La rivoluzione sociale di Bergoglio e il ruolo della buona politica
Da
laico non credente sono stato particolarmente colpito da due affermazioni di straordinaria importanza
ed assoluta modernità contenute nell'Enciclica “Fratelli tutti” di papa
Francesco. La prima è relativa alla politica:
«Abbiamo bisogno di una politica che pensi
con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale,
includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Una
sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di
buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Non si
può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere
reale dello Stato.”
Dopo
un decennio di continua e progressiva svalutazione del ruolo della politica, di
volta in volta subordinata al Moloch imperante dell'economia finanziaria oppure
strattonata dai vaffadays e dall'”uno vale uno,” sorprende ed al tempo stesso
consola che la rivalutazione della politica come costruzione di progetti di lunga
durata finalizzati a lottare per abolire
le ineguaglianze e le ingiustizie del mondo, come proposta collettiva
che pensi alle generazioni future piuttosto che alle prossime elezioni, giunga proprio nel testo pubblicato da papa
Francesco. Un pontefice che detiene tre primati (il primo a chiamarsi con il nome del santo d'Assisi, il primo gesuita, il primo sudamericano) e somma nella
sua persona la coscienza e la sapienza
della chiesa militante e la conoscenza diretta delle condizioni
drammatiche delle masse del subcontinente latino-americano. E non va dimenticato che, da arcivescovo di
Buenos Aires, l'argentino Bergoglio ebbe modo di confrontarsi con la tragedia
di una delle dittature più feroci, quella dei generali argentini e con gli
orrori della sanguinosa repressione che colpì ogni forma di dissenso.
Appare
di notevole interesse la maniera in cui viene posto il problema dello Stato e
della realizzazioni di istituzioni sovranazionali rafforzate, che abbiano la capacità di
diventare presenti presenti e attivi, in forte interrelazione con la società
civile e si orientino veramente verso le
persone e il bene comune.
La
seconda affermazione da cui mi sento profondamente coinvolto è l'esplicito
collegamento instaurato tra la buona politica
e la questione del lavoro:
“Il
grande tema è il lavoro. Per quanto cambino i sistemi di produzione, la
politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di
una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità
e il proprio impegno ... Il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita
sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo
per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé
stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento
del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.”
La
Chiesa di Francesco non si sottrae alle
scelte, non si rifugia, come è avvenuto
in passato, nel rimpianto della
tradizione pre-capitalistica ma si confronta con le contraddizioni della
contemporaneità spingendosi a ritenere
necessaria la promozione di un’economia
che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale,
che aumenti i posti di lavoro invece di ridurli con un sistema fondato sulla
speculazione finanziaria e sul guadagno facile. Da questo punto di vista
non c'è il rifiuto del mercato ma la consapevolezza che un mercato «senza forme interne di solidarietà e di
fiducia reciproca” non può pienamente espletare la propria funzione
economica. Ed ancora si precisa che
occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità
tali
«che
includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali,
nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal
coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune....Al tempo
stesso, è bene far sì che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà
che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più
coordinati, s’incontrino. »
Tuttavia
la disperazione sociale, la miseria, l'isolamento non vivono solo altrove: “Ci sono periferie che si trovano vicino a
noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia.” Un richiamo forte
e diretto alla crescita della miseria ed
alla caduta della solidarietà che hanno investito anche la parte del mondo in
cui viviamo. Si tratta di
affermazioni che aprono un ampio e rinnovato terreno di confronto con una parte
del pensiero della sinistra contemporanea; una discussione dalla quale
potrebbero scaturire importanti elementi programmatici per l'insieme delle
forze di progresso.
Nell'Enciclica viene condannato il populismo, anche se non
mancano alcune distinzioni:
I gruppi populisti chiusi deformano la parola
“popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la
categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è
quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che
è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad
essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da
altri, e in tal modo può evolversi. “
Il
papa parla al mondo e sarebbe assai riduttivo leggere le sue affermazioni nella chiave della politica
italiana. Tuttavia- come è stato ricordato- nei modelli contemporanei di
populismo è essenziale il richiamo alla comunità primordiale, precedente
l'ordinamento giuridico, naturalmente virtuosa e dotata di valori propri
offuscati dalle artificiose distinzioni giuridiche e dalle elites al potere. [1] Una radice presente nella tradizione politica
del cattolicesimo italiano, concepita per distinguersi dalla concezione
marxista della “classe”: non a caso il soggetto politico fondato da don Luigi Sturzo nel gennaio 1919
si chiamava partito popolare italiano.
Oggi però la parola populismo è
diventata l'insegna di leader che utilizzano le pulsioni alla chiusura a chi
viene da “fuori” e la paura di declassamento sociale per operazioni politiche
fondate sull'odio e sulla chiusura all'interno dei recinti limitati ed
apparentemente rassicuranti. Non a caso
esplicitamente l'Enciclica
denuncia la paura che deriva dalla sensazione che:
.“Ciò che proviene di là non è affidabile,
perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. È il
territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo. Di
conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il
mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono
più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano
semplicemente “quelli”. Riappare «la tentazione di fare una cultura dei muri,
di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro
con altre culture, con altra gente. “
Il
razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è
sempre in agguato. Le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro
del mondo, ma nelle società occidentali
si è spesso smarrito il senso del valore
morale, politico e sociale dell'accoglienza. La risposta alla crisi del
rapporto tra i ricchi ed i poveri del mondo,
che l'Enciclica propone, citando la parabola del buon samaritano ci
richiama alle nostre responsabilità individuali e collettive:
” In questo momento, chiunque non è brigante
e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle
qualche ferito.”
Ciascuno
di noi in questo angosciante tempo di
pandemia, che sembra travolgere ogni quotidiana certezza del vivere, si
sente ferito o porta un ferito sulle spalle. Ed a nessuno è consentita
l'indifferenza.
Mi
sia consentita un'ultima osservazione, questa volta esprimendo un dubbio. Nel
testo si sottolinea
che
la connessione digitale rischia di non unire l'umanità, di non realizzare il “ bisogno di gesti fisici, di espressioni del
volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle
mani, rossore, sudore... tutto ciò (che)
parla e fa parte della comunicazione umana.
Le nuove tecnologie della comunicazione, il cui uso la pandemia ha potentemente incrementato, espongono senza dubbio a rischi, ma al tempo stesso aprono infinite potenzialità di miglioramento della condizione delle donne e degli uomini. Non bisogna averne paura, ma introdurre da subito regole di gestione atte ad impedire che esse divengano strumento di nuove diseguaglianze e nuove povertà. Dopo la pandemia non si tornerà al mondo di prima: si realizzerà probabilmente anche un radicale salto tecnologico, rispetto al quale l'atteggiamento produttivo sarà di coglierne i vantaggi e di indirizzarlo verso usi vantaggiosi per l'umanità. Ancora una volta la verità è che la tecnologia in sé non è né buona né cattiva: sono le scelte che la politica compie che ne fanno strumento di progresso o arma per diffondere nuove ingiustizie.
[1]Nicola
Colaianni Populismo, religioni, diritto, sulla rivista Questione giustizia 1 2019
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