Le conseguenze della visita di Nancy Pelosi a Taiwan

L'analisi | 5 agosto 2022
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Non convincono le tesi di coloro che considerano “un gesto di coraggio” la visita a Taipei, capitale di Taiwan, del 3 agosto 2022 della presidente della Camera dei rappresentanti degli Usa Nancy Pelosi, accompagnata da sei parlamentari. Si è trattato piuttosto – niente di più e niente di meno – di una provocazione nei confronti della Cina. Non è un caso che Pentagono, Cia e Casa Bianca abbiano cercato, senza risultato, di dissuadere da questa visita la politica ottantaduenne. La Pelosi in altre occasioni in passato aveva manifestato contro l’autoritarismo di Pechino. Ma oggi la situazione non è più quella di uno o due e passa decenni fa. Oggi la visita nell’isola considerata “ribelle” da Pechino e prima o poi, come Hong Kong, da riunificare alla madrepatria, piazza un candelotto di dinamite con la miccia accesa nella polveriera che è la rotta di collisione tra Usa e Cina. La Pelosi lo sapeva e non si è tirata indietro. Attizzando il fuoco con la sua provocazione, tipica espressione dell’approccio da “elefante che carica” che gli Stati Uniti adottano nove volte su dieci nella loro politica estera globale. A Washington la parola moderazione viene ritenuta ancora non inventata, inesistente nel vocabolario.
C’è tanta incoscienza nella passerella taiwanese della Pelosi – dove nelle 19 ore di permanenza ha avuto colloqui con la presidente Tsai Ing-wen, ha parlato nella sede del Parlamento, è stata insignita della più alta onorificenza locale – perché gli Usa e l’Occidente hanno già un fronte aperto con la Russia in Europa. E che fronte! Non puoi reggere una doppia contemporanea conflittualità dispiegata sul campo con Russia e Cina. In questa fase storica devi appoggiare Taiwan nel massimo del silenzio, della sagacia, dell’accortezza e dell’efficacia possibile, senza la teatralità di gesti ad uso dei media. E che in fin dei conti fanno il gioco di Pechino. La Pelosi infatti ha dato un ghiottissimo assist al dirimpettaio autocrate cinese Xi Jinping. Il quale ora ha tante argomentazioni nuove e non meno nuove frecce al suo arco nell’ossessivo “obiettivo storico inderogabile” di riannettere l’indipendente e democratica Taiwan alla madrepatria continentale. Apriti cielo. Pechino nell’occasione si sta agitando come uno stalker umiliato, ha inondato il mondo di dichiarazioni e messaggi che hanno messo in luce come la visita sia “una provocazione e una violazione dell’integrità territoriale della Cina” (sic!) e che pertanto “prendere le contromisure necessarie è una mossa giusta”. Ma non è finita. Ha tagliato gli scambi commerciali residui che ancora manteneva con Taiwan, ha violato come prima e più di prima con formazioni di suoi aviogetti lo spazio aereo dell’isola, ha messo in moto le più spettacolari ed affollate esercitazioni militari di sempre (“esercitazioni militari mirate attorno all’isola”), non fornirà più alle aziende locali le sabbie speciali, materia prima per la produzione di microchip e semiconduttori di cui Taiwan è la principale produttrice nel mondo. Con il più che probabile nuovo rallentamento della produzione mondiale di questi vitali componenti, (ri)mettendo in crisi il settore informatico, telefonico, automobilistico che solo in parte si era ripreso dal ritardo delle consegne a seguito del periodo pandemico. Pechino ha lanciato solo nel primo giorno di esercitazioni 11 missili balistici “Dongfeng” ed ha impiegato 100 tra caccia e bombardieri. Lo spazio aereo di Taiwan è stato chiuso all’aviazione civile per più giorni per ragioni di sicurezza. In più sta testando missili supersonici progettati appositamente per colpire le portaerei americane. Tensione alle stelle – come si scrive in questi casi – tra le due superpotenze. Con Washington che a motori avanti tutta ha mandato nelle agitatissime acque attorno a Taiwan dalle Filippine un suo gruppo navale con al comando la portaerei “Ronald Reagan”. E se con questi scenari ci scappasse un incidente tra mezzi navali ed aerei cinesi e americani o di Pechino e Taipei?
