La preservazione del potere che spinge l'uomo alla violenza contro le donne

Junior | 22 gennaio 2022
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Ecco la riflessione di Marco Brizzi, della 4 A del Liceo Pacinotti di Fondi, sulla videoconferenza del Centro Pio La Torre dedicata alle disuguaglianze di genere e alla pratica della violenza nella società civile e nelle organizzazioni mafiose


Nella terza conferenza del Centro studi Pio La Torre, sono stati trattati temi riguardanti le disuguaglianze di genere e le annesse violenze all’interno della società civile e delle organizzazioni mafiose. Per trattare con dati alla mano queste importanti tematiche sociali, gli organizzatori hanno invitato tre specialiste in materia: Beatrice Pasciuta, nominata prorettrice dell’università di Palermo; Alessandra Dino, sociologa all’università di Palermo; Sabrina Garofalo docente all’università della Calabria.

Oltre alla narrazione oggettiva degli eventi e all’analisi dei dati sui reati, ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la descrizione dell’evoluzione legislativa in quest’ambito. Penso che l’intervento di Alessandra Dino sia stato quello più interessante e coinvolgente, perché grazie alle percentuali e ai dati portati come argomentazioni alle sue tesi, è riuscita a smontare pregiudizi e stereotipi che i media tendono ad inculcarci (ne parlerò in seguito).

La parola chiave della conferenza, come ha affermato Alessandra Dino, è la parola “potere”. La preservazione del potere infatti, è esattamente ciò che spinge l’uomo ad adottare comportamenti violenti, o ad avere reazioni sbilanciate. Questa violenza si riversa dunque sul corpo femminile, che diventa un elemento di sfogo, il quale deve essere umiliato e degradato per appagare il desiderio del violento.

Tra le caratteristiche dei femminicidi infatti, ritroviamo questa efferatezza, mista a brutalità, che spinge l’uomo a colpire e percuotere la donna anche quando ormai il corpo è senza vita. La maggior parte dei colpi vengono sferrati sul viso, simbolicamente, dimostrando la volontà di sfigurare.

Ma soffermiamoci sulla parola “femminicidio”. Questa parola era già presente nel vocabolario inglese, sin dal 1848, e si riferiva all’uccisione di una donna in quanto tale, dovuta proprio alla asimmetria di potere già in precedenza accennata.

Alessandra Dino inoltre, fa riferimento all’ordinamento politico italiano e ne descrive la natura sessista, facendo riferimento alle leggi che descrivono le pene per i vari reati di omicidio.

Ad esempio, fino al 1996, la violenza carnale non veniva considerato come un reato contro la persona, bensì contro la moralità pubblica, come se il malessere della donna non avesse alcuna importanza. Altro caso assurdo è quello del reato d’onore, abolito solo nel 1981, che puniva gli uomini che uccidevano per salvaguardare una particolare “forma di onore” con una pena che andava dai tre ai sette anni, una pena praticamente nulla per un omicidio di questo tipo, a prescindere dalle motivazioni che lo causano.

In tempi moderni la legislazione si sta però evolvendo, come nel caso della legge sullo stalking, emanata nel 2009, o quella del 2013 riguardante il divieto di avvicinamento dell’uomo violento all’abitazione della donna.

Come ho detto in precedenza, Alessandra Dino ha inoltre deciso di descrivere i falsi pregiudizi che dominano le nostre opinioni quando ascoltiamo la notizia di un femminicidio. Contrariamente a quanto ci si aspetta infatti, la maggior parte delle uccisioni avvengono all’interno del matrimonio e non dopo una separazione o dopo le serie tensioni che ne potrebbero conseguire. Un’altra falsa opinione è quella che vede l’assassino come un mostro, che ha disturbi psichici o qualche squilibrio comportamentale. Gli uomini coinvolti in femminicidi, invece, sono in moltissimi casi soggetti di cui non si sospetta, sicuramente non è raro trovare assassini con precedenti penali e violenze pregresse, ma è raro anche che si trovino reati specifici dello stesso ambito. Inoltre nel 92% dei casi gli uomini non soffrono di nessuna malattia mentale, solo nell’8% dei casi si parla di persone affette da psicosi.

Argomento importantissimo che viene trattato dall’esperta è quello riguardante il metodo di approccio dei magistrati.

QQQQuando la vittima è straniera ad esempio, il giudice è propenso a guardare il reato nei termini di potere tra un soggetto e l’altro. A dimostrazione di questa sua idea, la sociologa racconta un caso di femminicidio in cui un uomo, frustrato dal tradimento di sua moglie e offeso da una presunta offesa di una prostituta romena (sulla quale però non si hanno prove o testimoni) decise di ucciderla. Il giudice, alla conclusione del processo, utilizzerà la situazione privata dell’assassino come attenuate al reato.

Tutto ciò è assurdo ed ingiusto. Per un atto del genere, la situazione di frustrazione personale non può assolutamente essere ritenuta un’attenuante; un omicidio è un omicidio, e deve essere descritto e punito come tale. Ovviamente esistono altri tipi di attenuanti, ma sicuramente la situazione personale descritta in precedenza non può essere ritenuta una giustificazione.

