La socialità, la vittima del coronavirus di cui non si parla

Società | 5 settembre 2020
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Dai primi mesi di questo funereo 2020 non si fa altro che parlare delle “vittime” del Covid19. Innanzitutto le troppe vite recise, ormai prossime nel mondo a un milione. Poi le altre “vittime”: la sanità, il lavoro, il Pil, l’occupazione, la produzione, il turismo, la scuola da settimane argomento principe di confronti e polemiche. Curiosamente si parla assai meno, praticamente niente, di una delle principali “vittime” del coronavirus: la socialità. Convivere con la pandemia ha colpito l’essere umano – animale sociale per definizione – nella sua essenza, nel suo bisogno di aggregarsi con gli altri, di scandire la propria esistenza alla luce di date ed occasioni di incontro. Che sia banale struscio nella affollata piazza o via principale della città, del paese, della frazione dove si risiede; che siano festeggiate ricorrenze personali e familiari – battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni a volte con più di duecento invitati; che siano ricorrenze religiose da calendario – Capodanno, Epifania, feste locali per il patrono o la patrona e vari altri santi, i riti della Passione e di Pasqua, il Corpus Domini, le festività natalizie: su queste date (spesso costose, specie a proposito del secondo gruppo) si snodavano incontri e vita sociale, aggregazioni e convivialità, acquisti di regali ed abbigliamento per agghindarsi e presenziare. Con, nelle feste locali, l’immancabile aggiunta di esibizioni canore e spettacoli fino a notte inoltrata. Ricorrenze affollate non solo dai (pochi) credenti ma da tutti, agnostici ed indifferenti. La religione cristiana in affanno già da diversi decenni per la secolarizzazione degli stili di vita rimane pervasiva perché la millenaria cultura cristiana comunque permea la vita sociale di tutti noi con i suoi riti e le sue ricorrenze. Che si creda o meno. Anche a non essere praticanti, si è comunque pienamente integrati nella cultura religiosa dell’area geografica nella quale si è nati. Vale per noi. Vale per i musulmani, gli ebrei, i buddisti, gli indù, per tutti.

Manifestazioni religiose di massa e ricorrenze personali - da noi collegate in particolare ai riti, alle processioni, ai sacramenti ed alle celebrazioni della Trinità, della Madonna e dei santi - hanno subito dal Covid19 un attacco impressionante quanto devastante. Per ognuno di noi, dai bambini agli adulti fino alla quarta età, questo attacco si traduce in una non meno impressionante rarefazione di contatti, convivi, incontri, conversazioni, confronto, frequenza.

E non pensiamo solo alle tradizioni religiose, a riti antichi e processioni. Che fine hanno fatto i raduni oceanici degli ultimi decenni a Roma e nel mondo di giovani e meno giovani con i pontefici in occasione delle “Giornate mondiali della gioventù” e delle visite papali?

Agli appuntamenti religiosi ogni nazione associa le grandi occasioni di incontro per le proprie festività civili. Da noi in particolare 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno. Feste laiche ed occasioni di raduni e manifestazioni, parate e concerti. Tutto per ora “rinviato”, “in stand-by”, “celebrato in tono minore, con le sole autorità”. In attesa di tempi migliori e di ritorno alla normalità.

Pari sofferenza nel mondo dello spettacolo, della cultura, dell’arte. Dovremo dire addio o solo arrivederci a megaconcerti di musica leggera, concerti di musica sinfonica, festival, mostre, esposizioni? Ne avvertiamo la mancanza. Movimentavano business ed indotto, senza dubbio, ma erano anche chiara espressione della nostra esigenza vitale di spostamenti, contatti, aggregazioni. Ci mancano anche ben più modesti e meno pretenziosi convegni, seminari, presentazioni di libri. Comunque occasioni d’incontro che ci costringevano ad alzarci dal divano, rendevano giornate e serate meno uguali, meno monotone, meno dominate da televisione e social.

Da cittadini del mondo che ci dichiaravamo, da acquirenti di biglietti aerei low cost per trascorrere una fine settimana in una città o una settimana in paesi d’ogni continente – ormai proibita aspirazione di ogni età e ceto sociale – ci siamo rinchiusi nelle nostre più protettive abitazioni. Una avvilente autoreclusione anticontagio. E per giunta ormai non siamo più cittadini neppure delle località dove abbiamo casa, tanto siamo defilati rispetto alle già contratte interazioni civili, culturali, politiche e sociali del luogo. Altro che cittadini del mondo. Altro che generazione erasmus per i più giovani. Siamo solo e niente altro che cittadini in trepida attesa di un miracoloso vaccino. E basta.

Meno male che la scuola, così come le università, riprende nelle aule e non a distanza. Non mancheranno difficoltà d’ogni sorta ed ostacoli da superare, temporanee chiusure di aule ed istituti comprese per casi di contagio, ma la scuola si nutre della contemporanea presenza fisica di chi insegna e di chi apprende. Facciamo a meno di nuove tecnologie e didattica a distanza. Sono servite nelle settimane più drammatiche. Grazie, meno male che le abbiamo utilizzate. Però niente potrà mai rimpiazzare crescere ed apprendere assieme ai compagni, ascoltare la spiegazione di un professore avendolo, distanziato e “mascherato” quanto si voglia, a pochi metri di distanza e non attraverso lo schermo di un computer.


La pur indispensabile mascherina ha aggiunto di suo alla morte cerebrale della socialità umana: gli occhi non bastano a manifestare espressioni, umore, disapprovazione, plauso. Nascosta dalla mascherina, la mimica facciale è sparita.

