Le potenze che accelerano la marcia verso la Terza Guerra Mondiale

Società | 29 ottobre 2021
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Parte prima. Massimi sistemi: braccio di ferro e letali vettori nucleari

Negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una forsennata accelerazione nella marcia di avvicinamento alla Terza Guerra Mondiale. Sul piano degli assetti strategici, delle alleanze, degli schieramenti. Sul piano tecnologico, militare, dei sistemi d’arma convenzionali e nucleari. Sempre più “spaziali” (terra, mare, aria, spazio, cyber sono i cinque fronti delle guerre del presente e del futuro). Sempre più incontrollabili ed inintercettabili. La battistiana “sensazione di leggera follia” in questo ambito giorno dopo giorno si traduce in “sensazione di angosciosa follia”. Ci stiamo avventurando in un clima che ci fa ripiombare indietro fino a settanta anni fa, al generalizzato terrore della guerra atomica vissuta dal decennio ’50 al decennio ’90 del secolo scorso. Cambiano gli scenari ed i protagonisti della Nuova Guerra Fredda sempre più sul punto di diventare caldissima, una planetaria esplosione di fuoco. Non più contendenti Stati Uniti ed Unione Sovietica, protagonisti del cosiddetto “equilibrio del terrore” fondato sulla presunta deterrenza atomica. Ma soprattutto adesso Stati Uniti e Cina con in aggiunta il terzo incomodo Russia. Non vanno sottovalutate inoltre l’imprevedibilità e l’incontrollabilità in fatto di arsenali nucleari e missilistici della Corea del Nord.

Iniziamo questo focus partendo dalla notizia inquietante, recente del 17 ottobre: la Cina ha condotto un nuovo test spaziale con un missile ipersonico in orbita, secondo quanto riportato dal “Financial Times”. Citando fonti a conoscenza del test, il quotidiano britannico rende noto che Pechino avrebbe lanciato un missile nucleare ipersonico ad agosto. Secondo altre fonti del “Financial Times” il missile ipersonico, che può raggiungere cinque volte la velocità del suono (circa 6.000 chilometri orari), è stato trasportato da un razzo “Lunga Marcia”, i cui lanci sono generalmente pubblicizzati. Mentre il test di agosto è rimasto segreto.

Dunque il missile ipersonico è stato testato ad agosto ma è stato mantenuto il massimo riserbo. In buona sostanza si tratta di un salto di qualità tecnologica decisivo: molto più difficile da intercettare rispetto ai vettori finora schierati, la nuova arma ha messo in crisi i servizi segreti americani. Presi in contropiede in quanto convinti che la Cina fosse più in ritardo nella realizzazione di questa sorta di “Armageddon”. E invece la Cina, ormai gomito a gomito con gli Usa nello sviluppo tecnologico militare - se non in qualche settore già in fase di veloce sorpasso in qualcuno dei cinque scenari di conflitto sopra citati (terrestre, aereo, marino, spaziale, cyber) – ha sperimentato il suo missile ipersonico. Sale a 100 chilometri di altezza e poi da lì indirizza il suo potenziale esplosivo atomico in qualsiasi angolo del globo alla inimmaginabile velocità ipersonica. Teniamo presente che normalmente i missili a lunga gittata sono armati con più testate atomiche. Non c’è verso di intercettare né il vettore né l’arma. E a quanto si apprende anche in termini di precisione la rispondenza è stata soddisfacente visto che dopo la circumnavigazione del globo il bersaglio non è stato centrato per la bazzecola di appena 30 chilometri. In realtà, stando a queste distanze ed a questi numeri, l’angoscioso esperimento è stato un pieno successo. E un micidiale avvertimento al nemico americano. Al portavoce del Pentagono non è rimasto che dichiarare: “La Cina è la nostra sfida numero uno”. Sai che novità.


La Cina è ancora una potenza nucleare “moderata”?

Appena due settimane prima, l’1 ottobre, Carlo Trezza, analista dell’Istituto Affari Internazionali, su “AffarInternazionali.it” dedicava al tema un approfondimento dal titolo assai eloquente: “La Cina è ancora una potenza nucleare moderata?”.

Osserva Trezza: “La crescita della Cina come potenza economica e politica globale e la moltiplicazione dei suoi interessi rendono inevitabile un rafforzamento della sua potenza militare che si va estrinsecando in terra, aria, mare ed ora anche nello spazio extra atmosferico ed in quello cibernetico. È da evitare che ciò avvenga anche nel settore delle armi nucleari.

Per quanto il termine “potenza nucleare moderata” sia un ossimoro, poiché non vi è nulla di “moderato” nel dotarsi dell’arma nucleare, l’espressione appariva sinora appropriata nel caso della Cina se si mette a confronto la sua politica nucleare con quella delle altre maggiori potenze.

Sin dal primo test atomico nel 1964, Pechino dichiarò che non avrebbe impiegato per prima l’arma atomica (No First Use) né a minacciarne l’uso. Successivamente Pechino si impegnò, senza porre condizioni, a non impiegarla contro gli Stati che non la posseggono. Anche altri Stati nucleari lo hanno fatto sottoponendo però tale impegno a condizioni che ne indeboliscono la credibilità. Delle rimanenti potenze nucleari, solo l’India ha adottato sinora la dottrina del non primo uso nonostante il fatto che il suo rivale, il Pakistan, non escluda affatto il primo impiego.

La relativa moderazione cinese viene corroborata sul piano quantitativo dal numero di testate, presumibilmente circa 300, che è più di dieci volte inferiore a quelle possedute dalle “superpotenze” nucleari Usa e Russia e si colloca, almeno per ora, al livello degli arsenali delle potenze nucleari minori come la Francia il Regno Unito, l’India e il Pakistan. Essa ha resistito alle maldestre insistenze di Trump di associarla al negoziato Usa-Russia sulle riduzioni strategiche che pure avrebbe potuto permettere ai cinesi di pareggiare il proprio arsenale strategico con quello molto superiore dei russi e americani. Pechino sostiene inoltre di mantenere proprie testate nucleari separate dai loro vettori il che rende più credibile la sua posizione sul non primo uso e detiene ancora lanciatori con carburante liquido poco adatti ad un lancio immediato”.

Questo approccio “moderato” al nucleare perde parte della sua credibilità se si considera la sua natura prevalentemente unilaterale, il fatto che non è legalmente vincolante e che è reversibile e non sottoposto a verifiche. Non vi è impegno che impedisca a Pechino di ammodernare il proprio arsenale e di incrementarlo. Assieme agli Stati Uniti, la Cina è uno dei pochi paesi a non aver ancora aderito al Trattato Ctbt che proibisce gli esperimenti nucleare, uno dei pilastri della pace e della sicurezza internazionale”.

Prosegue l’analista: “La Cina non è mai stata vincolata da accordi come il defunto Trattato Inf affondato da Trump, che proibiva i missili nucleari a raggio intermedio agli Usa e alla Russia. Risale a poche settimane fa la notizia, rilevata attraverso immagini satellitari commerciali, che Pechino starebbe costruendo 120 silos missilistici nella provincia di Gansu. Immagini successive rivelano un secondo campo di silos simili nello Xinjiang orientale che potrebbe includere circa altri 110 silos.

La costruzione di centinaia di queste costose installazioni nucleari potrebbe essere l’indicazione dell’intenzione di incrementare il proprio arsenale missilistico e possibilmente di dispiegare un numero ancora superiore di testate poiché i moderni missili cinesi sono a testata multipla. Nulla esclude però che si tratti invece di un modo per sfuggire ad un eventuale attacco disperdendo tra i numerosi nuovi silos il relativamente ridotto numero di missili e testate che Pechino attualmente possiede.

Questa scoperta non risulta esser stata confermata o smentita da parte di un Paese che mantiene sulle questioni militari una tradizionale opacità”.

