Le fiabe illustrate di Benedetto Galifi

Cultura | 30 marzo 2015
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La magia delle fiabe di una volta, narrati a un bimbo senza mai iniziare con il “C’era una volta…” per il semplice fatto che i personaggi - pur provenendo da luoghi e tempi lontani - non erano mai morti. La suggestione di un canovaccio che, soffiata via la polvere da libri e immagini, entrava nelle case e prendeva vita insieme a personaggi e spettatori.

L’innocenza e il fascino di un’infanzia, nutrita a latte e racconti, prende vita in “SANCTIficetur”, la mostra di Benedetto Galifi che si inaugura alle 19 di mercoledì 1 aprile a “Fabbrica102”, in via Monteleone 32, dietro le Poste Centrali di Palermo. Dodici in tutto le foto del particolare lavoro, realizzato da questo artista palermitano che “narra” i suoi Santi in una chiave del tutto nuova: spogliati dei loro vestiti mortali, liberati delle strette cinture della ragione, “giacché il cielo, vivendo e nutrendosi del simbolo, non ammette quegli abiti che creano maschere e distinguono gli uomini gli uni dagli altri”.

«Di rado mia nonna li definiva Santi - racconta lo stesso autore dell’esposizione -, già tanto che a essi si rivolgeva chiamandoli per nome, così come avrebbe fatto con mio nonno o con i suoi figli. Non erano meno reali di noi, queste invisibili figure onnipresenti. Se, infatti, si fosse smarrita una catenina d'oro, sarebbe stato chiamato in soccorso Onofrio, esperto nel ritrovare le cose perdute. Allo stesso modo, per scongiurare una febbre alta, sarebbe stato più opportuno scomodare Rosalia dal suo Monte Pellegrino, piuttosto che il medico dalla strada accanto. Così come sarebbe stato saggio fare un fischio ad Antonio, nel caso in cui ci si fosse bruciati un dito con l'olio caldo; se, poi, una scheggia di legno fosse saltata dentro un occhio, tutte le preghiere  sarebbero state innalzate a Santa Lucia».

Simbolico il valore di cui si caricano gli oggetti che accompagnano i diversi personaggi di Benedetto Galifi, provvedendo a creare quell'iconografia che ne permetta l'identificazione di ogni Santo: Lucia regge in alto un pugnale, mentre Sebastiano copre il viso con un tiro a bersaglio; in entrambi i casi, però, i due personaggi rievocano il momento della loro morte (lei pugnalata al collo, lui trafitto da frecce) e, al contempo, impugnando essi stessi gli strumenti del martirio, ci dicono di non aver subito passivamente la condanna, ma di averla abbracciata in seguito a una libera scelta.

«Martiri sono pure Cecilia, che gode del patrocinio della musica, poiché poco prima di annullare le nozze col suo sposo promesso, avendo scelto di seguire la via della fede, in cuor suo cantava al Signore; e Agata che, dal buio della sua fredda cella, svela il seno miracolosamente guarito da San Pietro. Quello stesso seno fattole recidere dal proconsole Quinziano, ostinato ad avere per sé l'incorruttibile ragazza. A questi eroi – scrive Galifi - che con la morte rivendicavano la loro assoluta e incondizionata libertà, se ne aggiungono due che meritano un discorso a parte: San Paolo e San Giorgio, infatti, pur essendo stati anch'essi martirizzati, nel loro “apparire” non scelgono “simboli” attinti dalla loro “biografia”, ma da quelle leggende che su di essi si sono costruite e che di essi hanno contribuito a crearne la storia in toto. Così, in quel campo di battaglia che è l'anima, Antonio fa fronte alle tentazioni del demonio puntandogli contro un rosario; Onofrio, invece, vissuto nudo nel deserto per più di settant'anni, emerge dalla luce con le mani congiunte, in attesa che un angelo gli venga a far visita, e come di consuetudine, gli porga un tozzo di pane».

Due le donne che, in un tale contesto mistico, a differenza di tutti gli altri che non lo mostrano mai, concedono il loro volto: Rosalia e Maria, la prima spesso assorta, con gli occhi chiusi, a godere di un vento lieve che giunge dal mare a muoverle i capelli; la seconda, pronunciando il cui nome sembra quasi che le viscere della terra tremino perché  è la donna che genera vita, è tutte le donne del mondo. Un’immagine sospesa tra l'umano dolore – una spada nel petto – e la nostalgia di chi sa che probabilmente non verrà ascoltata, quella dell'Addolorata, che per l’artista «guarda ancora con fiducia, immobile, alla vita che non teme la morte, perchè lei sa che la morte risiede altrove, laddove un uomo cessa di esser uomo, rinunciando al suo diritto di scegliere per sé e si riduce a oggetto».

Perfetta per questo periodo ma, anche se non cadesse a ridosso della Santa Pasqua, “SANCTIficetur” esprimerebbe tutta la forza data dalla capacità di reinterpretare la “santità” in una chiave del tutto nuova, offrendo una lettura più “terrena”, maggiormente vicina al nostro essere facilmente e continuamente vulnerabili. Lungi dal volere offendere chi vive questa festività in maniera del tutto diversa, più intima e pudica, paradossalmente Benedetto Galifi avvicina ancora di più a noi immagini e icone che stanno solitamente su piedistalli o santini, dando a chiunque la possibilità di viverli secondo il proprio sentire, comunque sempre con grande rispetto e sentimento.

La mostra si potrà visitare sino al 10 aprile, tutti i giorni, dalle 12 all’1 del mattino, il martedì dalle 12 alle 15.30, mentre la domenica dalle 18 sino alle prime luci dell’alba.

 

 di Gilda Sciortino

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