La tragedia della disoccupazione giovanile

Economia | 16 marzo 2016
Condividi su WhatsApp Twitter

Il tasso di disoccupazione giovanile registrato a gennaio in Italia è del 39,3 per cento. Non è solo un problema economico: non essere occupati determina una perdita di capitale umano, che può produrre effetti gravi su individui e società nel suo complesso. Il sostegno all’inclusione attiva.

I dati sulla disoccupazione dei giovani

Secondo i dati provvisori dell’Istat, il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a gennaio è stato pari al 39,3 per cento, il valore più alto dall’ottobre 2015. La crisi economica ha penalizzato i giovani non solo in Italia, ma in tutti i paesi europei; il tasso di disoccupazione giovanile (che dal 2005 aveva incominciato a scendere) nel 2008 ha ripreso a salire fino a raggiungere il 23,7 nel 2013. Come si può vedere nella tabella, vi è una forte eterogeneità tra paesi, con tassi inferiori al 10 per cento in Germania, Danimarca, Islanda e Norvegia e superiori al 30 per cento nei paesi del Mediterraneo.

Tabella 1 – Tasso di disoccupazione giovanile paesi UE

Schermata 2016-03-14 alle 14.43.51

Dati Eurostat

Come evidenziato da Mario Draghi, in una recente intervista al Guardian, tassi di disoccupazione giovanile così elevati sono una tragedia perché i giovani, restando esclusi dal mercato del lavoro, non riescono a sviluppare le proprie capacità.

Così si perde capitale umano

Secondo la teoria del capitale umano, la produttività sul mercato del lavoro dipende, oltre che dalle capacità innate e da quelle acquisite attraverso l’istruzione, anche dalla formazione maturata sul posto di lavoro. Con il passare del tempo, alcune conoscenze tendono a diventare obsolete mentre altre vengono perse a causa del mancato utilizzo. Non essere occupati determina quindi una perdita di capitale umano che può produrre effetti gravi sia sugli individui che sulla società nel suo complesso. Un recente rapporto della Commissione europea stima per i paesi Ue un costo di circa 153 miliardi di euro (1,2 per cento del Pil) derivante dai Neet (Not in Education, Employment or Training), cioè i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non sono coinvolti in processi formativi. La stima include i costi relativi ai sussidi di disoccupazione, ai redditi non percepiti, ai contributi non versati e alle tasse non riscosse. Ma sarebbe molto maggiore se si considerassero anche gli effetti sulla salute fisica e mentale, sul tasso di criminalità e sulla coesione sociale. Non bisogna neanche dimenticare che i giovani più colpiti sono quelli con bassi livelli di istruzione e basse competenze, cioè quelli che provengono da famiglie più disagiate. Perciò la disoccupazione giovanile può frenare la mobilità intergenerazionale e fare in modo che il disagio sociale si tramandi da una generazione all’altra. Francesco Giubileo e Francesco Pastore hanno recentemente discusso su questo sito gli effetti di una serie di politiche attive del lavoro (ad esempio programmi di accompagnamento e di formazione), sottolineando come spesso nel nostro paese non abbiano prodotto gli effetti sperati. Né il Jobs act né il programma Garanzia giovani sono stati sufficienti a salvare i giovani italiani dalla disoccupazione. Le imprese hanno preferito assumere lavoratori già qualificati (non è detto che il raddoppio del bonus nell’ambito di Garanzia giovani sia sufficiente a invertire la tendenza). Sembrerebbe quindi necessario accompagnare le strategie di rimedio con politiche preventive di più lungo periodo. Si tratta di dare a tutti “il passaporto per la vita”, cioè le competenze necessarie per un pieno inserimento economico e sociale. La letteratura economica mostra che sono gli investimenti in età pre-scolare a essere i più efficaci. Il premio Nobel per l’economia James Heckman ne stima un rendimento del 7-10 per cento annuo, grazie a migliori risultati a scuola e sul mercato del lavoro e a minori costi sociali. Famoso è ad esempio il Perry Pre-School Program, realizzato in Michigan, che ha coinvolto bambini di 3-4 anni con un basso quoziente intellettivo e provenienti da famiglie a basso reddito. Le attività previste dal programma mirate allo sviluppo delle capacità cognitive e sociali hanno avuto effetti positivi sul rendimento scolastico, sul tasso di occupazione a 19 anni e sui redditi. Un programma di questo tipo poteva essere inserito in Italia nell’ambito del “Sostegno per l’inclusione attiva” esteso, dopo una sperimentazione avviata nel 2013, all’intero territorio nazionale. Il programma prevede, oltre a un sostegno economico, un progetto personalizzato d’intervento che riguarda tutti i componenti della famiglia, con particolare attenzione ai bambini. A differenza però di quello che è stato fatto negli Stati Uniti e in altri paesi europei, non esiste un protocollo di attività precise. Le linee guida recitano: “I servizi sociali, per parte loro, si impegnano a favorire con servizi di accompagnamento il processo di inclusione e di attivazione sociale di tutti i membri del nucleo, promuovendo, fra l’altro (…) il collegamento con il sistema scolastico (…)”. Non definendo interventi precisi e non stabilendo un piano rigoroso di valutazione, il governo italiano sta perdendo l’opportunità di intraprendere azioni mirate e di realizzare una seria analisi costi-benefici sui risultati che saranno raggiunti. (info.lavoce)

 di Maria De Paola

Ultimi articoli

« Articoli precedenti