Sul tema l’analista auspica un ruolo meno marginale dell’Europa. Infatti – nota Trezza – “l’Unione europea non può ignorare la nuova realtà militare cinese. Indipendente dal se la Cina venga definita “partner strategico” o un “rivale sistemico” è necessario che le questioni nucleari vengano poste sull’agenda del dialogo strategico che da decenni è stato stabilito tra la Cina e l’Ue, ma che sinora si è principalmente occupato di questioni economiche e industriali.

Poiché a tali vertici è stato associato l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, attualmente lo spagnolo Josep Borrell, è necessario che vi si affrontino anche i temi della sicurezza militare. Benché non vi sia un consenso totale in seno all’Ue sui temi nucleari, sussistono questioni su cui vi è in Europa ampia convergenza. Tutti i Paesi europei, come anche la Cina, sostengono pienamente il Trattato sulla Non proliferazione nucleare che celebrerà il prossimo gennaio la sua decima Conferenza di riesame.

La Cina e l’Ue partecipano ai negoziati per salvare l’intesa Jcpoa sul nucleare iraniano che sono presieduti da Borrell e sulla quale le posizioni tra Bruxelles e Pechino sono convergenti. Tutti gli Stati membri hanno ratificato la proibizione dei test nucleari ed hanno titolo per chiedere che Pechino faccia altrettanto senza aspettare che lo faccia prima Washington. Tutti i Paesi europei sostengono l’interruzione della produzione di materiale fossile a scopi bellici e possono legittimamente chiedere a Pechino di aderire alla moratoria sulla produzione già mantenuta da Stati Uniti, Regno Unito Francia e Russia. Non è necessario appartenere all’area Asia-Pacifico per incoraggiare Pechino ad una maggiore trasparenza nel campo degli armamenti.

La Strategia europea contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa fu lanciata, sotto presidenza italiana, nel 2003 e cioè quasi 20 anni fa, quando la Cina non veniva ancora vista come un pericolo, e quando alcune minacce, come quella cibernetica, ancora non esistevano. E’ tempo che essa venga aggiornata.

Ma soprattutto è indispensabile che l’Europa si adoperi affinché Pechino non faccia passi indietro, come purtroppo hanno fatto altri Paesi nucleari, rispetto a posizioni più avanzate già assunte nel campo del controllo degli armamenti ed in particolare quella sul Non Primo Uso dell’arma atomica. La stabilità strategica va mantenuta attraverso una riduzione degli armamenti, non attraverso una nuova e costosa corsa al riarmo”.

Per la verità crediamo assai poco a questa capacità di convincimento da parte dell’Unione Europea. E crediamo poco ad un rallentamento della corsa agli armamenti da parte della Cina, sempre più leader nel campo della innovazione tecnologica anche in questo settore. Sta recuperando alla grande il ritardo tecnologico in campo militare che aveva rispetto agli Usa. Anzi in determinati sistemi d’arma o vettori il sorpasso pare sia già avvenuto. Pechino ad esempio sul piano numerico ha più navi da guerra di Washington. Sebbene sia ancora ben salda (15 a 4, tra quelle in servizio o in fase di costruzione) la supremazia americana in fatto di portaerei d’attacco.

Ma dall’Asia arrivano altre inquietanti notizie di marca coreana: anche il regime militardittatoriale della Corea del Nord il 29 settembre scorso fa sapere di aver testato con successo un missile ipersonico planante che vola cinque volte la velocità del suono e rende impossibile la sua intercettazione. Secondo le fonti di Pyongyang il lancio del missile “Hwasong-8” ha dimostrato che tutte le specifiche tecniche soddisfacevano i requisiti di progettazione. Non mancando di sottolineare nell’enfatica liturgia propagandistica propria di quel regime il grande significato strategico del lancio che consente alla Corea del Nord di “aumentare le sue capacità di difesa per mille volte”.

Il continente asiatico anno dopo anno diventa l’area più importante economicamente del mondo. E al contempo la più critica. Un poco invidiabile primato lo conquista anche sul piano strategico e militare.


Biden all’Assemblea Generale dell’Onu e i sommergibili nucleari all’Australia

Pensare che, parlando per la prima volta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 settembre, il presidente americano Joe Biden aveva volutamente prospettato un quadro non a tinte fosche, quale in effetti è: “Per la prima volta negli ultimi vent’anni, gli Stati uniti non sono in guerra. E’ finito il tempo delle guerre senza fine, è venuto il momento di puntare sulla diplomazia. Sia chiaro: noi competeremo vigorosamente sui mercati, difenderemo i nostri interessi vitali e i nostri valori fondamentali. Ma useremo la forza militare solo come ultima spiaggia”.

Commenta Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera” del 22 settembre in un articolo intitolato “Biden all’Onu: Decennio decisivo, non vogliamo la Guerra fredda” ”: “Il primo messaggio, dunque, è per la Cina, il nuovo grande avversario, mai evocato esplicitamente: “Non stiamo cercando, lo ripeto, non stiamo cercando una nuova Guerra fredda”. E qui si apre una fessura logica e politica nel ragionamento statunitense. Da una parte Biden insiste: “Siamo pronti a collaborare con tutti per affrontare i problemi globali, anche con quei Paesi con cui siamo in forte disaccordo”. Dall’altra parte, però, il numero uno della Casa Bianca traccia linee precise sulla mappa geopolitica: “Dobbiamo puntare gli occhi sulla regione indo-pacifica, sull’Asia, per ampliare la diffusione dei nostri valori, per sviluppare i commerci, garantire la libertà di navigazione”. Tutte cose che tradotte significano: un cordone di sicurezza per contenere l’espansionismo economico e militare della Cina. Del resto il discorso all’Onu sembra quasi una parentesi formale nell’intenso lavorio per costruire quella che Pechino ha definito “la Nato del Pacifico”, un’operazione ostile guidata dagli americani con la collaborazione di Giappone, Australia, India ed ora anche Regno Unito. Però è oggettivamente complicato chiedere a Pechino di collaborare, mentre si mette in piedi una gabbia per imbrigliarne la spinta. Ma è così”.

In queste “grandi manovre” che riguardano i “massimi sistemi” sembra proprio che non ci sia spazio per l’Unione Europea. Infatti così conclude Sarcina: “Nel pomeriggio Biden ha visto il premier australiano Scott Morrison (già in grande sintonia con Donald Trump); poi il britannico Boris Johnson alla Casa Bianca. Infine venerdì 24 faccia a faccia con il leader indiano Nerendra Modi e con quello giapponese Yoshihide Suga, a margine del vertice Quad, il formato che dal 2007 raggruppa appunto Stati Uniti, Giappone, India e Australia.

E l’Europa? Biden ha concesso solo un rapido cenno al fondamentale “legame con gli europei, anche della Nato”. Tutto qui: il presidente americano chiede ai vecchi alleati di condividere il peso della lotta mondiale al coronavirus ed ai cambiamenti climatici, ma sembra proprio escluderli dalla gande partita nell’Indo-Pacifico”.

Pochi giorni prima, il il 16 settembre, aveva scatenato un putiferio di polemiche e reazioni la notizia della fornitura da parte degli Stati Uniti all’Australia di sommergibili a propulsione nucleare. Anzi, della fornitura della tecnologia necessaria per poterli assemblare nei cantieri navali di Adelaide. Otto in tutto da realizzare nei prossimi anni, poi si vedrà. Grande arrabbiatura delle Francia che un contratto con l’Australia di 56 miliardi di euro per la vendita in più anni di 12 moderni sommergibili convenzionali l’aveva già firmato. Ora di fatto annullato. Carta straccia. La nuova alleanza militare così suggellata dai tre paesi di matrice anglosassone (Usa, Regno Unito e Australia) mira a costituire una cintura navale attorno alle ambizioni imperiali cinesi nel continente asiatico. I sommergibili a propulsione nucleare di cui si doterà l’Australia, prima o poi armabili con missili nucleari e siluri ad elevatissimo impatto esplosivo, possono restare in immersione, appostati, per settimane o mesi a ridosso delle coste cinesi e non sarebbero facilmente intercettabili dalla marina e dall’aeronautica di Pechino. La Repubblica Popolare Cinese ha reagito con particolare veemenza nella guerra delle conferenze stampa e dei comunicati alla nascita di questo nuovo patto militare chiamato “Aukus”, acronimo che salda le iniziali dei tre paesi.

