La rinnovata crisi nei Balcani tra Serbia e Kosovo 

L'analisi | 12 gennaio 2023
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1.Nubi minacciose tornano sui Balcani

Una seconda preoccupante crisi nel cuore dell’Europa continentale già insanguinata dalla aggressione russa alla Ucraina? I rischi che la tensione nella penisola balcanica (ri)sfoci nelle guerre interetniche degli anni ’90 del secolo scorso ci sono tutti. Ad un tiro di schioppo dall’Italia. Le cancellerie europee non nascondono la preoccupazione, Stati Uniti e Russia seguono gli eventi, padrini i primi del Kosovo e la seconda della Serbia. La Serbia oscilla – ma prima o poi dovrà decidere da che parte stare – tra la consapevolezza di essere un paese europeo e il suo legame storico con la Russia. Mosca non sarebbe affatto dispiaciuta, anzi potrebbe essere interessata, all’apertura di una nuova crisi in Europa centro-meridionale. Ancora più a occidente dell’Ucraina.
Ma perché nei Balcani, teatro dei massacri negli anni ’90 seguiti allo sfaldamento della Jugoslavia, tornano nazionalismi, rivendicazioni, contrasti etnici e religiosi (per la verità mai del tutto sopiti)?
Cerchiamo di capire qualcosa in più con il “focus” che segue in queste pagine. Centrato sul Kosovo, sulla precaria esistenza di questo ministato, sul perché delle rivendicazioni della Serbia.
Cominciamo dalla localizzazione geografica. Dove siamo? Il Kosovo confina con Serbia a nord e ad est, Macedonia del Nord a sud, Montenegro ed Albania ad ovest. Capitale Pristina, città di poco più di 200.000 abitanti. Si estende su 10.877 chilometri quadrati. Per un confronto teniamo presente che la Sicilia ha una superfice di 25.832 chilometri quadrati. Il Kosovo ha la stessa estensione dell’Abruzzo. Ecco perché lo definiamo ministato. Popolato in larghissima prevalenza dai kosovari, albanesi a tutti gli effetti e sensibili al sogno della “Grande Albania”. Fino al 17 febbraio 2008 il Kosovo costituiva parte integrante della Serbia. A quel giorno risale la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, ovviamente non riconosciuta dalla Serbia. La situazione di fatto dunque può riassumersi nella seguente definizione: il Kosovo è un “territorio autogovernato sotto il protettorato delle Nazioni Unite, rivendicato dalla Serbia”. Veniamo alla posizione dell’ONU. Le Nazioni Unite amministrano il territorio dal 1999 tramite la missione UNMIK. Riconoscono l’indipendenza del Kosovo 98 paesi membri dell’ONU su 193 alla data del 2020. Quanto all’Unione Europea, è presente sul territorio con la missione EULEX e, sempre alla data del 2020, il Kosovo è riconosciuto da 22 paesi UE su 27, tra cui l’Italia. Non lo riconoscono - preoccupati perché possa costituire un pericoloso precedente per propri movimenti secessionisti interni - Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna. Il Kosovo è una repubblica parlamentare (il Parlamento unicamerale è composto da 120 membri) sotto Protettorato internazionale UNMIK con un Rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per il Kosovo in questo periodo nella persona dell’afghano Abdul Zahir Tanin. Capo dello Stato è la quarantenne signora Vjosa Osmani. Primo ministro Albin Kurti.
La posizione della Serbia si può riassumere così: il governo di Belgrado non riconosce l’indipendenza del Kosovo. Rivendica l’intero territorio kosovaro come parte integrante dello stato serbo ossia come “Provincia autonoma di Kosovo e Metochia”. Sul territorio del Kosovo accanto ai circa 1,7 milioni di albanesi vive una minoranza di serbi stimata in centomila/centoventimila cittadini. Musulmani sunniti gli albanesi, cristiani ortodossi i serbi. Il Kosovo è, in conclusione, uno Stato a riconoscimento limitato.



2.Un po’ di storia

Alla fine della Prima Guerra Mondiale la Serbia venne unita agli altri territori già asburgici nel nuovo Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, in seguito rinominato Regno di Jugoslavia. Il controllo del Kosovo e della Metohija, ora riuniti, passava alla Serbia, il cui monarca Alessandro I avviò contatti con la Turchia al fine di avere mano libera nella campagna di repressione che intraprese contro la resistenza alle annessioni opposta dai Kaçaks albanesi del Kosovo e dai Komitadjis in Macedonia.
A seguito dell'invasione della Jugoslavia condotta nell'aprile del 1941 dagli eserciti tedesco e italiano, le rispettive forze d'occupazione si divisero il controllo della provincia del Kosovo. Il ricco nord minerario rimase incluso, come in precedenza, nella Serbia occupata dalla Germania, mentre il sud fu incorporato all'Albania, sotto occupazione italiana (Provincia di Pristina). Nel 1943 la caduta del fascismo in Italia portò all'occupazione nazista. Il gerarca Heinrich Himmler, capo delle SS, si adoperò per costituire, impiegando essenzialmente personale albanese, la 21.ma Divisione Waffen SS da montagna Skanderbeg, la quale ebbe come primo obiettivo il controllo del territorio da parte delle forze tedesche. Le azioni della divisione SS Skanderbeg condussero al massacro di diverse migliaia di cittadini albanesi come risposta alle forze ribelli partigiane albanesi che si nascondevano nelle montagne. Dopo numerose sollevazioni dei partigiani albanesi guidati da Fadil Hoxha in Kosovo e Enver Hoxha in Albania, alla fine del 1944 il Kosovo fu liberato e divenne una provincia serba nella nuova federazione socialista jugoslava.
Lo status costituzionale del Kosovo nella Jugoslavia guidata con pugno di ferro dal maresciallo Tito era di provincia autonoma della Serbia (come la Voivodina). Uno status di grande autonomia (dal 1963 e soprattutto dal 1974) ma non paritario con le sei repubbliche costituenti la Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia) le quali avevano il diritto costituzionale di secessione. Il periodo socialista vide la crescita della popolazione albanese, che triplicò passando dal 75 per cento a oltre il 90 per cento del totale. Quella serba invece ristagnava, calando dal 15 all'8 per cento. Le condizioni economiche depresse della provincia, nonostante i tentativi del governo di favorire l'industrializzazione e la crescita del capitale umano (con l'apertura dell'università di Pristina) portavano i serbi del Kosovo a spostarsi verso altre regioni della federazione jugoslava.
Dal canto suo l'etnia albanese aveva manifestato chiedendo invano per il Kosovo lo status di repubblica nel 1968 (ottenendolo de facto ma non de jure nel 1974) e di nuovo nel marzo 1981 quando ebbero luogo le “primavere di Pristina” (1981-82) segnate da un'escalation di violenza e di attentati contro le istituzioni federali per le precarie condizioni in cui versava la regione e spingeva per una maggiore autonomia, a pochi mesi dalla morte di Tito.
L'ascesa al potere in Serbia di Slobodan Milošević, che si era accreditato come leader nazionalista, coincise con la revoca dell'autonomia costituzionale del Kosovo, il bilinguismo serbo/albanese, e l'avvio di una politica di riassimilazione forzata della provincia, con la chiusura delle scuole autonome di lingua albanese e la sostituzione di funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone ritenute fedeli.
