Le fratture che indeboliscono il movimento antimafia
L'analisi | 29 luglio 2024
Diego Tajani, calabrese di Cutro, era stato procuratore generale di Palermo dal 1867 al 1871 prima di approdare alla Camera dei Deputati nelle file della sinistra storica. Disse della mafia in un famoso discorso pronunciato in Parlamento l’11 giugno 1875: “Non era un’associazione che scorreva la campagna; era una associazione impiantata proprio nel centro della città di Palermo. Il caporione di quest’associazione... era un tale Marino, pessimo soggetto, il quale era uno di coloro che non si contentavano di vivere, ma volevano anche ad ogni modo arricchire, ed aveva le sue relazioni con quattro o cinque falsi repubblicani da un lato e col partito clericale dall’altro, e nello stesso tempo era uno dei principali agenti segreti della questura. Il questore se ne serviva, e faceva benissimo fino a questo punto, perché se ne serviva per sapere ciò che si riferiva a quei partiti, come lo sapeva io, ma coi mezzi propri, senza fare spendere danari allo Stato”.
Un paio di decenni dopo, tra il 1898 e il 1900, il questore Ermanno Sangiorgi – che era invece romagnolo – presentò in un lungo rapporto una descrizione accurata della presenza mafiosa nella Palermo di quella fin di secolo. Otto cosche controllavano la città e gli immediati dintorni: sono sostanzialmente le stesse che hanno dominato la mafia palermitana fino alla calata dei “corleonesi” e alle guerre di mafia che si scatenarono a partire dagli anni Sessanta del secolo XX. Dei 218 elementi accusati di essere appartenenti a cosa nostra, 26 erano possidenti e proprietari, 45 soprastanti, campieri, custodi, curatoli e giardinieri, 25 trafficanti ed intermediari; solo 11 i braccianti.
La consolidata capacità di adattamento della mafia di durare e rinnovarsi attraverso il mutamento economico e sociale mantenendo le proprie strutture e il controllo del territorio è dimostrata, anche dallo studio dei cognomi e degli alberi genealogici delle famiglie mafiose della piana dei Colli descritto da Vittorio Coco (“La mafia palermitana”, pubblicato nel 2010 proprio dal Centro Pio La Torre). Non voglio prenderla larga, ma le citazioni aiutano a comprendere la capacità del fenomeno mafioso di durare, trasformarsi e adeguarsi al mutamento della realtà politica e sociale.
L’indubbia sconfitta della mafia stragista da parte dello Stato (e della società civile) non ha determinato la scomparsa del fenomeno mafioso. La mafia si è sommersa, ha preso forme nuove, ha saputo utilizzare in modo efficace le nuove tecnologie informatiche, ha assunto una dimensione internazionale gestendo traffici illegali che spaziano dallo sfruttamento dei migranti al controllo dei traffici d'armi, alla rinnovata presenza nel traffico di droga sulle rotte da e per il Sud America e l’Asia. Al tempo stesso essa non ha mollato la presa sul controllo dell’economia, come dimostrano anche i recenti arresti di Catania, dove proprio un imprenditore pare essere il nuovo vertice dell'organizzazione. Le cosche, non solo a Palermo, controllano di nuovo la distribuzione capillare della droga nelle città dove si sta vivendo la tragedia di migliaia di ragazze e ragazzi esposti alla maledizione del crack e alle nuove droghe sintetiche. Tornano di un certo rilievo le attività connesse all'imposizione del pizzo.
A ciò si somma un quadro politico che va in direzione opposta al rafforzamento della lotta alla criminalità organizzata e fa trasparire la tentazione di rimettere mano, per indebolirla, alla normativa costruita e affinata nei quarantadue anni trascorsi dall'approvazione della legge Rognoni - La Torre. Uno dei punti focali dell’attacco è il tentativo di rimettere mano alla legge 109 del 1996 per il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie. Si utilizza come grimaldello la giusta indignazione per il peggior scandalo che abbia segnato l’applicazione della norma: la vicenda criminale che ruota attorno all’ex magistrato Silvana Saguto e alla banda di malfattori che l’attorniava. A volte in buona fede, più di frequente in palese malafede, è stata coltivata e diffusa un’opinione tutta negativa che rischia di buttar via l’acqua sporca con il bambino.
Vediamo allora di capire di cosa si tratta. Sul sito Anbsc – l’agenzia che si occupa dei beni confiscati – al 26 luglio 2024 risultano 3177 aziende confiscate. La divisone in settori merceologici vede la prevalenza di due settori a tradizionale penetrazione mafiosa: le costruzioni (23%) e il commercio all'ingrosso e al dettaglio (21,59%). Tuttavia quasi tutti i settori merceologici sono interessati: 5,07% in agricoltura, 6,83% attività manifatturiere, 5,10% trasporto e magazzinaggio, 9,14% servizi di alloggio e ristorazione, 9,24% attività immobiliari, ecc. Per le aziende sequestrate e confiscate il problema principale è elaborare veri e propri piani industriali per garantire la sopravvivenza ed evitare che siano i lavoratori a pagare le conseguenze dei provvedimenti.