Ma non basta. Il 24 settembre, pochi giorni dopo le pseudotranquillizzanti dichiarazioni di Biden all’Assemblea Generale dell’Onu, il presidente, come abbiamo visto, ha riunito alla Casa Bianca il cosiddetto vertice “Quad” ossia i leader di Australia, Giappone, India per discutere di un piano contro la debordante espansione di Pechino. Anche in questo caso tutto è finalizzato alla creazione di formati di alleanze per cinture di contenimento attorno alla Cina, ai territori e ai mari asiatici sui quali la potenza di Pechino si espande a macchia d’olio, non senza preoccupazione, oltre che dei paesi citati, anche della Corea del Sud e da parte di quelli dell’Indocina a cominciare dal Vietnam. “Fallirete” sbraitano con tutta l’indignazione possibile le fonti ufficiali cinesi.


Moriremo per Taiwan?

Pechino reagisce accentuando la pressione su quella che da sempre considera una provincia da riannettere al più presto alla madrepatria: l’isola di Taiwan, poco meno di una volta e mezza la Sicilia come estensione. Il partito comunista cinese si è dato una scadenza improrogabile, il 2049, centenario della vittoriosa rivoluzione di Mao, entro la quale – costi quel che costi – Taiwan, la vecchia Formosa come veniva da noi meglio conosciuta fino a non molti anni fa, dovrà tornare ad essere niente altro che una provincia insulare della Repubblica Popolare Cinese e non uno stato indipendente. Ma è ampiamente prevedibile che si muoverà - sempre costi quel che costi – ben prima. Intanto sono diventate routinarie le azioni di disturbo. A più riprese decine di caccia cinesi sorvolano la zona di difesa di Taiwan.

Scriveva il 2 ottobre il corrispondente da Pechino di “Repubblica” Gianluca Modolo in un articolo dal titolo “Caccia nucleari cinesi su Taiwan: è la replica ai patti dell’Indo-Pacifico”: “Il motivo [di questi sorvoli] ha un nome: anzi, due sigle. L'Aukus, il nuovo patto tra Usa, Regno Unito e Australia, e il Quad - l'alleanza tra Washington, Canberra, New Delhi e Tokyo - con un solo obiettivo: contenere l'avanzata di Pechino nell'Indo-Pacifico. La Cina, nel giorno della sua festa nazionale, fa capire allora che Taiwan è "roba sua": da riunificare a tutti i costi. Se necessario, anche con la forza. Rispondendo così, pure, a quei "disegni sinistri" della Gran Bretagna che qualche giorno fa ha mandato una nave da guerra nello Stretto.

Un messaggio politico rivolto tanto a Londra quanto a Washington, lo storico rivale e il principale sostenitore della democratica Taipei, che tradotto suona così: non immischiatevi nei nostri affari interni. Del resto, riprendere il controllo dell'isola è uno degli obiettivi che Xi Jinping si è dato in vista del 2049 quando il Paese festeggerà i 100 anni della Repubblica, per diventare "prospero e potente". "Atti di bullismo che danneggiano la pace", ha risposto ieri la primo ministro taiwanese, Su Tseng-chang, aggiungendo: "Il mondo e la comunità internazionale respingono con forza un simile comportamento".

Ragioni storiche, geostrategiche ed economiche sono alla base della retorica cinese dell'annessione. A Taiwan, due mesi dopo la vittoria dei comunisti nel '49, si rifugiarono i nazionalisti continuando a governare la Repubblica di Cina. E allora "risolvere la questione e realizzare la riunificazione è un impegno irremovibile del Partito", come ebbe a dire il 1° luglio Xi, in occasione del centenario del Pcc. "Nessuno può mettere in discussione l'integrità territoriale della Cina".

Tutti concetti ripresi pochi giorni dopo, l’8 ottobre, dall’imperatore cinese Xi Jinping in un durissimo discorso pronunciato nell’immensa “Grande Sala del Popolo” di Piazza Tienanmen a Pechino di fronte a migliaia di dignitari, dirigenti e quadri politici del partito comunista e dello stato. “La riunificazione con Taiwan sarà realizzata e chi si oppone non farà una bella fine” ha detto Xi. Toni talmente bellicosi che richiamano alla mente quelli usati in Europa dalla Germania negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale.

Una nuova fiammata nella guerra delle dichiarazioni ufficiali delle due superpotenze sul tema si è registrata il 22 ottobre. Gli Usa difenderanno Taiwan se sarà aggredita dalla Cina. Lo ha dichiarato il presidente americano Biden nel corso di un dibattito trasmesso dalla Cnn. “Abbiamo un impegno su questo” ha detto. “Gli Stati Uniti hanno preso un sacro impegno per quel che riguarda la difesa degli alleati della Nato in Canada e in Europa e vale lo stesso per il Giappone, per la Corea del Sud e per Taiwan” ha puntualizzato Biden ribadendo la posizione manifestata già ad agosto.

Replica cinese: nessun compromesso. Così il portavoce del Ministero degli Esteri Wang Wenbin che in merito a Taiwan chiede agli Usa di evitare segnali sbagliati agli indipendentisti dell’isola. E’ la risposta alle dichiarazioni del presidente degli Usa che ha parlato di aiuto a Taiwan in caso di attacco cinese. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la forte risolutezza, determinazione e capacità del popolo cinese di salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale. La Cina non ha margine per compromessi” ha sottolineato Wenbin.

Se non è rotta di collisione questa...

Lo scambio di avvertimenti e minacce avviene peraltro negli stessi giorni in cui in Alaska fallisce il lancio di prova del nuovo missile ipersonico da 10.000 chilometri orari americano che avrebbe dovuto ribadire la supremazia degli Usa anche in questo sempre più coltivato settore degli armamenti. Non cinque, come il missile cinese, ma otto volte la velocità del suono. Alla Cina, pochi giorni prima, era andata meglio.


L’assist di Mosca a Pechino

Non è mancato sul tema Taiwan un sontuoso quanto prevedibile assist di Mosca a Pechino. Il 12 ottobre la Russia ha annunciato ufficialmente la sua posizione. A favore di Pechino ovviamente. “La politica della Russia sulla situazione di Taiwan si basa sul presupposto che l'isola appartiene alla Cina”. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.

"Proprio come la stragrande maggioranza degli altri Paesi, la Russia vede Taiwan come parte della Repubblica Popolare Cinese. Questa è la premessa da cui procediamo e continueremo a procedere nella nostra politica", ha detto Lavrov ai giornalisti in risposta a una domanda di Interfax se la Russia vede l'attuale situazione intorno a Taiwan come una minaccia alla sicurezza regionale”. (“Repubblica”, 12 ottobre 2021).