Inizialmente l'etnia albanese reagì alla perdita dei suoi diritti costituzionali con la resistenza nonviolenta, guidata dalla Lega Democratica del Kosovo (LDK) di Ibrahim Rugova. Gli albanesi boicottarono le istituzioni e le elezioni ufficiali e ne stabilirono di parallele, dichiararono l'indipendenza della Repubblica di Kosova (2 luglio 1990), riconosciuta solo dall'Albania. Adottarono una costituzione (settembre 1990) e tennero un referendum sull'indipendenza (1992), che registrò l'80 per cento dei votanti con un 98 per cento di sì, pur senza riconoscimento internazionale.
Dal 1995, dopo la fine dell’atroce conflitto interetnico in Bosnia-Erzegovina, il governo serbo iniziò una guerra di pulizia etnica e una parte degli albanesi kosovari scelse la lotta armata indipendentista, guidata dalla Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UCK), anche a seguito dell'afflusso di armi dall'Albania caduta nell'anarchia nel 1997-98. Alla spirale di violenza il governo di Belgrado rispose con il pugno di ferro, sentendosi legittimato dalla mancanza di ogni riferimento al Kosovo nel quadro degli accordi di Dayton per la fine della guerra in Bosnia.
La repressione portò a vari massacri e alla morte di almeno 11.000 civili con distruzione di molte abitazioni private, scuole e altri edifici, incluse moschee. Una parte della popolazione albanese appoggiò la guerriglia, mentre circa 800.000 civili cercarono rifugio attraversando il confine con l'Albania e la Macedonia. I paesi NATO intervennero con l'operazione “Allied Force” in protezione della popolazione albanese ma, contravvenendo alla Carta dell'Onu, con la violazione della sovranità serba effettuata tramite bombardamenti sul paese serbo. La pulizia etnica fu arrestata e con gli accordi di Kumanovo la Serbia accettò di ritirare ogni forza armata dal Kosovo.
In base alle Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 1244 del 1999 il Kosovo fu provvisto di un governo e un parlamento provvisori e posto sotto il protettorato internazionale UNMIK e NATO. Nonostante la normalizzazione, l'irrisolta questione dello status portò a tensioni come quelle scoppiate nel marzo 2004 in una rivolta in cui vennero attaccate oltre trenta chiese e monasteri cristiani in Kosovo, con l'uccisione di almeno venti persone e l'incendio di decine di abitazioni di serbi nell'arco di cinque giorni (oltre sessanta tra chiese e monasteri erano stati distrutti nei cinque anni precedenti a questi disordini). Tali moti e la morte del presidente Ibrahim Rugova nel gennaio del 2006 spinsero ad avviare negoziati sullo status finale sotto la guida del mediatore ONU Martti Ahtisaari per la definizione dello status futuro della provincia serba. Il “Piano Ahtisaari” per una indipendenza guidata, tuttavia, fu rifiutato da entrambe le parti.
Le elezioni del 2007, boicottate dai serbi del Kosovo, portarono a un governo di grande coalizione guidato dall'ex capo paramilitare dell'UCK, Hashim Thaçi, che, scaduti a dicembre 2007 il termine dei negoziati, iniziò a preparare il passaggio unilaterale all'indipendenza. Allo stesso tempo l'Unione Europea lanciò una missione civile per l'ordine pubblico e lo Stato di diritto ("EULEX"), in affiancamento alla missione “KFOR” sotto egida NATO. La dichiarazione unilaterale d'indipendenza della Repubblica del Kosovo venne adottata, come abbiamo scritto all’inizio, il 17 febbraio 2008 dal Parlamento di Pristina.
Il discorso pronunciato dal premier parla di una Repubblica democratica, secolare e multietnica guidata da principi di non discriminazione e uguale protezione da parte della legge. Il governo serbo si è affrettato a dichiarare illegittima ed illegale tale affermazione e che mai riconoscerà la ex provincia come indipendente. Il Kosovo è stato poi riconosciuto dalla maggior parte degli Stati occidentali e dei paesi membri dell'Unione Europea, nonostante la mancanza di una linea unica tra questi ultimi.
L'Italia ha riconosciuto il Kosovo il 21 febbraio 2008. Nel 2015 il Kosovo è riconosciuto come indipendente da circa la metà degli Stati membri ONU. All'interno del Consiglio di Sicurezza si oppongono Russia e Cina. A livello di diritto internazionale resta dunque in vigore la risoluzione 1244/1999.
Per quanto riguarda l'effettività le istituzioni di Pristina, c’è da precisare che controllano la maggior parte del territorio del Kosovo a eccezione dei quattro comuni a maggioranza serba a nord del fiume Ibar (Kosovo del Nord), in cui Belgrado continua a finanziare e sostenere le istituzioni serbe.
Una nuova Costituzione del Kosovo è stata approvata il 9 aprile 2008 ed è entrata in vigore il 15 giugno 2008, controfirmata da EULEX. Con la Costituzione alcuni poteri esecutivi tenuti dall'UNMIK passano al governo kosovaro. Nella Costituzione si sancisce che il Kosovo sarà uno Stato laico e rispetterà la libertà di culto garantendo i diritti di tutte le comunità etniche. Le forze internazionali, tuttavia, continueranno a mantenere le proprie truppe sul territorio. Nella stessa data è avvenuto anche il passaggio di consegne definitivo dalla missione UNMIK alla missione EULEX.
Il 22 luglio 2010, in un parere, la Corte internazionale di giustizia ha affermato che la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo non infrange di per sé il diritto internazionale né la risoluzione 1244 dell'ONU. Il parere è criticato perché la risoluzione subordina la soluzione della crisi kosovara al rispetto della sovranità serba. Il 9 settembre 2010 è stata approvata alle Nazioni Unite una risoluzione preparata dalla Serbia e dall'Unione Europea che ha aperto la strada ai negoziati tra Belgrado e Pristina. Il 19 aprile 2013 è stato firmato un accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina, promosso dall'Unione Europea. Con tale accordo Belgrado riconosce l'estensione dell'autorità di Pristina anche sul Kosovo del Nord e ne smantella le istituzioni parallele in cambio di una autonomia non-territoriale per i comuni a maggioranza serba.
Il 14 dicembre 2018 il Parlamento a Pristina ha approvato all'unanimità la proposta della creazione delle forze armate del Kosovo, con l'appoggio del governo degli Stati Uniti d'America.
Arriviamo così ai mesi scorsi ed alla cosiddetta “Crisi delle targhe”. Nel Kosovo del Nord tra il 2021 e 2022 si è fatta spazio una crisi sia diplomatica sia militare ai confini tra la Serbia ed il Kosovo a causa delle proteste dei serbi kosovari per le targhe automobilistiche dopo che le autorità kosovare hanno reso fuori legge le auto circolanti con targa serba e minacciato multe salate a chi non si sarebbe attenuto alle disposizioni. La prima crisi si registra nel mese di settembre del 2021 dopo aver concluso l'accordo a Bruxelles. Altre fonti di tensione riguardano le problematiche burocratiche tra i due Paesi. Si sono verificati episodi di scontri armati tra la comunità serba e la polizia kosovara. [Notizie, dati e date sono tratti da Wikipedia alla voce “Kosovo”].
3.La posizione dell’Italia sulla situazione in Kosovo
Un equilibrio dunque piuttosto precario caratterizza il Kosovo e i suoi rapporti sia con la Serbia che con la minoranza kosovara di etnia serba.
Tuttavia ancora fino al 2020 la situazione, per quanto deteriorata, non appariva compromessa ed anzi – in un contesto di futura comune adesione sia della Serbia che del Kosovo all’Unione Europea – si facevano altri tipi di ragionamenti. Assai meno bellicosi di quelli delle scorse settimane.