A proposito di attenuanti e aggravanti, la docente fa riferimento ai casi di gelosia e a quelli riguardanti situazioni economiche. Un femminicidio giustificato con la gelosia non è ritenuto aggravato per futili motivi, mentre se la motivazione che ha spinto a svolgere il gesto si evidenzia in ambito economico, ecco che viene attribuita l’aggravante per futili motivi.

Questa differenziazione mi sembra totalmente illogica, anzi, penso che i due casi debbano essere trattati in maniera inversa. Mi spiego meglio. Poniamo due casi differenti: nel primo caso abbiamo un uomo che uccide sua moglie dopo aver subito un presunto tradimento, mentre nel secondo caso abbiamo un uomo che rischia di perdere molti dei suoi averi e delle sue risorse economiche successivamente alla separazione con la moglie e, una volta resosi conto di rischiare di cadere in rovina a causa della cattiveria della donna, accecato dalla rabbia decide di ucciderla. Nel primo caso, escludendo la componente ovvia legata alla rabbia, l’uomo compie l’atto per una motivazione: la perdita di dignità e il conseguente odio verso la donna. Oltre alla relazione amorosa e alla “dignità” che pensa di aver perso, l’uomo non ha nessuna privazione in termini di sicurezza, di tranquillità, di salute. Nel secondo caso invece, l’uomo vede togliersi i suoi averi, la sua tranquillità economica, viene pervaso dalla paura di finire in rovina e soprattutto viene accecato da una rabbia differente rispetto al caso precedente: mentre nel caso della relazione amorosa la rabbia scaturisce dalla “dignità” che il soggetto pensa di aver perso, nel secondo caso l’uomo è consapevole di ricevere una vera e propria prepotenza, finalizzata alla sua rovina. Sono dunque convinto che sarebbe molto più corretto catalogare come aggravante per futili motivi la gelosia e la parte economica.

La gelosia inoltre fa parte del classico stereotipo: “la amava così tanto che l’ha uccisa”, oppure di molti altri analoghi. L’amore, invece, non genera mai morte. Le giustificazioni amorose che vengono date sono sempre finalizzate alla motivazione reale: il mantenimento del potere sulla donna.

Ecco che questo concetto di potere alla base della conferenza viene utilizzato come aggancio da Sabrina Garofalo per la descrizione di eventi violenti in ambito mafioso.

Infatti, durante il suo intervento la docente ha descritto numerosi episodi in cui la mafia voleva rendere evidente la sua egemonia sia sui territori sia sulle donne, soprattutto utilizzando elementi simbolici. Ci fu un caso in cui, nella provincia di Cosenza, una ragazza si trovò a passare a piedi all’interno di una proprietà privata e perse la vita a causa di uno stupro da parte dei mafiosi proprietari del terreno. Un altro episodio vide delle ragazze assassinate essendo state costrette a bere dell’acido. Il fine dei mafiosi era quello di distruggere le corde vocali e le bocche delle povere ragazze, strumenti che avevano utilizzato per dire qualcosa che i malavitosi avevano percepito come “mancanze di rispetto”.

Di tutti questi casi, le rappresentazioni mediatiche tendono ad evidenziare solo le dimensioni episodiche piuttosto che sistematiche e, di conseguenza, non ci permettono di avere una percezione totale del fenomeno.

Caratteristica dei femminicidi infatti è la sua trasversalità, la quale però non viene messa in evidenza dai media, i quali tendono a rendere pubblici eventi riguardanti donne giovani oppure assassini stranieri, in quanto risultano essere più notiziabili grazie alla xenofobia che caratterizza la popolazione del nostro Paese.

Nonostante siano molti di più i femminicidi che vedono protagonisti uomini e donne italiani, questi eventi non vengono pubblicati in quanto non attraggono l’attenzione del popolo.

Per avere una prospettiva completa e dettagliata su questa problematica dunque, bisognerebbe osservare fonti più specifiche e non i vari telegiornali che ci indirizzano solo verso determinati avvenimenti.

In conclusione voglio riproporre un quesito importantissimo posto da Alessandra Dino: come si può contrastare questo fenomeno? La mia idea di cambiamento e di risoluzione del problema coincide perfettamente con ciò che la sociologa afferma riguardo la scuola e l’utilizzo della parola. Le leggi, infatti, talvolta non bastano, perciò il passo successivo è agire sulla cultura della popolazione. La scuola deve cercare di educare i ragazzi a principi di uguaglianza e rispetto, distanti dai classici stereotipi di virilità e onore, che hanno per moltissimo tempo caratterizzato in maniera evidente il nostro modo di pensare. La parola e la scuola dovranno quindi porsi alla base di un cambiamento finalizzato ad una riduzione delle disparità culturali, che, consequenzialmente, dovrebbero portare anche ad una riduzione delle disparità sociali ed economiche.

Marco Brizzi, 4 A Lsa Pacinotti Fondi 



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