A proposito di interferenze antieuropee ed antioccidentali di Mosca, è del 30 settembre la notizia che – a seguito del disimpegno del contingente militare francese nell’ex colonia subsahariana del Mali, paese poverissimo da anni in preda a sovvertimenti interni e colpi di stato – il governo maliano ha chiamato per sostituire i parà francesi che lo puntellavano i contractor (leggi: i mercenari) della società russa “Wagner”. Fondata dall’ex cuoco di Putin, la “Wagner” è la longa manus dell’espansionismo militare russo ed ha già operato in Siria ed in Libia. Insomma, per parafrasare il titolo di un film del 1974 di e con Alberto Sordi, per lo zar del Cremlino e per il sistema di potere di cui si è circondato “finchè c’è guerra c’è speranza”. In tutti i modi: dalla diplomazia alla geografia delle alleanze, alla vendita di armi, all’impiego diretto di mercenari russi. Per quanto accaduto a loro scapito in Mali, per dirla con le parole di una canzone di Paolo Conte, “ai francesi le palle ancora gli girano”. Dopo la perdita secca dei 56 miliardi di euro negli anni a venire nella sfumata commessa della fornitura dei dodici sottomarini all’Australia, questo nel Sahel è un altro scacco indigesto per Macron e per il prestigio dell’Eliseo a cui i nostri cugini d’oltralpe sono molto sensibili.


Perché Taiwan è così importante per Pechino. E per Washington

Concludiamo questo approfondimento con le autorevoli valutazioni di due noti analisti che lasciano poco spazio all’ottimismo, la prima di Dario Fabbri, la seconda di Stefano Silvestri. Scrive Fabbri sul numero 9/2021 di “Limes”, rivista di geopolitica, in un contributo dal titolo “Taiwan è il principale trofeo nella competizione tra Stati Uniti e Cina”:

Se tra i due sfidanti sarà guerra, si consumerà per l’isola bella. Portaerei naturale a soli 140 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare, consente a chi la possiede di dominare i mari cinesi, di accedere all’Oceano Pacifico. Protettorato statunitense, funge da coltello puntato contro l’impero del Centro.

Per Pechino la sua (ri)conquista è rottura dell’assedio americano, riscatto psicologico, passaggio verso l’egemonia. Per Washington è inderogabile linea rossa, primo elemento del soffocamento altrui, emblema della supremazia globale. Per Tokyo è extrema ratio che riporta nella storia, dentro il conflitto con il rivale cinese, là dove l’impero nipponico volle assimilare una nazione.

Nel corso dei decenni i taiwanesi di principale etnia han e molteplici influenze coloniali hanno sviluppato una cantata distanza culturale dalla madrepatria, reinventando dolosamente il colonialismo giapponese, rappresentandosi come Cina alternativa, depositaria di un destino proprio. Spettacolare mutamento che complica la riunificazione sognata dalla Repubblica Popolare”.

Osserva Fabbri che “oggi Pechino non dispone delle capacità militari per sbarcare a Taipei, né di una missione imperiale per persuadere i taiwanesi ad accettare l’annessione. Non riuscirebbe a domare il territorio neppure se vi approdasse. Eppure la dirigenza comunista ha trasformato il recupero di Formosa in fine irrinunciabile, da realizzarsi entro il 2049, se non addirittura prima del (possibile) pensionamento di Xi Jinping previsto per il 2032.

Mentre l’offensiva marittima perseguita da Washington potrebbe presto convincere Pechino della necessità di usare la forza per sottrarsi al soffocamento, per trascendere la prima barriera di isole. Cui si somma l’inaggirabile impulso di obliterare l’altra Cina, di assurgere a unica declinazione della propria civiltà. Quanto rischia di sconvolgere Formosa prima del previsto, perfino al di là dei programmi stilati dai soggetti coinvolti”.

Non meno a tinte fosche la lettura che fa il direttore Stefano Silvestri della incomunicabilità ormai ai limiti della irreversibilità tra Stati Uniti, Cina e Russia in un editoriale su “AffarInternazionali” del 23 ottobre scorso. Con un titolo che si commenta da solo: “Il dialogo tra sordi di Washington con Mosca e Pechino”:

Silvestri inizia con una citazione: “Joseph Nye sostiene che gli Stati Uniti corrono il rischio di andare come sonnambuli verso il precipizio di una guerra con la Cina. Le ragioni risiedono nel montante nazionalismo cinese, che si accompagna ad una politica estera sempre più aggressiva, ma anche nel sovranismo populista che dilaga negli Usa, e soprattutto nella sempre più incontenibile ambiguità che caratterizza lo status e la sicurezza di Taiwan. Il recente sorvolo dell’isola da parte di circa 150 aerei militari cinesi era un chiaro messaggio intimidatorio, che faceva seguito alle ripetute esternazioni di Xi Jinping circa la sua volontà di mettere fine allo status indipendente di Taiwan “entro il termine del suo governo”.

E l’altra sera, parlando in pubblico, il presidente Joe Biden, alla domanda se gli Usa difenderanno militarmente Taiwan in caso di attacco cinese, ha risposto per ben due volte di sì. Apparentemente Biden non intendeva modificare la posizione ufficiale americana (confermata durante la sua audizione al Senato anche dal neo-nominato ambasciatore a Pechino, Nicholas Burns) che riconosce allo stesso tempo l’esistenza di una sola Cina e il diritto di Taiwan a difendersi se venisse attaccata. Tuttavia una conferma così netta dell’impegno militare americano in difesa di Taiwan non c’era mai stata.

Pochi giorni prima, Putin aveva deciso di chiudere il dialogo con la Nato, ritirando da Bruxelles sia i diplomatici sia i militari accreditati presso l’Alleanza Atlantica. In pratica ciò pone termine all’era di quel Consiglio Nato-Russia, creato dopo la fine della Guerra Fredda, che avrebbe dovuto favorire un nuovo clima di cooperazione tra europei. Ma questo è solo l’ultimo passo di un lungo processo di errori ed incomprensioni che ha favorito il ritorno dello scontro ideologico, politico e militare.

Durante la Guerra Fredda la Nato aderiva alla politica codificato nel cosiddetto Rapporto Harmel, del 1967, che coniugava insieme la sicurezza (la dissuasione) e la distensione. Ad assicurare l’equilibrio era da un lato la minaccia (che doveva essere credibile, e quindi intrinsecamente pericolosa per tutti) e dall’altro lato il dialogo che assicurava il cosiddetto “controllo degli armamenti”, e cioè le regole che consentivano di evitare che la minaccia diventasse incontrollabile e venisse messa in atto.

Purtroppo, finita la Guerra Fredda, l’Occidente vincitore – lamenta Stefano Silvestri - non ha saputo amministrare con saggezza il suo successo. Il rapidissimo allargamento della Nato verso Est, assorbendo tutti i Paesi già membri del gruppo un tempo nemico (il Patto di Varsavia), salvo la Russia (ma incluse le tre repubbliche baltiche), spaventò Mosca, che si preoccupò ancora di più quando si cominciò a parlare di ingresso nella Nato di Ucraina e Georgia. Anche l’intervento occidentale contro la Serbia, benché giustificato da tutte altre ragioni, venne letto in Russia come un segnale molto negativo.

Il quadro è peggiorato quando gli americani hanno avviato un processo di abbandono di alcuni grandi accordi di controllo degli armamenti, iniziando da quello cruciale sui sistemi antimissile. Nel frattempo si affermava a Mosca il nuovo regime autoritario di Putin e la Russia sceglieva di tentare la riconquista del suo status di grande potenza puntando sul riarmo nucleare e sulla alleanza con la Cina. Tra le conseguenze di tutto questo arrivò la decisione del Cremlino di violare l’accordo Inf sugli euromissili per cercare di riconquistare, almeno in Europa, la forza di un tempo, nonché le pressioni e gli attacchi militari contro l’Ucraina e la Georgia, fino all’annessione della Crimea”.

La conclusione alla quale giunge il professore Silvestri è netta: “L’attuale fase è quella di un dialogo tra sordi, che si sta avvicinando pericolosamente all’abisso del non-dialogo, quando a parlare sono solo le affermazioni e le mosse unilaterali. Nessuno dei tre maggiori interlocutori sembra capace o interessato a mettersi nei panni dell’altro.