Illuminante a questo riguardo è la lettura dell’intervento di Nicola Orlando, ambasciatore d’Italia a Pristina, con il titolo “Europa e Kosovo: il momento delle scelte e il ruolo dell’Italia”. Lo pubblica il 6 luglio 2020 il CeSPI, Centro Studi di Politica Internazionale, nel quadro del dibattito “La UE e i Balcani: la scommessa dell’allargamento”. Sostiene il diplomatico italiano:
“1.Quando, a fine 2019, Macron pose il veto all’avvio dei negoziati di adesione alla UE di Albania e Macedonia del Nord, la notizia fu accolta in Kosovo come conferma di radicati sospetti sull’inaffidabilità di Bruxelles. La luna di miele tra Europa e Pristina si era guastata già a fine 2018, quando l’Alta Rappresentante Federica Mogherini non aveva rigettato l'ipotesi di uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia evocata dai Presidenti Thaçi e Vučić come possibile elemento di un accordo di normalizzazione tra i due paesi. Tale prospettiva suscita apprensione tra chi vi intravede la messa in discussione della sovranità e dell’indipendenza conseguite con la guerra di liberazione del 1998-99.
La percepita duplicità europea trova il proprio emblema nell’annosa questione della liberalizzazione dei visti. Il Kosovo resta ad oggi l’unico paese dei Balcani Occidentali la cui popolazione è di fatto isolata dal continente, nonostante la Commissione Europea abbia accertato il soddisfacimento di tutti i requisiti formali per la revoca dell’obbligo di visto d’ingresso [rapporto della Commissione COM(2018) 543 final]. Parigi e L’Aja soprattutto sono additate come responsabili dello stallo, ma il malumore della popolazione, cavalcato da tutte le forze politiche, non fa distinzioni e viene rivolto contro l’intera Unione.
Questi sentimenti sono a volte ricambiati dalle istituzioni europee, dove si registra forte delusione per iniziative unilaterali come la fuga in avanti della trasformazione delle forze di sicurezza kosovare in forze armate vere e proprie (in contrasto con la Risoluzione ONU 1244/1999) o l’imposizione di aggressivi dazi sulle importazioni dalla Serbia (e dalla Bosnia Erzegovina), revocati solo dopo intense pressioni americane ed europee. A poco valgono le spiegazioni di Pristina che le forze armate sono state create con l’assenso statunitense e in piena trasparenza, e i dazi introdotti come rappresaglia al boicottaggio serbo dei tentativi kosovari di accedere alle organizzazioni internazionali (Interpol, nello specifico). Per la leadership del Kosovo, la questione dello status internazionale del paese è stata chiusa con la dichiarazione d’indipendenza del 17 febbraio 2008 e la sua “ratifica” da parte della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2010. Ma per l’Unione Europea, che include cinque “non-recognizers” (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna), essa resta collegata al processo di normalizzazione “tra Pristina e Belgrado”.
2. Non stupisce dunque che il Kosovo cerchi rifugio nella memoria del ruolo chiave svolto dagli Stati Uniti nella guerra di liberazione. I leader americani di allora, specialmente Bill Clinton e Madeleine Albright, sono ancora oggi venerati (si pensi alla statua dell’ex Presidente americano che torreggia sul Bulevardi Bill Klinton a Pristina). La popolazione vede dogmaticamente negli USA il proprio partner più affidabile e vi assegna un peso superiore al ruolo effettivamente esercitato oggi in Kosovo. Al riguardo, l’Ufficio della UE a Pristina non manca di sottolineare che oltre il 70% dell’assistenza internazionale nel 2019 è venuta dall’Unione e i suoi Stati membri. Sono gli europei, inoltre, a fornire oggi il grosso delle forze internazionali stanziate in Kosovo sotto il cappello NATO. L’Italia, che detiene per la settima volta consecutiva (undici in totale) il comando della missione KFOR, è il primo “security provider” nel paese, un dato che stupisce non solo gli interlocutori kosovari, ma persino gli italiani.
I Balcani Occidentali sono del resto geograficamente situati in Europa, ed europeo non può che essere il loro futuro geopolitico. In effetti, benché il quadrante veda crescere la competizione tra sfere d’influenza occidentale, turca, russa e persino cinese, almeno per ora lo sguardo del Kosovo sembra fermamente rivolto ad ovest. I kosovari accettano forse a fatica di non poter ambire a divenire il 51mo Stato a stelle e strisce, ma, sentendosi culturalmente europei (nella variante mediterranea), e avamposto europeo prima dell’Oriente, si risentono per la presunta alterigia di Bruxelles.
3. La nuova tornata del dialogo facilitato dalla Ue tra leader serbi e kosovari è iniziata il 12 luglio scorso, dopo un lungo iato che ha ulteriormente indebolito il percepito peso di Bruxelles e creato uno spazio di opportunità colto dall’Amministrazione statunitense. L’azione diplomatica dell'Inviato Speciale Richard Grenell, come già quella di Mogherini, ha fatto leva sulla consolidata sintonia tra Thaçi e Vučić puntando a creare, attraverso intese di natura economica, nuovi presupposti per un accordo più generale. Non condivisa dall’allora Primo Ministro reggente Albin Kurti, l’iniziativa si è riverberata sul piano politico interno. Essa si è comunque arenata a poche ore da uno storico incontro tra i Presidenti Thaçi e Vučić a Washington, di fronte alla divulgazione della richiesta di messa in stato d’accusa del primo da parte del Procuratore Speciale de L’Aja, ma non è del tutto evaporata. Un nuovo vertice tra i leader dei due paesi nella capitale americana, dichiaratamente incentrato sul rilancio della collaborazione economica tra Kosovo e Serbia, è stato annunciato per inizio settembre.
4. Precedute da un simbolico incontro virtuale organizzato da Parigi, sotto egida tedesca e francese, le prime riunioni facilitate dalla UE tra le delegazioni kosovara e serba hanno segnato la ripresa del dialogo, fortemente auspicata dall’Italia. In questa fase ancora iniziale delle trattative, le dichiarazioni dei leader dei due paesi sembrano puntare ad obiettivi diversi. Il Primo Ministro kosovaro ha ribadito che il dialogo può solo concludersi con il reciproco riconoscimento tra i due paesi, mentre i comunicati serbi restano ancorati al linguaggio della “normalizzazione” dei rapporti. Il Kosovo vi partecipa con alle spalle uno scenario politico non compatto e nel mezzo di una difficile lotta contro la pandemia. I sentimenti della popolazione kosovara appaiono tiepidi, ridotte sono le aspettative, e non mancano voci che polemicamente sottolineano l’appartenenza tanto dell’Alto Rappresentante Josep Borrell quanto del suo delegato per il dialogo Miroslav Lajčák a paesi “non-recognizers”.
5. L’aspirazione europea (ed atlantica) del Kosovo è fuori discussione, ma Pristina si dichiara non disposta a pagare qualunque prezzo per entrare nel club, soprattutto se esso implica rinunce territoriali o la rimessa in discussione della propria sovranità. Ancorché non sia possibile scindere il processo di integrazione europea del Kosovo dall’andamento del dialogo con la Serbia, mantenere viva la prospettiva europea diviene dunque prioritario per impedire che la crescente frustrazione della popolazione profili una deriva orientale del paese o inneschi fermenti regionali. Situato sulla faglia tra aree di influenza centrifughe, il Kosovo può alternativamente costituire fattore di stabilità o amplificare le tensioni che da sempre connotano i Balcani Occidentali. Negli ultimi mesi, caratterizzati da due crisi di governo, dalla convocazione di Thaçi a L’Aja e da serie difficoltà nella gestione del Coronavirus, il Kosovo ha però dimostrato resilienza. Situato nel cuore di un’area strategica per la sicurezza del continente, il paese figura a piena ragione tra le principali priorità della politica estera e di sicurezza europea.
