Le assenti politiche di sviluppo che rendono invivibile la Sicilia

Economia | 7 novembre 2019
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La presentazione del Rapporto annuale della Svimez, che da un paio di anni si svolge in autunno preceduta da un “lancio” estivo”, ha coinciso casualmente con quella che si preannuncia come la più drammatica delle troppe crisi industriali che investono l'apparato produttivo nel Sud: la minaccia della nuova proprietà di abbandonare l'Ilva. Lo stabilimento di Taranto, le cui vicende sono state segnate dalla contraddizione tra sviluppo ed ambiente, rappresenta una delle ultime permanenze della stagione dei grandi investimenti delle partecipazioni statali nel Sud d'Italia. L'idea che l'Italia, fino a un paio d'anni fa settimo paese industriale del mondo, rinunci a produrre acciaio non è solo un dramma sociale; è una follia che testimonia a quale livello di approssimazione ed arretratezza è ridotto il dibattito sulla politica industriale nel nostro paese. Questo, in realtà, ci dice l'istituto di via di Porta Pinciana: l'Italia è ferma, non si colloca più tra i modelli vincenti della competizione mondiale e stenta a confermare la sua integrazione con le “locomotive europee”. 

Si confrontino (cfr. tavola 3 delle slides presentate da Luca Bianchi) la Rheine Ruhr regione di 10 milioni di abitanti che produce il 15% del PIL della Germania e la Lombardia, anch'essa con poco più di 10 milioni di abitanti e che produce il 21,7% del PIL italiano. Ebbene, nel pieno della grande recessione, tra il 2006 e il 2017, il Pil per abitante della regione metropolitana tedesca è sceso del 5%, quello della Lombardia del 10%; il doppio. In un paese che fatica a tenere il passo con L'Europa a 27, il Mezzogiorno arretra e la Sicilia continua ad arrancare: nel periodo considerato il PIL della regione di Bucarest-lifov, nella Romania che entrò poverissima nell'Unione, è cresciuto del 57% mentre la Sicilia è andata indietro del 13%. 

Se si guarda alla ricerca UE sull'indice di progresso sociale, che non misura solo la crescita economica ma l'insieme delle condizioni di vita di un'area, si vedrà che la Sicilia è segnata in rosso nelle tre componenti fondamentali della qualità della vita: i bisogni umani basilari, il welfare e le opportunità. Si provi ad intrecciare questi dati con le cifre sul reddito di cittadinanza, sulle pensioni erogate in Sicilia e sulle prestazioni di protezione sociale. I numeri del portale Inps (consultato il 6 novembre 2019 alle ore 10.35) sono eloquenti. Reddito di cittadinanza (all'8/10/2019) ha visto nell'isola accolte 169.491 domande, 48.616 in lavorazione, 17.415 cancellate o respinte. In totale 235.522 nuclei familiari siciliani risultano percettori o in attesa di percepire il reddito:oltre 500.000 persone. Secondo i dati del Rendiconto sociale 2018 dell'Inps nazionale (5/11/2019), nell'isola 273.000 persone hanno fruito in corso d'anno di prestazioni di protezione sociale: 104.563 di indennità di disoccupazione, 1261 della mobilità, 114.907 della disoccupazione agricola, 52.599 del SIA (sostegno all'inclusione attiva, una delle misure che hanno preceduto il reddito di cittadinanza). Se sommiamo queste cifre alle 1.027.170 posizioni pensionistiche (cfr. Bilancio sociale Inps Sicilia), otteniamo un numero che dovrebbe far saltare sulla sedia chiunque nella nostra isola beneamata si occupi di problemi sociali: 1.469.662 donne ed uomini fruiscono di prestazioni previdenziali o assistenziali. Naturalmente, vanno distinte le prestazioni previdenziali, che derivano dai contributi versati nel corso dell'attività lavorativa, dalle prestazioni che invece tutelano chi è provvisoriamente uscito dal mercato del lavoro, o ancora da chi percepisce il reddito di cittadinanza, una misura che purtroppo si sta rivelando meramente assistenziale .