Tutto questo però è estremamente pericoloso. La dissuasione da sola non basta a garantire gli equilibri e quindi la pace (per fredda che sia). La minaccia ha una grande forza dissuasiva proprio perché è molto minacciosa. Ma essa non controlla l’evolvere delle crisi e le decisioni dei governi, che possono sempre sbagliare i loro calcoli o male interpretare le scelte dell’avversario. Il dialogo (o, se si vuole chiamarlo altrimenti, il controllo degli armamenti) è una componente essenziale degli equilibri perché accresce la loro stabilità.

Apparentemente ora, tra Nato e Russia, non c’è più dialogo. Continua il dialogo/confronto tra Washington e Mosca e tra Washington e Pechino, ma c’è il rischio concreto che possa improvvisamente irrigidirsi. Gli europei dovrebbero preoccuparsi di questa situazione, e non semplicemente farsi spingere da parte come spettatori. Non potremmo certo restar fuori da nuove crisi globali. È giunto il momento di assumersi maggiori responsabilità”.



Parte seconda. L’intelligenza artificiale sempre più protagonista nei conflitti

In tutto questo “ribollir di tini”, in tutto questo rombare di armi, in tanto sfoggio di dichiarazioni e controdichiarazioni, di mosse e contromosse, in tanto ricorso allo spazio ed alle velocità ipersoniche tipiche dello spazio per armi sempre più incontrollabili c’è un aspetto che merita un approfondimento. Non meno inquietante. Nei conflitti, nelle azioni mirate, nei bombardamenti (convenzionali) cosiddetti “chirurgici” contro forze nemiche e, non meno, contro formazioni terroristiche come ad esempio l’eliminazione fisica di capi di gruppi terroristici sempre più si fa ricorso ad armi “guidate” dall’intelligenza artificiale. Con quali implicazioni? Con quali prospettive? Con quali conseguenze e sviluppi negli anni e nei combattimenti del futuro anche immediato e non proiettato in un tempo lontano e fantascientifico?

Il tema è stato affrontato da un attento “specialista” di tecnologia e di futuro, Riccardo Luna. In un focus su “Repubblica” del 31 agosto scorso dal titolo “L’afghanistan e il primo conflitto condotto da una intelligenza artificiale”, il collaboratore del quotidiano romano ha analizzato situazioni e sviluppi applicativi, non mancando di guardare ai riflessi etici e morali, prime vittime delle guerre d’ogni tempo e, ancor più, di quelle che verranno.

“La scorsa estate, in agosto, alcune dozzine di droni militari e diversi piccoli robot-carrarmati hanno simulato un attacco di aria e terra ad una cinquantina di chilometri a sud di Seattle. – scrive Luna - L’obiettivo era colpire dei terroristi che si nascondevano in alcuni edifici. L’esercitazione, organizzata dalla Darpa, l’agenzia che si occupa dei progetti tecnologici di frontiera del Pentagono, serviva a testare la capacità dell’intelligenza artificiale di gestire situazioni complesse in zone di guerra “alla velocità della luce”. Di fatto, i droni e i robot, una volta individuato l’obiettivo, si facevano da soli un piano per colpirlo utilizzando algoritmi di intelligenza artificiale. L’episodio, riportato da Wired, mi è tornato in mente leggendo le notizie dell’azione militare americana contro presunti terroristi in Afghanistan tramite droni: è stata usata l’intelligenza artificiale? E fino a che punto? Chi ha premuto davvero il grilletto? Secondo Wired, al Pentagono da tempo ci sarebbe stato un ripensamento sull’esigenza di tenere “humans in the loop” quando si tratta di operazioni militari con armi autonome. Insomma, si può fare a meno degli umani?

Il dibattito va avanti da un po’, ufficialmente la regola dice che l’intelligenza artificiale deve “consentire agli operatori di poter esercitare un appropriato livello di giudizio umano sull’uso della forza”. Ma questo vuol dire che un essere umano deve approvare ogni singola volta in cui un drone preme il grilletto? Nel caso dell’esercitazione di Seattle, la Darpa concluse che in certi casi pretendere che ci siano degli umani a prendere ogni singola decisione avrebbe portato al fallimento della missione “perché nessuna persona è in grado di prendere tante decisioni simultaneamente”. L’intelligenza artificiale in guerra non ha sempre bisogno di noi, è la tesi che avanza. Anzi, ha sempre meno bisogno di noi: o almeno ci vogliono convincere che sia così.

Sempre secondo Wired, il generale John Murray (US Army Futures Command), ad una conferenza di militari, lo scorso aprile ha detto che la possibilità di mandare all’attacco stormi di robot autonomi ci costringerà tutti a riconsiderare se una persona possa o debba prendere ogni singola decisione sull’uso della forza. “E’ nelle possibilità di un essere umano prendere centinaia di decisioni contemporaneamente? Ed è davvero necessario tenere gli esseri umani nella catena decisionale?”.

La prima risposta sul campo – prosegue Riccardo Luna - è arrivata, qualche settimana dopo, dal violentissimo conflitto fra Israele e Hamas a maggio. Qualche giorno dopo il cessate fuoco, infatti, dal governo israeliano sono arrivate le prime conferme che quel conflitto è stato “the first artificial intelligence war”, la prima guerra condotta prevalentemente tramite algoritmi di intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale è stata usata sia nella fase difensiva, per determinare le traiettorie dei missili lanciati contro Israele, intercettando solo quelli diretti verso zone abitate o obiettivi sensibili, e ignorando gli altri; sia nella fase di attacco, a Gaza. Secondo “The Jerusalem Post”, i soldati della Unità 8200, una unità di élite della divisione intelligence, hanno utilizzato algoritmi per condurre diverse azioni chiamate “Alchemist, Gospel, Depth of Wisdom”, utilizzando dati che arrivavano in tempo reale da molte fonti diverse a dei supercomputer i quali generavano raccomandazioni su dove fossero gli obiettivi da colpire. In prima linea, secondo quanto riportato, c’erano spesso “stormi di droni combattenti” e autonomi. Secondo i militari israeliani questo serve anche a minimizzare le vittime fra i civili, ma nei giorni del conflitto di maggio sono state numerose e si sono contati anche molti bambini. Se lo scopo era non colpire i civili, non è stato raggiunto”.


Droni che operano senza input umani. La guerra del futuro? Un videogioco reale

“In realtà il conflitto di maggio in Israele avrebbe almeno un precedente: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il 27 marzo 2020 il primo ministro libico al-Sarraj avrebbe ordinato “l’Operazione Peace Stom”, ovvero l’attacco di droni autonomi, contro le forze di Haftar. I droni, dice il rapporto, “sono stati usati in combattimento per diversi anni, ma quello che rende quell’attacco diverso è che lì i droni operavano senza input umani”, cioè dopo essere mandati all’attacco, erano autonomi di prendere decisioni: “The lethal autonomous weapons systems were programmed to attack targets without requiring data connectivity between the operator and the munition: in effect, a true ‘fire, forget and find’ capability.” ”

Alla luce di queste premesse ecco quali sono le conclusioni alle quali approda l’esperto:

“Insomma, i killer-robot sono già fra noi, nonostante le proteste di molte organizzazioni umanitarie che vedono in questo passaggio una de-umanizzazione della guerra, la sua trasformazione in un videogioco ma reale. E’ lo stesso che sta capitando in Afghanistan in questi giorni? Il drone con le lame rotanti usato dagli americani per colpire presunti terroristi era autonomo, una volta lanciato? O c’erano ancora “humans in the loop”? Intanto crescono i timori che gli stessi terroristi per i loro attacchi usino sistemi di intelligenza artificiale totalmente autonomi per colpirci meglio. Un rapporto, datato 2021, dell’Ufficio Anti-Terrorismo delle Nazioni Unite, titolato “Algoritmi e Terrorismo: gli usi cattivi dell’intelligenza artificiale da parte dei terroristi”, mette in guardia contro una minaccia che è realistico pensare sia già in atto. I terroristi, dice il rapporto, sono sempre degli early adopters delle nuove tecnologie. Secondo Max Tegmark, un professore del MIT citato da Wired che si occupa del Future Life Institute, le armi guidate da sistemi di intelligenza artificiale autonomi andrebbe bandite come le armi biologiche. Ma è una posizione che sembra avere sempre meno consenso nella realtà dei fatti”.