6. L’aspettativa europea è che la leadership kosovara mantenga dritta la barra del processo di riforma ai fini della piena acquisizione e attuazione dell’acquis communautaire, continui a combattere attivamente corruzione e criminalità organizzata e a fare propri non solo le leggi ma anche i valori dell’Europa cui ambisce. Bruxelles e gli Stati membri devono dal canto loro chiarire che il futuro del Kosovo e dei Balcani Occidentali è davvero in Europa. Occorre agire con una voce unica e rinunciare a progetti di nicchia che, inseguendo improbabili ambizioni di leadership continentale, indeboliscono, anziché rafforzare, il peso della UE. Privare il Kosovo di questa prospettiva non può che produrre negativi riflessi interni, accentuare la perdita di fiducia dei giovani nel futuro, e favorire altre sfere d’influenza, facendo il gioco di chi mira a destabilizzare l’uscio di casa nostra.
In termini concreti, come indicato dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte al summit di Zagabria lo scorso maggio (unico tra i leader presenti a sollevare il tema), l’Europa deve innanzitutto accelerare sulla liberalizzazione dei visti d’ingresso. Il differente trattamento riservato al Kosovo rispetto al resto della regione non è più giustificabile, anche considerata l’esigua dimensione del Paese (1,8 milioni di abitanti). Accertato dalla Commissione che il Kosovo presenta tutti i necessari presupposti, la questione appare non più tecnica, bensì squisitamente politica.
7. L'Italia, quale interlocutore privilegiato tanto di Pristina quanto di Belgrado, ha un importante ruolo da svolgere in ambito europeo e bilaterale. Con la tempestiva visita del Ministro Luigi Di Maio in Kosovo a febbraio, all'alba della ripresa del dialogo, abbiamo riaffermato il nostro interesse strategico alla regione, a sostegno dell’azione europea ed in stretto raccordo con Washington. La nostra azione diplomatica è rafforzata dal ruolo dell’Italia in KFOR, attraverso cui fungiamo da garante e cuscinetto tra i due paesi e le due comunità etniche. Tra le responsabilità del Comandante di KFOR figura infatti anche il sostegno al dialogo facilitato con Belgrado, una leva che bene farebbe la UE ad utilizzare con maggiore incisività. Puntiamo intanto ad approfondire i legami bilaterali nei settori economico, culturale ed industriale per agganciare ancor di più il futuro del Kosovo a quello europeo. Il potenziale dell’azione italiana è dimostrato dall'efficace promozione dei contatti operativi tra Pristina e Belgrado sulla risposta al Coronavirus, che continua con positivi risultati pratici da metà aprile 2020. Con il coinvolgimento ed il contributo dell’Italia vi sono tutte le premesse per assicurare che il Kosovo sia fattore di stabilità e progresso per l’intera regione. Sta ora all’Europa cogliere appieno questa opportunità”.

4.E invece… Dal possibilismo agli irrigidimenti

E invece nei mesi di novembre e dicembre del 2022, nel giro di un anno e mezzo, il possibilismo (seppure tra tanti se e tanti ma) delle dosatissime parole che abbiamo letto del nostro capodelegazione a Pristina finisce per mostrare tante crepe e crescita esponenziale di tensioni e irrigidimenti.
Lo scorso 12 dicembre la crisi si infiamma. “Euronews” la racconta così:
“Si avviano rapidamente a diventare un nuovo punto di crisi nel cuore dell'Europa le tensioni tra Kosovo e Serbia nella regione di Mitrovica, un'area in territorio kosovaro ma popolata in maggioranza da serbi.
Dopo una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, Belgrado ha messo l'esercito in stato di preallerta, col presidente Aleksandar Vucic che, dopo aver espresso la determinazione del suo paese a proteggere i serbo-kosovari, ha promesso in televisione di tentare "per un milione di volte di preservare la pace" prima di dare un ordine di intervento alle forze armate.
Ad aggravare le relazioni tra i due gruppi etnici, tesissime sin dalla secessione del Kosovo dalla Serbia, resa possibile dalla tutela degli Stati Uniti e dei paesi europei, è arrivato nei giorni scorsi l'arresto di un ex ufficiale serbo della polizia,
Una vicenda secondaria che tuttavia ha scatenato la rivolta dei serbo-kosovari, che hanno bloccato le strade con camion ed escavatori in segno di protesta per quelle che definiscono violenze e maltrattamenti sistematici contro di loro da parte del governo di Pristina.
Il primo ministro kosovaro Albin Kurti ha liquidato le manifestazioni come mere attività criminali e ha chiesto alle forze della NATO schierate nella regione nell'ambito del contingente KFOR di rimuovere le barricate.
Alla NATO si è rivolto anche il presidente serbo Vucic, che dopo aver denunciato quelli che ha definito attacchi ai diritti della popolazione serba, ha chiesto il permesso di schierare proprie truppe nella provincia settentrionale del Kosovo.
Una richiesta che non ha alcuna possibilità di venire accolta ma che, secondo alcuni osservatori, costituirebbe la premessa di un prossimo scontro destinato a infiammare ancora una volta i Balcani”. (“Serbo-kosovari in rivolta. Belgrado chiede alla Nato il permesso di inviare sue truppe” in “Euronews.com”, 12 dicembre 2022).
5.Analisi e commenti
Sulla situazione ecco l’analisi di Mirko Mussetti su “Limes” intitolata “Alta tensione tra Serbia e Kosovo”, sempre il 12 dicembre 2022:
“Il 9-11 dicembre 2022 i manifestanti serbo-kosovari hanno improvvisato blocchi stradali sulle principali vie di comunicazione nel nord del Kosovo. Il fine dei dissidenti è impedire alle forze speciali di Pristina (Priština/Prishtinë) di dispiegarsi e condurre arresti e operazioni di presidio territoriale nelle municipalità a maggioranza serba attorno al capoluogo Kosovska Mitrovica/Mitrovicë. Nel trambusto si sono verificate sparatorie tra cittadini e forze dell’ordine, nonché l’arresto di un ex poliziotto di etnia serba.
La missione dell’Unione Europea per lo Stato di diritto in Kosovo (EULEX) ha riferito la deflagrazione di una granata stordente contro un proprio veicolo. L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri Josep Borrell ha affermato che «le barricate devono essere rimosse immediatamente dai gruppi serbi del Kosovo. La calma deve essere ripristinata».
Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić ha annunciato che chiederà alla Nato di permettere a Belgrado l’invio di militari e poliziotti serbi nel nord del Kosovo a protezione della comunità serba dell’ex provincia. Nel frattempo, la presidente del Kosovo Vjosa Osmani ha rinviato al 23 aprile 2023 le elezioni locali programmate nella regione per il 18 dicembre 2022.
La Serbia non ha mai accettato l’indipendenza del Kosovo, che tuttora considera come una propria provincia sottratta illegalmente. Di più: il popolo serbo percepisce la storica regione contesa come culla della propria identità, al punto che il principale poema epico serbo alla base della mitopoiesi nazionale (romanticismo ottocentesco) narra le sventure della coalizione cristiana (Regno di Bosnia e Serbia Moravica) impegnata contro l’impero ottomano nella disastrosa battaglia della Piana dei Merli (1389). La celebrazione stessa di una rovinosa e antica sconfitta (decine di migliaia di morti e azzeramento della nobiltà serba) alimenta da secoli l’afflato spirituale della nazione serba verso una terra irredenta. Ecco perché quella del Kosovo è in assoluto la meno digeribile fra tutte le perdite territoriali subite da Belgrado negli anni Novanta. Il fatto che nel corso dei secoli la componente albanese abbia affermato sulle contese doline carsiche una netta superiorità demografica poco importa: per i nazionalisti serbi il Kosovo rimane Serbia. Soprattutto – prosegue l’analista di “Limes” - per quei cittadini d’origine serba che abitano preponderantemente l’area attorno a Kosovska Mitrovica.