Ma non solo rarefazione dei contatti. Abbiamo dovuto dire addio o arrivederci a chissà quando ad ogni manifestazione affettiva. Niente più baci sulla guancia – o, più precisamente, contatto delle guance - a parenti, amici, conoscenti, colleghi che si rivede dopo tempo, niente più abbracci, niente più stretta di mano a vicini di casa o a compagni di briscola al circolo. Contatto dei gomiti o mano aperta sul nostro cuore somigliano tanto a modestissimi palliativi. Siamo tornati dopo millenni o chissà quante centinaia di migliaia di anni guardinghi e anaffettivi se non con la compagna e la nostra prole come le altre specie animali. Anzi, altre specie animali in questo periodo addirittura ci superano nella manifestazione di affettività di gruppo o di branco.

Vittima del Covid19 è la socialità nello sport ovvero la presenza di spettatori. Senza pubblico anche il cosiddetto “grande calcio” diventa una specie di invalido privo di un organo importante. Altri sport resistono meglio. Il ciclismo, ad esempio. Meno spettatori ai bordi delle strade ma fascino immutato. Anche in piena era pandemica il ciclismo rimane il più televisivo degli sport. Motociclismo ed automobilismo sono stati meno azzoppati del calcio dal coronavirus. Ma in “Formula 1” la noia rimane mortale per il copione che da anni vede straprimeggiare la Mercedes e soccombere la Ferrari. In quest’anno pandemizzato la “rossa” è ridotta addirittura a comprimaria da bassa classifica. Forse per la casa di Maranello sarebbe il momento di annunciare il ritiro dalle corse finalizzato ad un biennio od un triennio di lavoro dietro le quinte su motore e telaio per poi tornare competitiva. Piuttosto che inanellare umiliazioni su umiliazioni.

L’attacco del Covid alla socialità dell’animale sociale per eccellenza che conseguenze comporterà? Si impiegano decenni se non secoli per approdare ad un gesto di conquista, di diffusione comune. I nostri giovani – ragazzi e ragazze – si salutavano fino a prima della pandemia con un bacio (un contatto) sulla guancia che sostituiva la stretta di mano o il solo saluto verbale di quando, molto tempo fa, eravamo giovani noi. Quando e se la pandemia cesserà torneremo a baciarci ed a quel gesto meraviglioso di cui forse solo ora stiamo comprendendo l’intensità e la profondità ovvero la stretta di mano? Per presentarci, per salutare, per cominciare a conoscerci, per fare le condoglianze, per manifestare solidarietà, vicinanza, partecipazione? Non lo sappiamo. Ricostruire dalle macerie diventa sempre faccenda tremendamente complessa. Ma lo speriamo con forza. Fondamentale tornare alla socialità dei gesti, della mimica, dei movimenti e della prossimità (oggi, al contrario, siamo così circospetti e diffidenti…). Vitale per tutti, dai bambini agli anziani. Perché abbracci, baci, strette di mano, pacche sulle spalle, prendere sottobraccio rivitalizza, esprime sentimenti e feeling che gli occhi da soli, con il resto della faccia occultato, non bastano ad esternare.

La forzata e ancora lunga “convivenza con il virus” ci ha reso orfani di tante abitudini che – ammettiamolo – giusto in estate speravamo almeno in piccola parte di recuperare o ripristinare. All’uscita dalla “Fase 1” i timori erano tutti per il ritorno del coronavirus nel prossimo autunno e ancor più in inverno. Invece Covid19 ha continuato a serpeggiare tra noi anche con il solleone, facendosi beffa dei tanti che eravamo convinti o speravamo che, al pari di tutte le influenze di stagione, avrebbe momentaneamente salutato per prendersi il suo letargo estivo. I cretini e le cretine patiti delle discoteche e del divertimento (a base di alcol) ad ogni costo in Italia e anche in sconsigliatissimi paradisi esteri dello sballo hanno poi completato la frittata che ha cominciato a far risalire la curva della presa del coronavirus. Con la novità, prevedibile, dell’abbassamento dell’età media dei contagi. Niente a che vedere con la strage di vite delle settimane da febbraio a maggio. Ma anche nei giorni migliori, quelli con pochi decessi, il tributo di sacrifici umani Covid19 – una delle tante “divinità della morte” nella storia dell’homo sapiens – lo ha preteso.

Questo andamento ci ha spiazzati. Poca cosa rispetto a concomitanti ben più feroci tributi di vittime pagati in altre parti del mondo ma quanto basta per far riprendere inquietudini, preoccupare. E per continuare ad allontanarci sempre più gli uni dagli altri e dalle nostre abitudini, dal nostro modo di essere e di vivere. Siamo tornati all’attesa dell’appuntamento pomeridiano giornaliero con i dati del coronavirus: numero di contagi, tamponi, decessi, ricoveri ospedalieri, ricoveri in terapia intensiva. Pagine su pagine nei giornali di dati, diagrammi, curve.

Su di un dato si registra una sconcertante carenza informativa: i deceduti di queste settimane. Sui cinque o otto o tredici morti giornalieri che siano non si proferisce parola. Chi sono? Che età hanno? Che quadro clinico presentavano? Che "co-morbilità” hanno inciso sul loro decesso? Ridurre solo ad un numero una vita che si spegne – con la sua storia, il suo percorso, i suoi affetti – non merita di essere definita corretta informazione. Maggiori conoscenze mediche su quelle morti peraltro aiuterebbero a saperne di più sugli itinerari che in queste ore l’epidemia si sta tracciando. Ancora imperterrita, spavalda.

 di Pino Scorciapino

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