Stiamo parlando di armi convenzionali. Un domani non lontano le armi guidate da sistemi di Intelligenza Artificiale potrebbero essere quelle atomiche? Ci rendiamo conto di quale rischio finale per l’umanità e per l’intera vita sul pianeta si profilerebbe con una evenienza del genere?



Parte terza. Italia e nuovi armamenti: “Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano”

Perdonate la colloquiale scurrilità del titolo di questa terza parte ma non ci è venuto di meglio del titolo di un fortunato, pungente libro di battute di Gino & Michele e di Matteo Molinari del 1991, ripubblicato con crescente successo nel 2004 e nel 2009 da Dalai Editore, per descrivere quanto sta succedendo in Italia in termini di armamenti. Nuovi e diversi rispetto a quelli di cui le nostre forze armate sono dotate. Diciamo così, più offensive. Considerate pure il titolo ironia come arma per reagire al crescente strapotere delle armi. Anche in paesi come il nostro, storicamente da quasi ottanta anni di “tranquilla” proiezione nei rapporti con gli stati vicini. L’aeronautica militare investirà 168 milioni di euro per armare i suoi droni “Reaper” finora dall’Italia usati solo per voli di ricognizione, gli stessi droni impiegati a Kabul dagli americani nei giorni della disastrosa ritirata dall’Afghanistan.

Come osserva Gianluca Di Feo (“Repubblica”, 6 settembre 2021), “L’Aeronautica arma i droni: “Si combatterà così”), “l'Italia ha deciso di armare i suoi droni militari, trasformandoli da ricognitori in bombardieri. Ed entrerà così tra i Paesi in grado di gestire attacchi in continenti lontani, ordinando il lancio di missili da migliaia di chilometri: in pratica, è un passo avanti verso la nuova dimensione dei conflitti, che mette in discussione tutte le regole della guerra. Gli "aerei senza pilota" infatti permettono di uccidere l'avversario senza il rischio di subire perdite umane e possono rimanere in volo anche 24 ore, sorvegliando il bersaglio fino al momento più opportuno per colpirlo.

I Predator e i Reaper - "falciatrice", nome che evoca la "triste mietitrice" ossia la morte - sono stati i primi "velivoli a guida remota" a venire dotati di missili, diventando dall'autunno 2001 i protagonisti della "guerra globale contro il terrore" scatenata dagli Stati Uniti. Hanno permesso l'uccisione di decine di terroristi, ma sono ritenuti responsabili anche della morte di civili innocenti, spesso colpiti in Paesi che non erano zona di guerra come il Pakistan e lo Yemen. Per i critici, si tratta di "un'arma disumana", considerata il simbolo del nuovo imperialismo americano. Molti generali non solo statunitensi invece la ritengono "un'arma umanitaria", perché permette di osservare a lungo gli obiettivi e ridurre al massimo i "danni collaterali". Ma pure l'ultimo raid condotto da un Reaper contro l'Isis a Kabul, poche ore prima del ritiro Usa, resta molto discusso: tra le vittime sei bambini”.

Di Feo svela un retroscena: “Mentre in Germania il dibattito sull'eventualità di comprare droni armati tiene banco nella campagna elettorale per la successione ad Angela Merkel, da noi la scelta è stata "mimetizzata" in un capitolo del "Documento programmatico pluriennale" presentato a inizio agosto in Parlamento dal ministero della Difesa. La novità è stata descritta con una formulazione così tecnica che solo gli esperti del mensile specializzato Rid sono riusciti a decifrarla: "Aggiornamento del payload MQ-9", dove MQ-9 è la sigla che indica i droni Reaper. Recita il Documento: "Il velivolo garantirà incrementati livelli di sicurezza e protezione nell'ambito di missioni di scorta convogli, rendendo disponibile una flessibile capacità di difesa esprimibile dall'aria. Introdurrà, inoltre, una nuova opzione di protezione sia diretta alle forze sul terreno che a vantaggio di dispositivi aerei durante operazioni ad elevata intensità/valenza". L'operazione - che include l'aggiornamento di sensori-spia e apparati di trasmissione - prevede l'investimento di 168 milioni in sette anni. Non viene specificato quali siano gli armamenti prescelti: i Reaper statunitensi usano in genere missili Hellfire e bombe a guida laser.

La nostra Aeronautica – ricorda Di Feo - è stata la prima tra quelle europee a dotarsi di droni da ricognizione, adottando i Predator e poi i Reaper made in Usa: li abbiamo impiegati in maniera massiccia in Afghanistan, Libia, Iraq, Somalia. Dal 2015 una squadriglia decolla tutti i giorni dal Kuwait per sorvegliare le mosse dell'Isis mentre due anni fa un Predator italiano è stato abbattuto non lontano da Tripoli. Nel 2010, quando fu raggiunto il massimo impegno militare contro i talebani, il governo Berlusconi chiese a Washington l'autorizzazione ad armare i nostri droni e acquistare gli apparati guida. La domanda venne bocciata perché il sistema era considerato top secret. Il via libera è arrivato anni dopo, quando però l'interesse italiano si era spento. Ma gli ultimi conflitti, dalla Libia al Nagorno Karabakh, sono stati condizionati dal proliferare di droni lanciamissili, prodotti da Turchia, Cina, Israele e Russia: dozzine di aviazioni ormai li schierano. Lo Stato maggiore ritiene quindi che i droni da battaglia siano ormai "irrinunciabili": "Considerati i prevedibili scenari di sicurezza globali, gli aeromobili a pilotaggio remoto si profilano, infatti, come fattori abilitanti dell'intera macchina militare e sono quindi irrinunciabili per qualsiasi strumento militare moderno". Oltre ad armare i Reaper, si cercherà un sostituto per i più vecchi Predator nell'attesa che sia pronto il nuovo velivolo europeo: un super-drone chiamato Male, acronimo inglese che nella nostra lingua ha un significato decisamente nefasto”.

Riccardo Annibali su “Il Riformista” il 6 settembre 2021 (“Da ricognizione ad armati, il ministero della Difesa trasforma i droni: sono pronti a sparare”) aggiunge ulteriori dati: “La trasformazione degli aerei da ricognizione senza pilota in bombardieri teleguidati, anticipata dal mensile specializzato Rid (Rivista italiana della Difesa), era ben nascosta nel Documento programmatico pluriennale redatto nello scorso luglio che contiene i piani di sviluppo dei prossimi anni. L’operazione del ministero della Difesa che vede l’Italia dotarsi di una delle armi più controverse usate negli ultimi conflitti, avrà un costo 168 milioni di euro, e se da una parte diminuisce l’impiego di uomini ed il conseguente rischio di fatalità per i militari, può come a volte accaduto dall’altra causare errori e vittime innocenti.

Il capitolo che li riguarda, sommerso nelle oltre 250 pagine del report, si intitola “MQ-9 payload”, dove MQ-9 indica i droni Reaper. Il General Atomics MQ-9 Reaper conosciuto dagli addetti ai lavori come ‘Predator B’ fu inizialmente progettato per la sorveglianza a lunga autonomia, fino a 28 ore, a elevate altitudini, fino a 15 mila metri. Il costo unitario è di circa 10 milioni di dollari, ha un’apertura alare di 20 metri e una velocità operativa di poco inferiore ai 500 km/h. La versione in dotazione al nostro esercito è equipaggiata con sensori elettrottici, scanner Ir, radar ad apertura sintetica Sar.