Proprio i serbo-kosovari del nord temono la crescente assertività del governo di Pristina. La frattura etnica nel paese dei merli (kos significa merlo in serbo-croato) si è manifestata con chiarezza a novembre 2022 quando, per protestare contro i provvedimenti governativi sulle immatricolazioni automobilistiche, i funzionari pubblici di origine serba si sono dimessi in massa: sindaci, magistrati, agenti di polizia, parlamentari. Il timore dei serbi non risiede più nella comminazione di multe (150 euro) o nel sequestro dei veicoli per chi non si conforma alle nuove direttive, bensì nella graduale colonizzazione albanese della regione settentrionale. L’intesa raggiunta tra Belgrado e Pristina con la mediazione di Bruxelles sul rinvio ad aprile 2023 della sostituzione delle targhe serbe con le nuove matricole kosovare non ha affatto abbassato le tensioni. Anzi, l’indizione di elezioni amministrative anticipate al 18 dicembre 2022 all’indomani dell’accordo è stata percepita dai serbo-kosovari come una vera provocazione delle élite albanesi di Pristina. L’intento sarebbe quello di sostituire i sindaci dimissionari con primi cittadini albanesi in località a schiacciante maggioranza serba, rimpiazzando al contempo gli agenti di polizia renitenti con nuove forze dell’ordine provenienti dalla capitale. Medesima sorte dovrebbe toccare ai giudici di etnia serba che si sono auto-sospesi.
Il fatto che dei civili abbiano aperto il fuoco contro le forze speciali inviate da Pristina (inosservanza di accordi internazionali) e si siano opposti con blocchi stradali all’arresto e alla conduzione in altra località di un poliziotto serbo-kosovaro rimarca la predisposizione dei cittadini locali a imbracciare le armi a difesa della “propria” terra. Ecco perché il principale timore delle autorità del Kosovo è che nell’immediato futuro possano filtrare attraverso i valichi di frontiera di Jarinje/Jarinjë e Brnjak/Bërnjakë armi leggere della Serbia per equipaggiare gruppi separatisti.
L’11 dicembre, nel suo discorso alla nazione, il presidente “occidentalista” della Serbia Aleksandar Vučić ha gettato ulteriore inquietudine: «Questa è la notte più lunga della mia presidenza. L’esercito è pronto a ogni ordine, la Serbia però cerca la pace e abbiamo assicurazioni da KFOR che non ci saranno violenze». Vučić ha inoltre invitato apertamente i serbi a non attaccare i funzionari di KFOR ed EULEX e richiamato le due missioni occidentali a non rimuovere le barricate, poiché ciò esula dalle loro regole d’ingaggio. La richiesta di Belgrado alla Nato è dunque quella di poter presidiare consensualmente l’area – ex articolo 1 comma 4 dell’accordo tecnico-militare del 1999 e risoluzione Onu 1244 – per scongiurare violenze etniche di portata maggiore.
Il ministro degli Esteri della Germania Annalena Baerbock ha accusato apertamente la Serbia dell’escalation: «Il Kosovo ha ridotto le tensioni rinviando le elezioni locali [ndr invio di forze speciali antecedente a rinvio delle elezioni]. La recente retorica dalla Serbia ha fatto il contrario. Suggerire l’invio di Forze serbe in Kosovo è del tutto inaccettabile». L’intransigenza della leader dei Verdi tedeschi, partito un tempo smaccatamente pacifista, ricorda da lontano il momento iconico del 1999, quando il generale tedesco Helmut Harff intimò all’ufficiale serbo di abbandonare il Kosovo entro 30 minuti: «Questa è la fine della discussione, ora mancano 28 minuti». Il ritiro delle truppe di Belgrado cominciò effettivamente entro i termini indicati”.
Può essere interessante a questo punto conoscere come la pensano sulla questione kosovara a Mosca, al governo o comunque negli ambienti politici putiniani moscoviti. Ancora Mussetti:
“Secondo il presidente della Commissione Esteri e vicepresidente del Consiglio federale (Senato) della Russia Konstantin Kosačev, si tratta di «un’escalation pericolosa ma per nulla inaspettata». Il politico moscovita ha messo in correlazione la crisi kosovara con quella ucraina: «Il sostegno incondizionato di una delle parti in conflitto non solo non lascia spazio alla mediazione e alla diplomazia, ma rende anche la stessa UE ostaggio di Pristina, così come avviene con Kiev nel conflitto ucraino. Il Kosovo può facilmente intensificare il conflitto, provocare l’uso della forza da parte della Serbia e l’UE non avrà altra scelta che continuare a sostenere Pristina e condannare Belgrado. Cosa che, tra l’altro, sta già facendo».
Quello tra Serbia e Kosovo pare un dialogo tra sordi. Stemperare le crescenti tensioni etniche nei Balcani occidentali è faccenda al contempo delicata e ardua per le cancellerie del Vecchio Continente”.
Ci vuole poco a concludere che i Balcani sono una bomba a orologeria.

6.La crisi negli ultimi giorni di dicembre del 2022

Arriviamo così agli ultimi giorni dell’anno. “ISPI on line” il 27 dicembre 2020 un focus intitolato “Alta tensione al confine. Serbia e Kosovo: “Pronti a combattere” “ ripercorre l’intera questione e i crescenti rischi che comporta:
“Preparate per combattere”: è questo lo status delle truppe dell’esercito serbo schierate dal presidente Aleksandar Vucic lungo il confine con il Kosovo. Per Belgrado, infatti, le comunità etniche serbe che vivono nel paese vicino potrebbero essere a rischio di un attacco imminente, ed è quindi necessario che il suo esercito sia pronto a intervenire. E nella cittadina a maggioranza serba di Mitrovica Nord nel Kosovo settentrionale alcuni camion privati hanno bloccato le strade immediatamente dopo l’annuncio. “Prenderemo tutte le misure necessarie per proteggere le persone e il paese della Serbia,” ha dichiarato Vucic. Dal canto suo, il governo kosovaro non ha ancora risposto a queste accuse, anche se il premier Albin Kurti dice che la polizia eliminerà le barricate qualora non lo faccia la missione NATO in Kosovo, ovvero la KFOR. La tensione fra i due paesi si era già alzata diverse volte nel corso dell’anno per l’annosa questione delle targhe automobilistiche, da cui deriva anche l’attuale crisi. La settimana scorsa, la prima ministra serba aveva infatti dichiarato di essere ormai “sulla soglia di un conflitto armato”. Il timore della comunità internazionale è che tornino le violenze in una zona già martoriata. Il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza nel 2008, a seguito della guerra del 1998-1999.
