Le fiabe illustrate di Benedetto Galifi
La magia delle fiabe di una
volta, narrati a un bimbo senza mai iniziare con il “C’era una volta…” per il
semplice fatto che i personaggi - pur provenendo da luoghi e tempi lontani -
non erano mai morti. La suggestione di un canovaccio che, soffiata via la
polvere da libri e immagini, entrava nelle case e prendeva vita insieme a
personaggi e spettatori.
L’innocenza e il fascino di
un’infanzia, nutrita a latte e racconti, prende vita in “SANCTIficetur”, la mostra di Benedetto Galifi
che si inaugura alle 19 di mercoledì 1 aprile a “Fabbrica102”, in via
Monteleone 32, dietro le Poste Centrali di Palermo. Dodici in tutto le foto del
particolare lavoro, realizzato da questo artista palermitano che “narra” i suoi
Santi in una chiave del tutto nuova: spogliati dei loro vestiti mortali,
liberati delle strette cinture della ragione, “giacché il cielo, vivendo e
nutrendosi del simbolo, non ammette quegli abiti che creano maschere e
distinguono gli uomini gli uni dagli altri”.
«Di rado mia nonna li definiva Santi - racconta lo
stesso autore dell’esposizione -, già tanto che a essi si rivolgeva chiamandoli
per nome, così come avrebbe fatto con mio nonno o con i suoi figli. Non erano
meno reali di noi, queste invisibili figure onnipresenti. Se, infatti, si fosse
smarrita una catenina d'oro, sarebbe stato chiamato in soccorso Onofrio, esperto nel ritrovare le cose
perdute. Allo stesso modo, per scongiurare una febbre alta, sarebbe stato più
opportuno scomodare Rosalia dal suo
Monte Pellegrino, piuttosto che il medico dalla strada accanto. Così come sarebbe
stato saggio fare un fischio ad Antonio,
nel caso in cui ci si fosse bruciati un dito con l'olio caldo; se, poi, una
scheggia di legno fosse saltata dentro un occhio, tutte le preghiere sarebbero state innalzate a Santa Lucia».
Simbolico il valore di cui si
caricano gli oggetti che accompagnano i diversi personaggi di Benedetto Galifi,
provvedendo a creare quell'iconografia che ne permetta l'identificazione
di ogni Santo: Lucia regge in alto un pugnale, mentre Sebastiano copre
il viso con un tiro a bersaglio; in entrambi i casi, però, i due personaggi
rievocano il momento della loro morte (lei pugnalata al collo, lui trafitto da
frecce) e, al contempo, impugnando essi stessi gli strumenti del martirio, ci
dicono di non aver subito passivamente la condanna, ma di averla abbracciata in
seguito a una libera scelta.
«Martiri sono pure Cecilia, che gode del patrocinio
della musica, poiché poco prima di annullare le nozze col suo sposo promesso,
avendo scelto di seguire la via della fede, in cuor suo cantava al Signore; e Agata
che, dal buio della sua fredda cella, svela il seno miracolosamente guarito
da San Pietro. Quello stesso seno fattole recidere dal proconsole Quinziano,
ostinato ad avere per sé l'incorruttibile ragazza. A questi eroi – scrive
Galifi - che con la morte rivendicavano la loro assoluta e incondizionata
libertà, se ne aggiungono due che meritano un discorso a parte: San Paolo
e San Giorgio, infatti, pur essendo stati anch'essi martirizzati, nel
loro “apparire” non scelgono “simboli” attinti dalla loro “biografia”, ma da
quelle leggende che su di essi si sono costruite e che di essi hanno
contribuito a crearne la storia in toto. Così, in quel campo di
battaglia che è l'anima, Antonio fa fronte alle tentazioni del demonio
puntandogli contro un rosario; Onofrio, invece, vissuto nudo nel deserto
per più di settant'anni, emerge dalla luce con le mani congiunte, in attesa che
un angelo gli venga a far visita, e come di consuetudine, gli porga un tozzo di
pane».
Due le donne che, in un tale contesto
mistico, a differenza di tutti gli altri che non lo mostrano mai, concedono il
loro volto: Rosalia e Maria, la
prima spesso assorta, con gli occhi chiusi, a godere di un vento
lieve che giunge dal mare a muoverle i capelli; la seconda, pronunciando il cui
nome sembra quasi che le viscere della terra tremino perché è la donna che genera vita, è tutte le donne del mondo. Un’immagine
sospesa tra l'umano dolore – una spada nel petto – e la nostalgia di chi sa che
probabilmente non verrà ascoltata, quella dell'Addolorata, che per
l’artista «guarda
ancora con fiducia, immobile, alla vita che non teme la morte, perchè lei sa che la morte risiede altrove,
laddove un uomo cessa di esser uomo, rinunciando al suo diritto di scegliere per sé e si riduce a
oggetto».
Perfetta per questo periodo ma,
anche se non cadesse a ridosso della Santa Pasqua, “SANCTIficetur” esprimerebbe tutta la forza data dalla capacità di reinterpretare
la “santità” in una chiave del tutto nuova, offrendo una lettura più “terrena”,
maggiormente vicina al nostro essere facilmente e continuamente vulnerabili.
Lungi dal volere offendere chi vive questa festività in maniera del tutto
diversa, più intima e pudica, paradossalmente Benedetto Galifi avvicina ancora
di più a noi immagini e icone che stanno solitamente su piedistalli o santini,
dando a chiunque la possibilità di viverli secondo il proprio sentire, comunque
sempre con grande rispetto e sentimento.
La
mostra si potrà visitare sino al 10 aprile, tutti i giorni, dalle 12 all’1 del
mattino, il martedì dalle 12 alle 15.30, mentre la domenica dalle 18 sino alle
prime luci dell’alba.
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