che – forse – richiederebbe una maggiore trasparenza per un migliore utilizzo ed è quello che riguarda i capitali mafiosi acquisiti definitivamente al Patrimonio dello Stato, nel calderone indefinito del Fondo Unico di Giustizia.

E’ comprensibile che una parte di questi proventi dati da confisca di capitali venga utilizzato per finalità che sommariamente definiremo di tipo generale, ma forse sarebbe anche il caso di ragionare su quanto questo fondo assolve al principio di utilità sociale che innerva la Legge Rognoni-La Torre e – con ancora più diretta specificità - la Legge 109 del ’96.

Un’analisi razionale della consistenza di questi Fondi e della loro destinazione eticamente prioritaria potrebbero consentire di approntare una corretta e utile soluzione dei problemi di manutenzione e messa in esercizio dei beni, al momento destinati al degrado, nonostante gli sforzi generosi di alcuni Soggetti assegnatari e di qualche Fondazione particolarmente sensibile su questi temi.

Insomma, è tempo per tutti – Istituzioni, Mondo della Cooperazione e dell’Associazionismo – di fuggire ogni sintomo di stanchezza e di delusione – ancorché giustificata – per reagire soprattutto sul campo delle idee da condividere per farle assurgere a progetti comuni che segnino il passaggio dal bene confiscato alla rete dei beni confiscati che collegati con il Territorio – anche con altri Soggetti di una Imprenditoria sana ed eticamente responsabile – formino un Sistema virtuoso che favorisca uno sviluppo di qualità.

Per questo, per suscitare ed alimentare questo movimento di idee “ i Siciliani giovani – la nuova Redazione del Giornale che fu di Pippo Fava - “ l’Arci Sicilia - con il sostegno di Banca Etica e di Geotrans – si sono messi e allacciati gli scarponi per andare per le strade della Sicilia ad incontrare tanta gente che – pur essendo animata da forte e concreto sentimento antimafioso – oggi vive una stagione di stanchezza e mancanza di punti di riferimento.

La prima tappa di questo viaggio tocca Palermo il 17/18/19 settembre con numerose occasioni d’incontro e riflessione tra Operatori sui Beni Confiscati, anche in relazione con altri Soggetti che perseguono uno sviluppo socio-economico caratterizzato da responsabilità etica e ambientale.

La presenza dei “ i Siciliani giovani “ non poteva prevedere un grosso impegno giornalistico fatto di interviste a Studiosi e Testimoni, reportage su alcuni Territori particolarmente significativi sul piano dello scontro tra mafia e antimafia e con direte radiofoniche serali.

Alla fine di questo percorso lungo strade – più o meno accidentate - della nostra Sicilia in diverse Province, sicuramente questi giovani di tutte le età in cammino avranno chiarito e sviluppato le loro idee sulle criticità e le potenzialità che offrono il loro Territorio, ma anche suscitato – da est a ovest, da nord a sud dell’Isola - un movimento di pensiero, si spera collegato in tanti fili per superare uno dei mali più devastanti delle nostre Società in tutti i campi, ossia la solitudine e l’individualismo senza speranza.

Quello che ci consegna il percorso delle “ Scarpe dell’antimafia ” è il senso di un percorso possibile e necessario per lottare la devastazione imposta dalla mafia.

Probabilmente oggi lottare significa camminare per incontrare e stabilire relazioni che tessano speranze anche in questo mondo delicato e complesso dell’uso e la gestione dei beni confiscati – per diverse ragioni – sempre più cupo e complicato.

Quindi, l’auspicio è che “le scarpe dell’antimafia” vengano calzate da tanti per continuare la strada per la liberazione dalla mafia per una Società più giusta e socialmente responsabile.

 di Giovanni Abbagnato

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