 Si aggiungano 295.611 invalidi civili (77.009 percettori di sola pensione, 163.753 di sola indennità, 48.849 di indennità e pensione) e si giunge a 1.765.273 donne ed uomini il cui reddito è garantito dagli strumenti del welfare. La popolazione siciliana è pari a poco meno di cinque milioni di unità, di cui tre milioni 154 mila attivi. Gli ultimi dati Istat disponibili (2/10/2019) quantificano in 1.735.000 le forze lavoro siciliane oltre i 15 anni d'età. Sono occupati 846.800 maschi e appena 479.685 femmine, 372.000 tra maschi e femmine sono in cerca di occupazione. Le cifre assolute danno conto dell'entità enorme della questione; non sorprende quanto emerge dai dati BES (benessere economico e sociale, indicatore assai più raffinato del Pil): nella regione appena il 12,1% dei lavori instabili viene trasformato in occupazione stabile; il 35,7% dei lavoratori sono occupati a termine da almeno 5 anni, il 18,5% dei dipendenti hanno una paga bassa, condizione che confina con quella di working poor in caso di famiglie monoreddito; il 22,2% degli occupati risulta sovraistruito, cioè svolge lavori inferiori a quelli corrispondenti al proprio titolo di studio. Ad evitare equivoci, chiariamo che lo stato sociale è una conquista che va difesa a denti stretti, ma l'immagine della Sicilia che emerge da questi dati è quella di una regione dove poco più di 1.300.000 persone lavorano e ben 1.765.273 sono percettori di redditi da previdenza o assistenza. Con un dialettismo si direbbe: sono campati dall'Inps. Sta qui, in questo squilibrio tra redditi da lavoro e redditi di altro tipo, tutto il dramma della condizione siciliana di oggi. Alle radici del fenomeno migratorio e dell'inversione delle tradizionali tendenze demografiche che la Svimez denuncia da tempo, ci sono queste cifre. 

Tuttavia, bisogna sfuggire alla tentazione della “Sicilia ultima degli ultimi” che diventa l'alibi per una parte delle classi dirigenti che, paradossalmente, trovano nell'enorme misura delle difficoltà la motivazione per nulla fare, tranne esercitarsi nel gioco dello scarica barile. Il presidente della Regione Musumeci rinviene in una tavola sulle infrastrutture (tav.18 pag 46 delle Note di Sintesi) l'occasione per addebitare all'Anas il netto arretramento dell'indice di dotazione autostradale della Sicilia, dimenticandosi che due terzi delle autostrade dell'isola sono gestite dal CAS, di proprietà della Regione Siciliana. Era probabilmente distratto dai guai interni alla sua maggioranza e dalla necessità di capire i giravolta intellettuali del suo assessore all'economia, l'ineffabile professor Armao, che sul disavanzo del bilancio regionale, vicenda complicatissima dal punto di vista tecnico-contabile, sostiene oggi l'esatto contrario di quanto sosteneva nel 2015 quando fu effettuato il riaccertamento straordinario delle entrate. Nel frattempo i milioni di euro di fondi strutturali europei che rischiano il disimpegno sono cresciuti: 603,92, con l'isola inchiodata al 13,87% della spesa certificata. Alla faccia della velocizzazione dell'utilizzo dei fondi! I sindacati chiedono “lavoro” e un “cambio di passo”, proposte magari un tantino generiche; ma che dovrebbero chiedere, più assistenza e il perdurare di quest'andazzo? Invece, se si leggono con attenzione le pagine del Rapporto, alcune linee guida per un futuro diverso si individuano. Innanzitutto la capacità di resilienza di un nucleo di imprese, anche siciliane, che ha reagito alla crisi ed ha sviluppato un modello di specializzazione dell'export: nell'isola tale fenomeno riguarda in particolare l'industria alimentare ed i settori collegati alle vocazioni territoriali. Diversi studi recenti (penso tra gli altri al prof. Adam Asmundo) hanno rilevato che molte di queste imprese tendono a tenersi fuori dal circuito della spesa pubblica e a limitare la propria crescita perché temono di incappare nei vizi tradizionali: dalla corruzione all'eccessiva durata dei percorsi autorizzativi. Giustamente osserva Luca Bianchi che queste energie nuove sono troppo isolate e troppo deboli per fare sistema e contribuire al superamento della crisi. Allora la strada obbligata è una profonda e radicale riforma della pubblica amministrazione regionale che deve essere riorientata in direzione dello sviluppo. L'impresa virtuosa è stata lasciata sola: la Svimez dimostra che la componente più dinamica degli investimenti, seppure in rallentamento, è quella privata, sostenuta dagli strumenti di incentivazioni previsti da diverse leggi nazionali. 