L’attuale struttura dell’Agenzia ha nell’efficace perseguimento di tali obiettivi uno dei suoi punti deboli. Una proposta presentata dalla Fondazione Sud nel 2018 evidenzia la necessità di un uso sociale e di una gestione economicamente efficiente dei beni, più pubblica e partecipata, improntata alla massima trasparenza e che preveda un utilizzo delle risorse esclusivamente destinato alla valorizzazione e gestione delle aziende confiscate. A capo dell’intera filiera si prevederebbe un “Ente” pubblico economico, che subentri all’Anbsc ma con più vaste competenze e responsabilità, gestito da un Consiglio di amministrazione di nomina pubblica. A me pare un contributo utile a rimettere la discussione con i piedi per terra La legge 109/96 va difesa da ogni tentativo di rimetterla in discussione.
Diversa la questione che riguarda i beni immobili da destinare all’utilizzo sociale. Secondo Libera, al febbraio 2024 sono 22.548 i beni immobili destinati, 19.871 i beni immobili in gestione. Per quanto riguarda la Sicilia i beni immobili destinati sono 8656, quelli in gestione 7727. Esistono a livello nazionale 1065 soggetti della società civile organizzata, in particolare, ma non solo, del terzo settore che gestiscono beni confiscati in Sicilia essi sono 285. Occorre accelerare e semplificare le procedure di assegnazione e individuare le risorse atte ad agevolare gli interventi di ristrutturazione, in maniera tale da ampliare la capacità di riutilizzo sociale di tali beni, che troppo spesso restano poco o punto utilizzati anche dopo il conferimento ai comuni.
Vengo al nocciolo della domanda posta da Emilio Miceli: è il movimento antimafia adeguato ai compiti nuovi che ad esso stanno di fronte? La risposta, a mio avviso, è negativa. Il movimento antimafia non gode di buona salute. Paradossalmente, mentre nella coscienza di massa, specialmente delle nuove generazioni, è netta la ripulsa della mafia e dei suoi tentativi di condizionare la politica e la società, le organizzazioni che si occupano di lotta all’illegalità appaiono sempre più divise su linee di frattura non sempre comprensibili. Non mi riferisco agli approfittatori o a coloro che hanno costruito le proprie fortune facendo finta di essere antimafiosi, come l’ex presidente di Sicindustria Antonello Montante; parlo di quanti – e sono molti – in questi anni si sono seriamente impegnati nella diffusione della cultura della legalità. Le scomuniche reciproche e gli anatemi non portano da nessuna parte. Come insegna la storia del movimento antimafia, il più importante strumento di cui esso dispone e che va gelosamente salvaguardato è la capacità di costruire piattaforme unitarie confrontando le diverse posizioni senza timidezze ed autocensure; ma anche senza che alcuno si autoinvesta del ruolo di corifeo di verità assolute e indiscutibili. La lotta alla mafia ha prodotto effetti concreti e decisivi quando ha messo insieme uno schieramento ampio di forze e ha assunto la dimensione di movimento di massa.
Come dimenticare i centomila donne e uomini che sfilarono per le vie di una Palermo ancora sotto lo shock della strage di Capaci il 27 giugno del 1992 e il movimento dei lenzuoli, per fare solo due esempi?
Infine, la lettura che Emilio propone della stagione delle stragi. A me pare, per quanto fin qui mi è dato di capire, che l’uccisione di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta sia ormai pervenuta a un livello sostanziale di chiarimento giudiziario e storico. Non altrettanto la strage del 19 luglio 1992. Nei 57 giorni che intercorrono tra il 23 maggio e la bomba che uccise Borsellino e la sua scorta, il paese corre il rischio del tracollo politico ed istituzionale. Già qualche mese prima, il 17 febbraio, con l'arresto di Mario Chiesa era cominciata a precipitare la slavina di Tangentopoli. Tuttavia, in occasione delle elezioni politiche del 5 e 6 aprile il sistema politico sembrava ancora saldo: la Dc al 29,66%, il Psi al 13,62%, la somma del Pds e di Rifondazione si attesta a quasi il 22%. Un anno dopo quei partiti, con l’eccezione del soggetto politico fondato da Achille Occhetto e di quello nato dalla scissione seguita alla Bolognina, non esisteranno più. L’elezione del presidente della Repubblica vide consumarsi la sconfitta finale di Giulio Andreotti. Il 31 luglio Bruno Trentin si assunse coraggiosamente la responsabilità di firmare un accordo sul quale nutriva più di un dubbio e subito dopo si dimise da segretario generale della Cgil. Il successivo 16 settembre l’Italia sarebbe uscita dal Sistema monetario europeo perché la lira stava precipitando. Insomma, si avvertivano sinistri scricchiolii che facevano temere il collasso del sistema-paese. In questo quadro di sfascio si colloca la strage di via D’Amelio. Il peggior depistaggio della storia della Repubblica, che ha compromesso le indagini, ha reso assai difficile far pienamente luce su quanto avvenne e sui rapporti tra la strage di luglio e quelle del 1993 a Roma e Firenze. Non posseggo gli strumenti per affermare quale delle due ipotesi principali che si confrontano e scontrano su quanto avvenne in quei giorni siano più vicine alla verità. Ognuna di esse presenta elementi di credibilità e debolezze interpretative. La mancanza di verità su quei giorni tragici è una ferita ancora aperta della democrazia italiana. È indispensabile far luce: ne va del futuro della nostra democrazia che, di nuovo. sta vivendo giorni difficili.
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