Un viaggio inutile, anzi dannosissimo. Da un quarto di secolo un alto esponente dell’amministrazione americana non si recava a Taipei. La Fico americana (grosso modo il ruolo è lo stesso) ha scelto il momento peggiore, il clima peggiore per la sua bravata, degna dei colpi di testa delle persone molto avanti negli anni. Con la differenza che normalmente alla sua età si chiacchiera con le coetanee nelle case di risposo per anziani mentre nella attuale gerontocrazia americana il presidente Biden e la speaker della Camera Pelosi, di cui nel suo paese più di un osservatore segnala “un ego smisurato”, fanno danni in giro per il mondo.
Gli Stati Uniti appoggino Taiwan cercando di evitare o ritardare al massimo la sua riunificazione con Pechino. Difficile prevedere se questo avverrà con tanto di conflitto armato tra le due superpotenze o senza il ricorso ad un cataclisma mondiale. La Cina ha detto e ridetto in tutte le salse che non rinuncerà mai a Taiwan ed ha avvertito chi non è d’accordo a non provare ad evitarlo perché “scherza con il fuoco”. In casi del genere o si affilano le armi o - più saggiamente - si media, si intavolano trattative, si fissano date e processi economici e politici preparatori alla transizione quanto più diluiti e lontani negli anni. Si prova a scongiurare conflitti ed a garantire per quanto possibile diritti ed assetti economico-finanziari consolidati. Come hanno provato a fare i britannici per la loro colonia di Hong Kong. Anche se poi la Cina non è che sia stata un esempio nel rispetto di tutti gli impegni assunti. Non si mette legna sul fuoco per alimentarlo come ha fatto la “vecchietta terribile” di Washington che l’altro ottuagenario che siede alla Casa Bianca (entrambi del partito democratico) non è riuscito o non ha fatto di tutto per dissuadere.
A noi la bravata della Pelosi ha ricordato la provocazione di Ariel Sharon, la cosiddetta “Passeggiata sulla Spianata delle Moschee” a Gerusalemme il 28 settembre 2000. L’allora capo del partito “Likud” e leader dell’opposizione in Israele, accompagnato da una scorta armata, attraversò a piedi la Spianata, tradizionalmente controllata dai palestinesi. Un gesto dimostrativo. Sharon, ex generale, voleva fare capire che anche quella parte della città sottostava alla sovranità israeliana. Un gesto che ebbe conseguenze tragiche. Scatenò una serie di reazioni dando inizio alla Seconda Intifada. Avveniva in un momento di altissima tensione tra le popolazioni israeliana e palestinese dovuta al recente fallimento dei negoziati di Camp David. La Seconda Intifada è stata un conflitto spietato e sanguinoso con attentati suicidi palestinesi nelle principali città israeliane, demolizioni di edifici e quartieri di palestinesi parenti dei terroristi, “omicidi mirati” dei servizi segreti israeliani di capi terroristi palestinesi implicati nella pianificazione di attentati ai danni di ebrei. E’ stato calcolato che dalla data della “Passeggiata” di Sharon – pochi mesi dopo eletto Primo Ministro – al 2006 siano rimasti uccisi 4312 palestinesi e 1084 israeliani.
Se i politici non hanno il senso della misura, della cautela, della moderazione cambino mestiere. L’italoamericana signora Pelosi, eletta in un collegio della California, membro del Congresso dal lontanissimo 1987, si goda la sua pensione e si dedichi ai nipoti. Anche se pare che voglia ricandidarsi nuovamente alla prossima tornata elettorale. Da sempre aspra critica della Repubblica Popolare Cinese, molto aperta in fatto di diritti civili, di restrizione del possesso di armi da fuoco, finanziamento federale all’istruzione pubblica, ha ora macchiato il suo lungo “cursus honorum” con una provocazione di cui avrebbe potuto (e dovuto) benissimo fare a meno. Peserà sui sempre più conflittuali rapporti tra Stati Uniti e Cina, farà ulteriormente incaponire i cinesi che in fatto di testardaggine e determinazione non sono secondi a nessuno nel mondo.
Ma che gran bel risultato questa visita…
 di Pino Scorciapino

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