Nonostante sia un paese a maggioranza albanese, all’interno del territorio kosovaro vivono circa 100.000 serbi, di cui si stima che circa metà sia concentrati nei quattro comuni del nord. Né Belgrado, né queste comunità riconoscono il Kosovo come un paese indipendente, e per loro il governo di Pristina non è legittimo. A fare da combustibile per una situazione già altamente infiammabile era stata la disputa sulle targhe automobilistiche: Pristina chiedeva che anche i serbi che vivono all’interno del suo territorio abbandonassero quelle di Belgrado, sostituendole con nuove placche che rechino la dicitura “Repubblica del Kosovo”. Quello che potrebbe sembrare un dettaglio triviale porta con sé un lato altamente simbolico: per Pristina, si tratta di imporre la propria sovranità, mentre le comunità serbe vivono la sostituzione come una violazione della propria identità. L’imposizione delle targhe ha così portato, lo scorso novembre, alle dimissioni in massa di circa 600 poliziotti, giudici e impiegati giudiziari. A fine novembre i due paesi, con la mediazione di Stati Uniti e Unione Europea, avevano raggiungo faticosamente un accordo: Belgrado avrebbe bloccato le emissioni di nuove targhe, mentre Pristina non avrebbe sanzionato le migliaia di veicoli circolanti con quelle già esistenti. Tuttavia, non sembra essere stato abbastanza per calmare gli animi. Il 10 dicembre, alcune comunità serbe infatti hanno eretto dei blocchi stradali a seguito dell’arresto di un ex agente di polizia serbo, sospettato di aver attaccato dei membri delle forze di sicurezza kosovare. In risposta alla richiesta del primo ministro di Pristina Albin Kurti di rimuovere i blocchi, migliaia di persone sono scese in piazza, accusandolo di minacciare apertamente la minoranza serba. A quel punto Belgrado ha richiesto al contingente KFOR di permettere l’ingresso delle forze serbe nell’area. Autorizzazione che probabilmente verrà negata, con l’Alleanza atlantica che ha garantito di rafforzare i pattugliamenti.
Alla base delle ricorrenti tensioni vi è l’indipendenza unilaterale che Pristina ha dichiarato nel 2008. Nonostante fra Serbia e Kosovo esista, dal 2013, un “processo di normalizzazione dei rapporti” mediato dall’Unione Europea, questo non ha ancora portato ad alcun risultato di rilievo. E anche il cosiddetto accordo di “normalizzazione economica”, promosso nel 2020 da Donald Trump, ha dato ben pochi frutti. Belgrado blocca tutto, sostenendo che Pristina non stia onorando la promessa fatta nel 2013 di garantire ai serbi kosovari una limitata autonomia attraverso la costituzione di una Associazione di municipalità serbe. Ma l’incapacità di trovare una soluzione stabile e duratura alla questione è anche specchio delle frizioni che dividono le comunità internazionale: il Kosovo non è mai stato riconosciuto nemmeno da Russia e Cina, che hanno anzi criticato la NATO per l’intervento armato del 1999 allo scopo di fermare le truppe serbe all’assalto dei kosovari di etnia albanese in lotta per l’autonomia. Ma nemmeno da cinque paesi membri della UE, tra cui Spagna e Slovacchia.
A uscire però malconcia dalle accuse incrociate è soprattutto l’Unione Europea, che ha visto la sua capacità di influenza diminuire drasticamente con gli anni. Dopo una fase di grandi speranze, in cui i paesi dei Balcani occidentali sembravano destinati a entrare nell’Unione come nuovi membri, il processo di integrazione è ormai nel limbo. La Serbia, in particolare, ha richiesto di poter aderire all’UE nel 2009 e ha iniziato le negoziazioni nel 2014. Al momento è impegnata nel raggiungere gli obiettivi di 22 dei 35 capitoli negoziali necessari per ottenere lo status paese membro. Tuttavia, le sue scelte di politica estera l’anno trasformata da “Frontrunner” (capofila) dell’integrazione, a testa di ponte del filorussismo nel continente. Altamente dipendente dal supporto diplomatico di Mosca, che la rifornisce anche di circa l’85% del suo import di gas, Belgrado ha infatti optato per una posizione di neutralità nel conflitto con l’Ucraina, decidendo di non introdurre le sanzioni a Mosca. Una scelta che ha portato Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ad affermare che le politiche del paese sono discordi da quelle dell’Unione e stanno bloccando l’avanzamento della procedura di ingresso. Secondo l’analista Mare Ushkovska, questa neutralità pragmatica dovrà cedere di fronte alla realpolitik, e il paese “probabilmente dovrà distanziarsi a breve dalla Russia.” Che questo possa portare anche a una normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, sembra però improbabile”.
Commenta Giorgio Fruscione, del “Desk Balcani” dell’ISPI:
“Questa escalation ha ragioni politiche ed è importante sottolineare che non porterà a un nuovo conflitto fra Kosovo e Serbia. La “preparazione al combattimento” ha infatti lo scopo di mostrare i muscoli alla popolazione serba, e rafforzare l’idea che Vucic difenda gli interessi nazionali e quelli della sua popolazione. Ma la realtà è che l’esercito serbo non può entrare nel paese senza autorizzazione del contingente NATO, che sembra tutt’altro che intenzionato a darglielo.
I serbo-kosovari sono controllati politicamente da Belgrado, che sa bene che una nuova guerra sarebbe un suicidio su tutti i fonti: economico e diplomatico, oltre che militare. Ma soprattutto, non c’è convenienza politica: è infatti molto più proficuo continuare ad alimentare la minaccia di una guerra imminente piuttosto che scatenarla apertamente. Questo non significa però che la situazione si tranquillizzerà: purtroppo, lo stato di tensione e l’escalation permanente potrebbero diventare una costante.”
Non meno preoccupato il 27/28 dicembre il commento di Luca Veronese sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” intitolato “In Kosovo tensione mai così alta. Il serbo Vucic allerta l’esercito”:
“I serbi del Kosovo hanno continuato a tirare su barricate e a organizzare posti di blocco, anche negli ultimi due giorni, a Mitrovica e negli altri centri del nord, come già avevano fatto bloccando i collegamenti al confine nelle settimane scorse. Quasi per preparare una nuova battaglia, forse una guerra. Ignorando totalmente gli appelli a evitare l’escalation ripetuti dalla Kfor, la forza militare della Nato, e dalla Eulex, la missione civile della Ue presente in Kosovo.
Hanno continuato, di notte, a piazzare camion pesanti e barriere di ogni genere per controllare le strade dell’ex provincia serba, governata dalla maggioranza albanese, che si è dichiarata indipendente ma che Belgrado considera parte del proprio territorio, da difendere. Ora l’amministrazione kosovara ha chiuso il suo principale valico con la Serbia, in risposta ai blocchi eretti dai serbi.
Tra Belgrado e Pristina la tensione è altissima, una scintilla potrebbe innescare nuove violenze. Il presidente serbo Aleksandar Vucic, dopo avere minacciato più volte di mandare l’esercito a proteggere la minoranza serba in Kosovo ha ordinato, nella notte di lunedì, lo stato di massima allerta per le forze armate, spostando le truppe vicino al confine. «Dobbiamo proteggere il nostro popolo in Kosovo e preservare la Serbia», ha affermato Vucic, dicendo che Pristina si sta preparando ad «attaccare» la minoranza serba per estrometterla dal Kosovo.
Le questioni mai risolte dopo la guerra del 1999, l’ultima dei Balcani, scatenata dal leader serbo Slobodan Milosevic, hanno continuato ad alimentare un conflitto permanente, anche dopo l’indipendenza decisa unilateralmente da Pristina nel 2008. Una mossa sostenuta dagli Stati Uniti e dalla maggioranza dei membri dell’Onu, ma non da tutti i Paesi nella Ue, non dalla Russia e dalla Cina. E gli scontri si sono ripetuti negli anni: nei mesi scorsi con il pretesto delle targhe automobilistiche dei serbi in Kosovo, oggi con le proteste che chiedono il rilascio di alcuni poliziotti serbi arrestati dalle autorità kosovare.
