La rivolta dei bambini contro la schiavitù nei campi di cacao

Chi penserebbe che dietro la dolcezza di una barretta di cioccolato potrebbe celarsi una storia di sfruttamento del lavoro minorile? Chi sospetterebbe mai che dietro la golosità di un cioccolatino, regalato ad un bimbo per farlo felice, ci possano essere la fatica e gli stenti di tanti altri bimbi?
Eppure la triste realtà è davvero amara ed è tornata alla
ribalta grazie ad una class action intentata da un gruppo di otto lavoratori
bambini, sfruttati nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, le stesse che
forniscono materia prima alle più grandi multinazionali del cioccolato: Nestlé,
Cargill, Barry Callebaut, Mars, Olam, Hershey e Mondelēz.
Reclutati nel Mali, quando erano ancora piccoli, sono stati
privati dei documenti per evitare che fuggissero e costretti a lavorare senza
alcuna retribuzione nelle piantagioni; alle loro famiglie, i promessi introiti
non sono mai arrivati perché la realtà è stata ben diversa: una nuova,
contemporanea, schiavitù.
Un lavoro duro, mal pagato o di assoluto sfruttamento senza
retribuzione, che ha segnato questi ragazzi nella mente e nel corpo, in diversi
portano i segni delle ferite causate dai macheti usati per aprire le cabosse e
non si conoscono gli effetti dei pesticidi che hanno dovuto usare per
deforestare il territorio.
L’accusa per le multinazionali del cioccolato è di aver
approfittato consapevolmente del lavoro illegale dei bambini nel Paese che,
stando ai dati della
FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura,
produce il 45% del cacao al mondo.
La class action, la prima del suo genere negli Stati Uniti,
è stata indetta a Washington per conto di questi bambini dall’ International Rights Advocates (IRA), una organizzazione
specializzata nell’assistenza legale internazionale alle vittime di soprusi, da
tempo impegnata a combattere le terribili condizioni del lavoro minorile in
Africa.
Le aziende sono accusate, inoltre, di aver deliberatamente
“assunto” bambini per lavorare nei campi, e non adulti, per avere minori spese
e realizzare maggiori guadagni.
Queste stesse aziende, nel 2001, si erano impegnate ad
«eliminare gradualmente» il lavoro minorile, un obiettivo che doveva essere
raggiunto nel 2005, ma che non solo non è mai stato rispettato ma anzi ha visto
slittare la scadenza al 2025.
Le norme per garantire la provenienza dei prodotti e la loro
certificazione ci sono già, parliamo delle certificazioni Fairtrade, cioè
solidali, che assicurano al produttore e ai dipendenti prezzi
"giusti" e tutela del territorio ma solo il 7% del cacao smerciato a
livello globale rispetta questi canoni.
Il resto si perde tra le maglie dell’ingiustizia e
dell’illecito profitto, visto che la stragrande maggioranza si rifiuta di
adeguare il prezzo di mercato (oggi circa 1,78 dollari al chilo) al reddito
minimo di sussistenza dei coltivatori ivoriani, pari a 2 dollari e 50 al
giorno.
A conti fatti, dunque, così come denuncia un’inchiesta del
Guardian, scaturisce che solo il 6% del valore di una barretta di cioccolato
arriva nelle tasche dei contadini africani, il 33% arricchisce i commercianti
all’ingrosso e il 44% i grandi marchi.
Da parte degli accusati solo Cargill e Nestlè hanno ribadito l’impegno a combattere il lavoro minorile, dagli altri un pesante silenzio intriso di amara “complicità”. A noi consumatori il suggerimento di prestare più attenzione alle etichette e di cercare prodotti solidali, costeranno un po’ di più ma ci assicureranno una provenienza certificata e lontana dalle politiche dello sfruttamento minorile, faremo sorridere un bambino e saremo consapevoli di non averne fatti piangere tanti altri.
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