La necessità di rilanciare le aziende tolte ai boss
Martedì scorso, l’opinione pubblica è stata investita dal primo sciopero degli oltre ottocento dipendenti delle aziende sequestrate e confiscate siciliane che, preoccupati per il loro posto di lavoro, hanno chiesto al Governo e all’Agenzia nazionale dei beni confiscati una svolta dell’approccio alla questione della loro gestione.
Lo sciopero indetto dalla Fillea era stato preceduto da un’altra iniziativa clamorosa in Toscana, in provincia di Siena, dove l’Agenzia dei beni confiscati aveva messo in vendita una azienda agricola confiscata definitivamente al noto imprenditore mafioso palermitano Piazza, proprietario di imponenti complessi edilizi, anch’essi confiscati, nel centro di Palermo. Lo scandalo non era la vendita, ma il fatto che essa avveniva nonostante la Regione Toscana, la Provincia di Siena e i comuni del comprensorio si erano impegnati a sostenere un progetto del suo riuso sociale e rilancio produttivo avanzato da un pool di cooperative giovanili e di associazioni antimafia. Rispetto alla finalità sociale evidenziata dal progetto l’Agenzia aveva preferito la via più breve del far cassa subito non valutando il messaggio negativo e i rischi di un riacquisto mafioso del bene. La protesta sociale, politica e istituzionale ha bloccato le procedure di vendita, vedremo se sarà assicurata l’attuazione del piano di rilancio produttivo a opera delle cooperative e degli enti territoriali.
L’accostamento delle due iniziative mette in rilievo la necessità che il Governo Letta si faccia garante di un mutamento nell’azione dell’Agenzia dei beni confiscati oggi pienamente responsabile della loro gestione sin dal sequestro preventivo e quindi responsabile della loro funzionalità produttiva e del loro accompagnamento fuori dal circuito illegale e aiutandoli a superare tutti i costi della legalità sino alla loro piena autonomia di mercato.
Il sindacato è partito dalla tutela dei diritti dei lavoratori e della loro occupazione, non nascondendo le difficoltà esistenti in una azienda mafiosa dove continuano a operare amici e parenti dei vecchi titolari prevenuti, ma è stato seguito dai lavoratori fiduciosi nella volontà dello Stato di aiutarli.
A tal proposito, da tempo abbiamo chiesto, assieme a tutto il movimento antimafia, il superamento delle criticità avvistate nel cosiddetto Codice antimafia e nella governance dell’Agenzia dei beni confiscati.
Delle prime abbiamo già detto più ampiamente in altre occasioni pertanto basta richiamarli sinteticamente: il procedimento di sequestro non deve interrompere l’attività produttiva, i diritti dei lavoratori dipendenti vanno tutelati, quelli dei terzi pure superando, però, la logica del diritto fallimentare che privilegia i terzi, fornitori e banche, anche con lo smembramento e la vendita del bene per consegnarlo al Demanio privo di gravami. Infine, vanno semplificate e accelerate tutte le procedure per non interrompere, in ogni modo, l’uso produttivo del bene.
Rispetto alla governance dell’Agenzia, essa,oggi, può disporre sino a cento dipendenti, di sedi decentrate che le possono agevolare i contatti con il territorio e gli enti interessati, magistratura compresa. A questo punto non può più procedere senza interloquire con i sindacati, i sindaci e le Regioni, le associazioni d’impresa e quelle maggiormente rappresentative del movimento antimafia. Si possono scegliere gli amministratori di un’azienda sequestrata senza la possibilità di valutare la loro competenza di elaborazione di piani industriali di sviluppo? Amministrare un’azienda mafiosa per farla uscire dal circuito illegale significa affrontare molteplici ostacoli da quelli frapposti dalle banche a quelli di competere nel mercato senza l’uso dell’intimidazione mafiosa. È sufficiente un bravo commercialista che deve capire di conti amministrativi e di politiche di mercato di aziende a basso o alto contenuto tecnologico?
Il coordinamento tra l’Agenzia e i soggetti suindicati potrebbe facilitare il superamento delle difficoltà registrate ed evitare il fallimento della gestione. L’impegno comune deve dare il forte segnale alla società italiana che l’antimafia produce ricchezza, lavoro e rispetto dei diritti. In tale quadro occorre rivedere il ruolo del Fondo unico della giustizia. Esso deve operare come un fondo di garanzia per la prosecuzione del funzionamento produttivo delle aziende, assicurare le risorse finanziarie agli amministratori dei beni immobili per la loro manutenzione. Per far fronte a questi impegni, titoli, depositi sequestrati, ricavati di eventuali vendite, devono prima di tutto essere utilizzati per la gestione dei beni e poi della giustizia e del bilancio generale dello stato.
Non ci nascondiamo le difficoltà del momento e della disattenzione politica su questi temi da noi più volte denunciata, costretti ogni santo giorno a leggere di decadenza dal Parlamento di un pregiudicato o di tessere frodate per il congresso di uno dei partiti di questa stranissima maggioranza imposta dall’incapacità politica degli stessi. Naturalmente il nostro tenace impegno, nonostante tutto, non verrà meno.
Vito Lo Monaco
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