Di fondo c’è sempre lo scontro etnico e religioso che ha devastato i Balcani – prosegue il redattore de “Il Sole 24 Ore” - e fatto implodere la Jugoslavia: la minoranza serba, circa 50mila persone, appoggiata da Belgrado, non accetta la presenza delle forze di polizia kosovare e non riconosce le istituzioni di Pristina; il governo kosovaro-albanese vuole svincolarsi definitivamente dalla Serbia.
Si allontana la normalizzazione delle relazioni, passo necessario per le aspirazioni di Serbia e Kosovo che hanno chiesto di entrare nella Ue. Vucic, con l’usuale retorica aggressiva, ha criticato l’Occidente e le autorità albanesi del Kosovo per aver complottato insieme per «innescare disordini e uccidere i serbi» sulle barricate. «Il loro obiettivo è espellere la Serbia dal Kosovo», ha aggiunto, spiegando tuttavia che si sta impegnando nei negoziati con i mediatori della Ue e degli Usa «per preservare la pace e trovare una soluzione di compromesso» all’attuale crisi.
Il premier kosovaro, Albin Kurti, ha accusato Belgrado di fomentare i disordini, di cercare l’incidente per scatenare un intervento armato in Kosovo (magari con il sostegno, più o meno esplicito della Russia di Putin, proprio come ai tempi di Milosevic). Lo stesso Kurti ha chiesto alla Kfor di rimuovere le barriere e i posti di blocco, dicendosi pronto a ordinare azioni militari se sarà necessario. «Il Kosovo non può avviare un dialogo con le bande criminali e la libertà di movimento dovrebbe essere ripristinata. Non dovrebbero esserci barricate su nessuna strada», ha fatto sapere il governo kosovaro.
«Noi siamo per la pace e il dialogo, ma se si arrivasse ad attacchi fisici e all’uccisione di serbi, e se la Kfor non dovesse intervenire, la Serbia sarà costretta a farlo», ha detto il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dacic. Un intervento armato della Serbia in Kosovo equivarrebbe a una dichiarazione di guerra e chiamerebbe in causa direttamente la Nato. «Serbia e Kosovo stanno avanzando verso uno scenario molto pericoloso», ha detto l’ambasciatore russo a Belgrado, Alexander Botsan-Jarchenko”.
Concludiamo la rassegna delle valutazioni della situazione ancora con due servizi di “Euronews”. Il primo del 27 dicembre 2022 intitolato “Serbia-Kosovo: tensione alle stelle, bloccata la strada per Mitrovica”:
“La Serbia ha messo in stato di massima allerta le sue truppe al confine con il Kosovo, nonostante le esortazioni della NATO ad allentare la tensione tra Belgrado e Pristina. Dall'indipendenza proclamata nel 2008, il Kosovo è stato riconosciuto come Stato indipendente da circa metà degli Stati membri delle Nazioni Unite, Italia compresa. Mai dalla Serbia, che la considera una propria regione. Belgrado si prepara a difendere i propri cittadini, spiega il presidente serbo Aleksandar Vucic: "Ci troviamo in una situazione difficile - ha detto - ma faremo tutto il possibile per preservare la pace e la stabilità, ma anche per proteggere i nostri cittadini nel Kosovo settentrionale. Visto che la parte albanese è stata armata e ha accresciuto il livello di preparazione al combattimento adotterò tutte le misure necessarie per proteggere la nostra nazione, la Serbia".
Ora la protesta blocca la strada per Mitrovica, uno snodo principale. Ed è la prima volta. Aleksandar Vucic soffia sul fuoco e dice, durante un incontro con il patriarca serbo Porfiri che i disordini continueranno perché sono un sottoprodotto della guerra in Ucraina e dell'intenzione dell'Occidente di "schiacciare" il "popolo serbo disobbediente".
Il capo di Stato Maggiore dell'esercito, seguito a ruota dal Ministro della Difesa, si è recato alla frontiera amministrativa serbo-kosovara, dopo una sparatoria, fortunatamente senza vittime, nei pressi di Zubin Potok, una delle località in cui la minoranza serba aveva messo in atto dei blocchi stradali per protesta contro l'arresto di poliziotti di etnia serba che si erano dimessi.
La stampa serba aveva riferito della decisione, da parte delle autorità kosovare, di mettere in stato di massima allerta le proprie truppe, in vista di un'operazione per rimuovere i blocchi stradali e le barricate dei manifestanti nel Kosovo settentrionale. A 1.500 militari era stato ordinato di tenersi a disposizione, pronti ad essere chiamati per un intervento notturno. La risposta serba non si è fatta attendere: stato di massima allerta per le sue truppe.
La scintilla che ha fatto riesplodere, fino alle dimissioni di massa di giudici e altri funzionari della minoranza serba, è stata la decisione amministrativa di non riconoscere più la validità delle targhe automobilistiche serbe per i residenti del Kosovo, costretti a sostituirle con quelle kosovare. Una forzatura inaccettabile per Belgrado, di fatto un sabotaggio dei colloqui in corso”.
Il secondo servizio di “Euronews”, del 28 dicembre 2022, si intitola “Tensioni in Kosovo, Esercito serbo in massima allerta” e introduce un ulteriore motivo di inquietudine: la crisi assume risvolti anche religiosi, sempre preoccupanti negli scontri interetnici tra popoli di diverso credo come sono i cristiani-ortodossi serbi e i musulmani sunniti kosovari-albanesi:
“Si continuano a costruire barricate e blocchi stradali nel nord del Kosovo, dove è sempre più alta la tensione interetnica: la popolazione locale serba protesta contro l'arresto di tre serbi, ritenuto ingiustificato, e il conseguente giro di vite dato da Pristina, che ha inviato sul posto numerose unità armate.
Il Kosovo ora accusa la Serbia di cercare pretesti per creare un incidente, che giustificherebbe un intervento armato di Belgrado. 
Accuse rinviate al mittente dal presidente serbo Aleksandar Vucic, secondo cui le barricate create dai serbi sono solo una reazione a provocazioni kosovare.
Le barricate serbe sono solo una reazione a tutto ciò che i Kosovari hanno fatto loro.
"Il problema dei Kosovari sarebbero le barricate dei Serbi, ma queste ultime sono solo una reazione a tutto ciò che i Kosovari hanno fatto - ha dichiarato Vucic - a tutte le discussioni senza senso sulle targhe e a tutti i pretesti che hanno inventato per poter escludere i Serbi dal Kosovo".
Il presidente serbo ha anche ordinato lo stato di massima allerta per l'Esercito, chiedendo alle truppe di essere pronte a intervenire sul campo per proteggere i serbi del Kosovo in caso di violenze.
La tensione è alle stelle tra Belgrado e Pristina, che ha dichiarato l'indipendenza nel 2008. Il Kosovo è stato riconosciuto come Stato indipendente da circa metà degli Stati membri delle Nazioni Unite, Italia compresa. Mai dalla Serbia, che la considera una propria regione.
Le tensioni ora diventano anche religiose. Vucic ha incontrato a Belgrado il patriarca serbo ortodosso Porfirije, al quale le autorità di Pristina hanno vietato l'ingresso in Kosovo. 
Porfirije intendeva recarsi a Pec, sede del patriarcato serbo in Kosovo. "Per noi il patriarcato di Pec è come il Vaticano per i cattolici", ha detto Porfirije definendo inaccettabile il divieto. 