I droni italiani disarmati sono stati schierati in Libia, Afghanistan, Kosovo e Iraq, ma hanno anche effettuato molte missioni umanitarie sulle rotte dei migranti, con l’operazione ‘Mare Nostrum’. “Un’operazione militare ed umanitaria prevede il rafforzamento del dispositivo di sorveglianza e soccorso in alto mare per incrementare il livello sicurezza delle vite umane”, dichiarò l’allora ministro della Difesa Mario Mauro, che decise di impiegare questa tecnologia al termine del vertice di Palazzo Chigi sull’emergenza immigrazione.

L’ufficialità è arrivata da pochi giorni ma il ‘permesso’ chiesto dal nostro governo agli Stati Uniti nel 2010 di armare i Reaper arrivava nel momento di massimo impegno militare italiano contro i talebani e fu respinto perché la tecnologia era ancora top secret. Il via libera è arrivato solo nel 2015, quando però con la riduzione delle attività militari all’estero l’armamento non fu più considerato prioritario. Adesso che le lezioni degli ultimi conflitti come quello libico e del Nagorno Karabach sono diventati più pressanti, hanno spinto lo Stato maggiore a procedere facendo diventare così l’Italia il terzo Paese della Nato, dopo USA e Gran Bretagna, ad usare l’MQ-9 armato, anche se ancora non è stato reso noto quali saranno i sistemi d’arma che trasformeranno i nostri droni in sistemi d’attacco senza pilota. Potrebbero essere missili Hellfire americani, dal 2015 la Casa Bianca aveva dato il via libera, ma anche essere missili di fabbricazione britannica o israeliana”.

“Il Riformista” nel suo articolo riprende integralmente il testo che all’argomento dedica il “Documento programmatico pluriennale”: “Nella mezza pagina dedicata a questo annuncio nel Documento programmatico pluriennale si legge: “La finalità del programma risiede nel garantire l’adeguamento dei sensori, dei payload e dei sistemi di comando e controllo agli ultimi standard tecnologici, assicurando un grado di sviluppo prestazionale in linea con l’output capacitivo ed operativo richiesto dalla Difesa in relazione agli attuali e futuri scenari di riferimento. In particolare, il velivolo garantirà incrementati livelli sicurezza e protezione nell’ambito di missioni di scorta convogli, rendendo disponibile una flessibile capacità di difesa esprimibile dall’aria. Introdurrà, inoltre, una nuova opzione di protezione sia diretta alle forze sul terreno che a vantaggio di dispositivi aerei durante operazioni ad elevata intensità/valenza. Il programma è di previsto finanziamento sul bilancio del Ministero della Difesa per mezzo delle risorse recate da capitoli ‘a fabbisogno’. Il programma ha un fabbisogno complessivo stimato in 168 milioni di euro di cui vede finanziata una tranche di 59,0 milioni distribuiti in 7 anni. È in corso l’iter di approvazione del previsto DM/DI ai sensi dell’art.536 del C.O.M..”

“Protagonista della guerra al terrorismo come arma finale di attacchi contro i leader di Al Qaeda – conclude Annibali - ha anche causato errori che hanno provocato morti civili e creato situazioni di grande tensione tra gli Stati Uniti e per esempio, il Pakistan. Fu proprio un MQ-9 americano decollato probabilmente dal Qatar a sparare, su ordine dell’amministrazione Trump, i quattro missili anticarro AGM-114R Hellfire che hanno colpito il convoglio blindato del generale iraniano Qassem Soleimani capo dal 1998 delle Guardie della rivoluzione iraniane, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad in Iraq. Conosciuto anche come il ‘Mietitore del Pentagono’, il Reaper è stato usato più recentemente nella rappresaglia statunitense all’attacco per mano dell’Isis-K all’aeroporto di Kabul. Meno di 24 ore dopo le parole di Joe Biden che disse: “Sappiamo dove si trovano le menti dell’attacco, gliela faremo pagare”, è partito il raid che ha ucciso due membri di ‘altro profilo’ dello stato islamico del Khorasan, braccio afghano dell’organizzazione”.

“Anche l’Italia avrà i suoi droni armati. La cosa era nell’aria da tempo – nota Vincenzo Sinapi sul “Giornale di Sicilia” del 7 settembre 2021 (“Difesa, anche l’Italia armerà i suoi droni”) - e la conferma è arrivata dal Documento Programmatico Pluriennale 2021 del ministero della Difesa, come sottolinea la rivista specializzata Rid, che collega questa novità all’emergere dei nuovi scenari. Nuovi teatri operativi che “dal Nagorno Karabakh, alla Libia hanno mostrato la rilevanza sui campi di battaglia del drone armato” e hanno fatto cadere “incertezze e resistenze di natura etica che finora avevano impedito il compimenti di tale passo” ”. E così conclude il quotidiano palermitano: “Ma ora che la Difesa “ha deciso di armare i propri UAV classe Male Reaper i nostri comandanti sul terreno potranno disporre di una fondamentale opzione per proteggere le forze a terra per neutralizzare eventuali minacce prima che queste possano manifestarsi”. Del drone in questione – il Reaper MQ-9, prodotto dalla statunitense General Atomics, versione aggiornata del più conosciuto Predator-B – l’Italia ha sei esemplari in dotazione all’Aeronautica militare (uno di questi, utilizzato per la missione Mare Sicuro, è precipitato nel novembre 2019 2019 in Libia)”.



Droni armati per l’Aeronautica. E missili cruise per la Marina

Non è finita. Oltre all’Aeronautica anche la nostra Marina Militare si sta orientando verso nuove strategie di combattimento, sempre meno difensive e sempre più offensive. Se la prima arma i droni, la seconda intende dotare di missili cruise i nostri sottomarini (al momento disponiamo di sommergibili convenzionali, ne abbiamo otto in servizio).

Ancora Gianluca Di Feo (“L’Italia vuole schierare i missili cruise”, “Repubblica” 25 settembre 2021) scrive che è stato “varato il requisito per dotare i nostri sottomarini di armi in grado di colpire ad oltre mille chilometri. Una svolta strategica che rivoluzionerà le capacità della nostra difesa”.

“La Marina Militare italiana intende adottare i missili cruise, moltiplicando il raggio d’azione dei suoi sistemi d’attacco. Si tratta infatti di armi con una portata di oltre mille chilometri, che verrebbero imbarcate sui nuovi sottomarini e successivamente anche sulle fregate Fremm. In questo modo, la capacità di deterrenza contro minacce d’ogni tipo e la possibilità di tutela dell’interesse nazionale si allargherebbe – ad esempio – fino a includere l’intero territorio libico, con una possibilità di proiezione quasi illimitata. Una rivoluzione: attualmente i missili Otomat arrivano al massimo a duecento chilometri di distanza e sono solo in dotazione alle unità di superficie. Mentre i cruise - per avere un termine di paragone – saranno l’armamento principale anche dei sottomarini nucleari acquistati dall’Australia, al centro del dibattito internazionale in questi giorni.

Il “requisito operativo” della Marina non è stato ancora finanziato, ma è stato recepito dallo Stato Maggiore della Difesa. L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone lo ha illustrato in un’intervista al mensile specializzato Rid, spiegando l’esigenza di migliorare gli strumenti di “naval diplomacy”. Si tratta della missione tornata dominante nelle acque turbolente del Mediterraneo, dove le navi militari si sfidano sempre più spesso per marcare le aree di interesse economico. Il caso più evidente è quello della contesa a largo di Cipro per lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini di gas, con la flotta turca impegnata a imporre le pretese di Ankara in spazi che ufficialmente sono riconosciuti allo Stato cipriota. Una questione che riguarda direttamente l’Italia, poiché la concessione degli idrocarburi è stata assegnata anche all’Eni: potenzialmente, si tratta di scorte di gas del valore di molti miliardi di euro.

