La riuscita integrazione delle mafie extracomunitarie in Italia

Economia | 24 aprile 2016
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La sala ascolto della Procura di Reggio Calabria pochi giorni prima del Natale 2009 capta in macchina questo dialogo tra 'ndranghetisti che si vantano della prova di forza condotta nei giorni precedenti con la mala albanese: «Ammazzatemi a me a questa sera, no, visto che sono qua, quale problema c' è, gli ho detto, se siete uomini fatelo, no?».
Nel racconto intercettato, ricostruisce la Dda, c' è il sapore della sfida - da presunti "uomini duri", come nella più classica rappresentazione hollywoodiana della vecchia mafia siciliana - lanciata da una cosca di Isola Capo Rizzuto (Crotone) alla criminalità organizzata albanese, che si sentiva tradita nel commercio di una partita di droga. La prova di forza, alla quale era però seguita una saggia e al tempo stesso obbligata mediazione, a qualcosa era servita: evitare una guerra che avrebbe lasciato cadaveri lungo la strada. Da una parte e dall' altra.
Albanesi e nigeriani fanno paura Altro scenario, questa volta siciliano. Marzo 2016, siamo a Palermo, dove si svolge il processo contro quattro nigeriani, accusati di tentato omicidio, estorsione e spaccio di droga, con l' aggravante della modalità mafiosa. I nigeriani sono in affari con Cosa nostra e assoggettati alle sue regole ma con moti di ribellione "indipendentista" sempre più evidenti, forti come sono di risorse finanziarie e di una cultura di violenza e omertà che non sono inferiori a nessuno. Guadagnano dunque strada gli affiliati alla "Black Axe" (l' Ascia nera) o alla "Eiye", tutti gruppi criminali comunque riconducibili ai cosiddetti "secret cults" (culti segreti), tanto che i mafiosi palermitani richiamano l' un con l' altro la necessità di stare in guardia dai "turchi". Così li chiamano i nigeriani, che nella notte del 19 gennaio 2014 non si fecero scrupolo di massacrare per le strade del popolare quartiere Ballarò, davanti a centinaia di testimoni, un connazionale a colpi di machete.
L' era della contaminazione Benvenuti nell' era della contaminazione mafiosa che, per volere delle associazioni nostrane, talvolta si declina in integrazione, talaltra in contrapposizione. Sempre e comunque nel nome degli affari, dominati dal traffico miliardario della droga. Diversi sono gli atti giudiziari da cui risultano le affiliazioni di soggetti stranieri alle associazioni mafiose italiane, così come cominciano a consolidarsi modelli mafiosi nuovi, caratterizzati da modalità che, pur inquadrabili nel paradigma cristallizzato dall' articolo 416 bis del codice penale, mostrano i segni di contaminazioni derivanti da culture criminali e tipologie delinquenziali proprie di altri contesti etnico-sociali. L' analisi della Dnaa Di questa miscellanea criminale sono ben consci (e preoccupati) i magistrati. Per tutti a parlare - anzi, a mettere le cose nero su bianco - ci ha pensato la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) nella relazione presentata dal capo della Procura Franco Roberti il 3 marzo. «Sulla scorta delle concrete emergenze investigative e delle conseguenti valutazioni giudiziarie - scrive il sostituto procuratore Giovanni Russo - sembra confermata la tendenza che vede i criminali stranieri affrancarsi dal ruolo subordinato di manovalanza al servizio delle organizzazioni endogene e tradizionalmente mafiose, per attingere livelli sempre più elevati di partecipazione qualificata ai sodalizi nostrani, ovvero per acquisire capacità di gestione semi-autonoma di specifiche attività illegali».
Le valutazioni della Dia A furia di sentirci raccontare che la lotta alle mafie fa passi in avanti si perde di vista la realtà che "procede" (le dinamiche) e che "precede" (le analisi e le strategie repressive). La conferma arriva dalla relazione della Dia (la Direzione investigativa antimafia) guidata dal generale Nunzio Antonio Ferla, relativa al 1° semestre 2015, presentata il 27 gennaio al Parlamento. Non solo - infatti - le mafie italiane continuano a imperversare ma da un po' di tempo a questa parte anche le mafie straniere si aggiungono allo scenario criminale, non più con un ruolo di mero sostegno a Cosa nostra, 'ndrangheta, casalesi e Sacra corona unita ma di vero e proprio protagonismo criminale. Le organizzazioni mafiose autoctone e i gruppi criminali stranieri non si muovono su piani necessariamente contrapposti - si legge nella relazione della Dia - ma manifestano sempre più frequentemente convergenze in cui questi ultimi diventano strumentali a strategie criminose di più ampia portata.