Tutti i tentativi europei di trovare un dialogo sono falliti, e ora sono in molti a temere un nuovo conflitto armato nei Balcani.
Intanto, mentre la Russia difende la Serbia parlando di "Paese sovrano", il governo tedesco denuncia la "retorica nazionalista" di Belgrado ed il rafforzamento della presenza militare serba al confine con il Kosovo, che a detta di Berlino lancia un "pessimo segnale" “.
7.Un esercizio a tavolino: una ipotesi di definitivo superamento della crisi serbo-kosovara
I Balcani, è noto, costituiscono un ginepraio di scontri interetnici. Molteplici. Inestricabili. La questione kosovara non sfugge a questa regola che nei fatti si traduce nei secoli in periodici, si direbbe ineluttabili, spargimenti di sangue. Come uscirne? Proviamo ad abbozzare una possibile proposta di soluzione diplomatica. Costruita a tavolino. Elaborata sulla carta geografica e non sul terreno. Come tale probabilmente o piuttosto sicuramente la vedrebbero come fumo negli occhi sia la Serbia che il Kosovo. Ma appunto perché osteggiabile da entrambe le parti in causa, non priva di elementi di neutrale oggettività e di concretezza realizzativa.
I poco più di 100.000 serbi del Kosovo si concentrano in gran prevalenza in cinque aree geografiche (potremmo definirle più o meno propriamente municipalità): Leposavic, Zvecan, Zubin Potok, Mitrovica, Strpce.
Le prime quattro sono situate al confine tra Serbia meridionale e Kosovo settentrionale, la quinta invece è situata nel sud del Kosovo, non lontano dal confine con la Macedonia del Nord.
Ebbene, la proposta si articola nei seguenti otto punti:
1.Il Kosovo rinuncia alle quattro municipalità a larga prevalenza abitativa serba di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok, Mitrovica. Purtroppo la città di Mitrovica (circa 70.000 abitanti), capoluogo dell’area, dovrà essere posta al confine. I due ponti che delimitano i quartieri serbi a nord e quelli albanesi a sud di fatto diverranno un tratto del nuovo confine ridisegnato tra Serbia e Kosovo. Bisogna aggiungere che già adesso le municipalità a Mitrovica sono due: a nord quella serba mal digerita dal governo di Pristina e a sud quella grosso modo dei 3/5 della popolazione, forse più, dove risiedono i kosovari albanesi.
2.Questi territori che in termini di estensione attuale costituiscono a spanne poco più del dieci per cento del territorio della Repubblica del Kosovo tornano a far parte della Repubblica di Serbia.
3.La quinta municipalità prevalentemente abitata dai serbi, quella di Strpce nel sud del paese, rimane parte integrante della Repubblica del Kosovo. Mappe alla mano, non potrebbe essere altrimenti.
4.Queste acquisizioni territoriali difficilmente placherebbe Belgrado e non comporterebbero come contropartita un automatico riconoscimento/accettazione da parte della Serbia dell’indipendenza del Kosovo. Esistono però formule intermedie alle quali fare ricorso. Il governo di Belgrado, a cui tornerebbero gran parte dei serbi del Kosovo, potrebbe ad esempio firmare un memorandum nel quale “prende atto” o “constata” o “rileva” l’indipendenza delle sue ex province kosovare. Una presa di posizione che comunque cristallizzerebbe la situazione ed aprirebbe la porta a nuovi approcci bilaterali meno conflittuali degli attuali.
5.In definiva una consistente maggioranza dei cento e passa mila serbi del Kosovo con un percorso del genere tornerebbe a fare parte della Serbia e quindi tornerebbe alla madrepatria.
6.Queste modifiche territoriali possono comportare dolorosi distacchi da luoghi e abitazioni per centinaia di famiglie ma sono necessari per rendere quanto più uniformi e corrispondenti etnie e Stati visto che nei Balcani (e non solo nei Balcani…) le etnie si scontrano e si scannano da secoli.
7.Alle correzioni territoriali deve seguire un preciso obbligo da parte di Belgrado e Pristina: entrare a fare parte al più presto dell’Unione Europea. Se Serbia e Kosovo fanno parte della UE ed il loro (nuovo) confine rimane quanto più aperto possibile, con la comune collocazione sotto l’ombrello istituzionale ed economico europeo con i suoi vantaggi viene sminato in larga parte l’alto tasso di conflittualità e recriminazioni reciproche tra i due paesi. Se si diventa più “europei” è possibile che in modo inversamente proporzionale si diventi meno nazionalisti e campanilisti.
8. L’Unione Europea da parte sua dovrà accelerare il percorso di adesione di entrambi i paesi. I quali, va riconosciuto, non sono ancora pronti in termini di democrazia, diritti, funzionalità delle istituzioni locali, economia e libertà economica, corruzione e contrasto alla criminalità. Su queste criticità (sulle quali altri paesi della ex Jugoslavia come la Slovenia e la Croazia, paesi da tempo aderenti all’Unione Europea, hanno fatto registrare significativi passi in avanti) Bruxelles dovrebbe accelerare parecchio ed investire altrettanto in attenzione, risorse, percorsi procedurali ed attuativi, monitoraggio costante.

8.Conclusioni

Sin qui un possibile piano di stabilizzazione del Kosovo. Non il migliore dei mondi possibili ma un piano non privo di realismo e di margini di realizzabilità. Non semplice da concretizzare, beninteso. Ci chiediamo ad esempio come voterebbero e addirittura se accoglierebbero o meno la Repubblica del Kosovo nell’Unione Europea i cinque paesi UE che non riconoscono l’indipendenza di Pristina. Non solo. Qualche giorno fa il ministro degli Esteri dell’Ungheria di Orbàn – paese che ormai ha assunto il ruolo di “bastian contrario” nell’Unione Europea - ha dichiarato che l’Ungheria è dalla parte della Serbia e non accetterebbe nessuna ammissione del Kosovo a consessi internazionali. Si riferiva al Consiglio d’Europa ma figuriamoci, a maggior ragione, se possa essere favorevole all’ammissione nella UE. L’Ungheria, lo ricordiamo, non fa parte del gruppo dei cinque paesi dell’Unione che non hanno mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo.
I blocchi stradali con autocarri ed autotreni sono stati poi rimossi dietro forte pressione e mediazioni degli stati occidentali e dell’Unione Europea. Ma la situazione rimane sospesa in un misto di tensione e precarietà.
Rimane, per concludere, una domanda che lasciamo volutamente senza risposta riallacciandoci a quanto scritto all’inizio: come la prenderebbero i nostri amiconi russi che siedono al Cremlino? Come reagirebbero? Una Serbia che diventa il ventottesimo o ventinovesimo o trentesimo stato aderente all’Unione Europea? C’è il rischio che farebbero fuoco e fiamme pur di osteggiare una prospettiva del genere e quindi pur di farla fallire. Russia e Serbia, paesi entrambi slavi e cristiano-ortodossi, storicamente hanno sempre avuto un rapporto privilegiato. I zar hanno sempre guardato a Belgrado con un atteggiamento “protettivo” e di vicinanza se non di interferenza piena. Parliamo degli zar “veri” della dinastia Romanov e, ora, dell’ex ufficialetto da quattro soldi dei servizi segreti che si atteggia a nuovo zar del XXI secolo.
Quanto alla Serbia, ribadiamo il concetto: dovrà decidere una volta per tutte da che parte stare. Decidere se a Belgrado prevarrà la voglia di futuro come componente integrante della civiltà europea o prevarrà l’attaccamento alle tradizioni e al vecchio passato slavo-ortodosso.
 di Pino Scorciapino

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