Ma il comandante della Marina ha sottolineato pure un altro aspetto, in apparenza molto tecnico. I missili cruise sono fondamentali per affrontare le nuove “fortezze elettroniche”, realizzate soprattutto dai russi: “bolle” protette da schermi radar e da batterie missilistiche anti-aeree e anti-nave, che servono a sbarrare la strada alle forze avversarie. Una è stata allestita intorno alla base siriana di Tartus, condizionando i movimenti nel Mediterraneo Orientale in un raggio di 3-400 chilometri. Diversi segnali fanno ipotizzare che altri di questi “castelli hi tech” possano sorgere presto in Libia: ad opera dei turchi in Tripolitania e delle brigate di Mosca in Cirenaica. E se l’Italia vuole ancora contare in quello che fu “il Mare Nostrum”, allora deve prepararsi a fronteggiare questa minaccia.

Non è stato deciso ancora quale sarà il modello di cruise che si vuole adottare. Per il futuro si pensa al franco-britannico FC/ASW, un progetto innovativo che però è ancora nella fase di studio e rischia di venire stroncato dalla lite tra Parigi e Londra per il contratto dei sottomarini australiani. Le alternative immediate sul mercato sono lo Scalp Naval, prodotto per la Francia dal consorzio europeo Mbda, e l’ultima versione del Tomahawk statunitense, che sulla carta pare la soluzione più probabile.

Il Tomahawk – dal nome dell’ascia dei nativi americani - è un’arma che ha segnato gli ultimi quarant’anni di storia. Venne concepita durante la Guerra Fredda per volare a bassissima quota, sfuggendo ai radar sovietici, e colpire con una testata nucleare. Molti ricordano la mobilitazione pacifista dei primi anni Ottanta per impedire che la Nato schierasse questi ordigni in Europa: l’aeroporto siciliano di Comiso – fa memoria il redattore di “Repubblica” - fu l’epicentro italiano delle manifestazioni contro gli “euromissili”. Caduto il muro di Berlino, i cruise sono diventati i protagonisti tecnologici della “Tempesta del Deserto”, devastando i comandi iracheni nella prima notte dell’operazione per liberare il Kuwait. Ovviamente, al posto della testata nucleare utilizzavano una carica di esplosivo convenzionale. Da allora i Tomahawk si sono trasformati nella lunga lancia del Pentagono in tutte le missioni belliche: dal 1991 ne sono stati lanciati ben 2.300. Vennero usati nella rappresaglia contro le basi di Al Qaeda in Sudan e in Afghanistan dopo le stragi nelle ambasciate americane in Africa; per la prima ondata contro la Jugoslavia nella campagna in Kosovo; per bombardare gli accampamenti afghani di Osama Bin Laden pochi giorni dopo l’11 settembre 2001 e poi ancora in Iraq nel conflitto che portò all’occupazione del Paese. L’ultimo attacco risale al 2018: una salva di 63 ordigni fu scagliata contro la Siria per punire l’impiego di gas tossici da parte del regime di Damasco.

Attualmente è in produzione la quinta versione del Tomahawk, con una portata che sfiora i 1600 chilometri e con una carica di circa mezza tonnellata di esplosivo. All’esterno, ha la stessa forma simile a un siluro volante, lungo quasi sei metri, dei modelli di quarant’anni fa ma i sistemi elettronici sono completamente nuovi. Secondo alcune fonti, sarebbe in grado di arrivare sul target con un margine di errore di dieci centimetri, la stima però pare assai ottimistica: è più probabile che si tratti di tre metri. Il sistema di navigazione si basa su un apparato gps coordinato con un una guida satellitare – entrambi “schermati” contro le contromisure - che permette di cambiare obiettivo anche durante il volo: nella fase finale ha un occhio elettronico, con un sensore termico che individua la sagoma dell’obiettivo. Inoltre è programmato per attaccare navi in movimento, gestendo manovre evasive durante la traiettoria finale per evitare le difese contra-aeree. E dispone di una ogiva speciale per distruggere bunker sotterranei o comandi fortificati. Non ci sono dati ufficiali sul costo, che dovrebbe aggirarsi sul milione di dollari per ogni esemplare.

Finora gli Stati Uniti ne hanno permesso la vendita solo alla Gran Bretagna e all’Australia, storici alleati. L’eventuale cessione all’Italia non dovrebbe però rappresentare un problema, visto l’interesse della Casa Bianca a potenziare le marine della Nato in quadranti del pianeta da cui l’America si sta progressivamente ritirando”.


Le implicazioni politiche e geopolitiche del nuovo modello di difesa, anzi d’attacco

L’articolo di Di Feo si chiude con una valutazione d’assieme sul nuovo modello d’intervento al quale Aeronautica e Marina si sono ispirate e sulle implicazioni politiche e geopolitiche che inevitabilmente comporta:

“Per le nostre forze armate l’introduzione dei cruise rappresenterebbe un altro cambiamento strategico. Unita alla recente decisione di armare i droni Predator dell’Aeronautica, permetterebbe la possibilità di attacco su distanze attualmente inconcepibili, mettendo a disposizione delle autorità di governo una gamma di azioni di deterrenza mai viste prima. Dal punto di vista teorico, i bombardieri teleguidati e i cruise a bordo dei sottomarini cambieranno tutti i concetti della nostra Difesa, rendendola capace di presidiare l’intero “Mediterraneo allargato”: l’area di interesse nazionale definita nei documenti del governo, che va ben oltre i confini del mare. Uno sviluppo così radicale da meritare un dibattito parlamentare, per evitare che siano le innovazioni tecnologiche a determinare le scelte del Paese”.   



Parte quarta. Conclusioni

C’è poco da commentare di fronte ad una notizia del genere, peraltro ottimamente documentata e riportata dal redattore di temi strategico-militari del quotidiano romano. Ci sia consentita, per concludere, una sola reazione, anzi un solo vocabolo: preoccupazione. Per quanto succede nelle stanze del bottoni – espressione stavolta reale, non figurata o metaforica – dei massimi sistemi ovvero delle superpotenze armate con ordigni e vettori nucleari di sempre più inaudita, inimmaginabile velocità e potenza distruttiva. Preoccupano per la galoppante avanzata dell’Intelligenza Artificiale nella individuazione dei bersagli e nella guida delle azioni belliche. Se questo approccio si trasferisce più o meno meccanicamente, nel caso sarebbe più corretto scrivere informaticamente, dalle applicazioni alle armi convenzionali all’applicazione a quelle nucleari e ad i loro vettori è il caso di non scommettere neppure un centesimo di euro sul futuro della vita nel nostro pianeta. Preoccupazione – in piccolo, su di un teatro a scala regionale, mediterranea – per le nuove strategie di riarmo dell’Italia. Lo capiamo, imposte non da furia bellica ma dagli scenari che si profilano sul terreno, ad esempio in Africa settentrionale, Libia in particolare, nostra scomoda vicina e cruccio perenne. Ma che rischiano di annacquare sempre più quell’articolo 11 della Costituzione - “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (…)” - che bene o male ha fatto da stella polare alla politica estera e di difesa dell’Italia repubblicana.

Tira una brutta aria, sempre più brutta, nel mondo. A dimensione strategica macro come anche nelle aree regionali in cui si vedono costretti ad operare paesi come l’Italia. Della quale tutto si può dire tranne che sia stata in questi ultimi 75 anni di storia repubblicana aggressiva o bellicosa. Finora.

 di Pino Scorciapino

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