Sono invece drasticamente diminuiti gli investimenti pubblici, scesi quest'anno al di sotto del 30% del totale, nonostante la legge prevedesse per il Mezzogiorno una quota pari al 34%. Dal momento che i due punti di massima crisi del Mezzogiorno sono la questione giovanile e la bassissima partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il grosso degli investimenti pubblici va destinato alla scuola, formazione, ricerca e alla realizzazione di moderne infrastrutture sociali. L'84,1% degli studenti di scuola primaria del Mezzogiorno sono esclusi dal tempo pieno, l'85% frequentano scuole prive di spazio per la mensa, il 71,6% edifici scolastici privi di certificato di abitabilità, il 61,2% degli istituti sono privi di palestra. Circa 300.000 giovani, conseguita la licenza media, restano fuori dal sistema di istruzione e formazione professionale e vanno ad incrementare il già altissimo numero di NEET. I pilastri di un piano per il Sud che si connoti come un nuovo patto tra Nord e Sud per la rinascita del paese devono mettere al centro gli investimenti pubblici per la scuola, la formazione professionale, il sistema universitario meridionale. Si pensi, poi, alle attività connesse alla tutela ed al risanamento del territorio, in aree fortemente interessate da fenomeni di degrado; oppure alla grande occasione collegata alla conservazione ed alla fruizione turistica del patrimonio culturale. I 111 siti siciliani rappresentano il 26,4% di quelli presenti in Italia, ma nel 2018 sono stati visitati da poco più di 5 milioni di visitatori pari all'incirca al 10% del totale nazionale. Palermo, Agrigento, Siracusa e Piazza Armerina da soli hanno attirato più di tre milioni di visitatori. Esiste quindi un ampio spazio di crescita e di creazione di nuova occupazione qualificata soprattutto giovanile. Non è vero, insomma, che il turismo porta solo fast food ed occupazione dequalificata, anzi può diventare un'occasione di crescita professionale per tanti giovani. Naturalmente i turisti nei siti culturali bisogna portarceli: qui torna il nodo centrale dell'arretratezza del sistema autostradale e dell'adeguamento della rete ferroviaria- vero tallone d'Achille dell'isola- dei porti e degli aeroporti torna centrale. Si abbia il coraggio di dire la verità: negli ultimi quindici anni, dopo la fine del primo governo Prodi, sono fallite tutte le politiche destinate a recuperare il divario tra aree forti ed aree deboli. E' fallita l'idea di affidare la crescita del Sud ai fondi strutturali europei perché il sistema amministrativo- non solo quello regionale ma anche le amministrazioni centrali- non sono state in grado di adeguarsi alle modalità di lavoro europee e perché è venuto meno il carattere aggiuntivo delle risorse della “coesione”.

 I fondi nazionali destinati allo sviluppo - lo FSC e il Fas che l'ha preceduto- sono stati dirottati verso la spesa corrente, spesso nel Centro-Nord, o congelati per esigenze di rientro dal debito pubblico. Sui 63,8 miliardi di euro di FSC programmati per il 2014-2020 al 30 giugno 2019 risultavano monitorati solo 37,6 miliardi dei quali soltanto 4,4 miliardi risultavano contabilmente impegnati e soltanto 1 miliardo (2,8%) realmente pagato. In tale ambito, i patti per il Sud sono sostanzialmente fermi: su 14 miliardi di risorse destinate solo 1,2 risultano impegnati ed appena 347 milioni pagati. Anche su questo terreno la Sicilia brilla per il ritardo. E' paralizzata anche la politica di incentivazione fiscale, le cosiddette ZES, che la stessa Svimez aveva fortemente sostenuto: si sono moltiplicate le richieste di adesione dei territori, ma non una sola zona economica speciale si è concretamente avviata. La polemica politica che accompagna quotidianamente il confuso dibattito pubblico è molte volte speciosa: si è trattato di politiche sostanzialmente bipartisan che tutti i governi che si sono succeduti hanno provato ad attivare o rilanciare, ma senza avere la forza di incentrare su di essi una vera battaglia politica. Si è tirato a campare, nell'attesa che miracolosamente passasse la tempesta della crisi, che avrebbe invece dovuto rappresentare l'occasione di implementare politiche coraggiose. 

Chi scrive non ha la pretesa di inventare qualcosa di nuovo. Lancia solo un appello ad evitare che finisca come negli anni passati: una settimana di titoli sui giornali e poi tutto come prima. Le cittadine e i cittadini italiani che vivono e faticano ogni giorno nelle regioni meridionali si meritano che la politica si assuma le proprie responsabilità e dia loro risposte serie ed efficaci.

 di Franco Garufi

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