È il caso dell' indagine "Aemilia", condotta dalle Dda di Bologna e Brescia contro la cosca Grande Aracri di Cutro (Catanzaro). Le investigazioni hanno svelato il ruolo di un uomo e di una donna di origini tunisine pienamente inseriti nelle attività criminose e parti attive nelle operazioni di reimpiego dei proventi illeciti. Parallelamente, due prestanome cinesi erano preposti alla gestione di un locale notturno, mentre un albanese concorreva nelle attività estorsive. «Ne emerge uno spaccato significativo di una compenetrazione criminale multietnica che vede i criminali stranieri superare, a volte - si legge nella relazione - la posizione di meri gregari nell' ambito dell' organizzazione». Quanto ai cinesi - i più restii alla contaminazione con le mafie indigene delle quali fungono ancora da spalla, a partire dalla camorra - la Dia il 14 maggio 2015 ha confiscato, su decreto del Tribunale di Brescia del 10 marzo, sei immobili, quote societarie e disponibilità finanziarie a soggetti condannati per lo sfruttamento della prostituzione, per un valore di 1,82 milioni. Non è il primo provvedimento e non sarà l' ultimo.
È nel paragrafo sui profili evolutivi che deve accentrarsi l' attenzione dell' opinione pubblica. La criminalità straniera, secondo gli analisti della Dia, ha abbandonato il ruolo di manovalanza subordinata che ne aveva caratterizzato la prima fase, andando ad integrare e talvolta a sostituire i sodalizi autoctoni nella gestione di alcuni mercati illeciti. Emblematica di questo più evoluto potenziale criminogeno è l' operazione "Vrima", che ha consentito agli investigatori della Dia di Bari di scoprire una raffineria di eroina, allestita e gestita sul suolo italiano da criminali albanesi.
Doppio riscontro: reati e detenzioni La teoria si sposa con la pratica. Nel periodo luglio 2014/giugno 2015 i delitti di mafia ascritti a cittadini stranieri sono stati complessivamente 3.593, di cui 207 per associazione mafiosa e ben 1.424 per narcotraffico). La parte più consistente è nigeriana. «Se in passato soggetti di nazionalità africana tendevano ad inserirsi in contesti criminali già esistenti, alimentando gli organici di gruppi italiani o multietnici - scrive ancora il pm Russo - nella recente attualità sembra che le consorterie criminali abbiano assunto la sembianza di vere e proprie associazioni per delinquere, utilizzando modus operandi tipici delle mafie nostrane».
Se si cambia prospettiva e si entra negli istituti di detenzione e pena, si scopre che gli stranieri rappresentano il 32,6% del totale dei condannati, il 36,7% dei detenuti presenti e il 45% del totale degli entrati in carcere. I dati raccolti nel dossier Idos (Dossier statistico immigrazione) mostrano che nel 2012, su un totale di 933.895 denunce, 642.992 erano a carico di cittadini italiani e 290.903 di stranieri. Nel 2013 (ultimo dati analitico disponibile per un raffronto), 657.443 erano nei confronti di cittadini italiani, mentre 239.701 nei confronti di stranieri. La criminalità di "importazione" raggiunge, in sostanza, una quota tra il 26% e il 31% e il del totale. Le prime 10 comunità - Albania, Marocco, Romania, Nigeria, Tunisia, Cina, Bangladesh, Egitto, Germania e Pakistan - rappresentano il 67,29% del totale degli imputati stranieri e le prime tre nazionalità (Albania, Marocco e Romania) ne rappresentano il 38,9%.
In altre parole: in una società multietnica, la criminalità non può fare eccezione.(Il Sole 24 Ore)
 di Roberto Galullo

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