La necessità di restituire alla comunità i beni confiscati ai mafiosi

Junior | 3 gennaio 2022
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 La riflessione di  Jacopo Rocca del Liceo Teresa Ciceri di Como relativa alla conferenza del Progetto Educativo Antimafia promosso dal Centro Pio La Torre sul tema «Quarantesimo anniversario della Legge Rognoni – La Torre; evoluzione giuridica, politica ed economica» 


Volendo introdurre il tema centrale di questo nuovo nucleo di conferenze ed incontri, nonché comprendere il ruolo centrale nella lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso di questo quarantesimo anniversario, è utile tracciare i punti essenziali della cosiddetta Legge Rognoni-La Torre.

Quest’ultima corrisponde alla legge numero 646 del 1982, la quale introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso all’art. 416-bis del Codice penale italiano. L’Approvazione di tale legge avviene il 13 settembre 1982, ovvero 5 mesi dopo l’omicidio di uno dei proponenti, nonché segretario del partito comunista italiano in Sicilia, Pio La Torre, il 30 aprile 1982.

La legge consente l’obbligoL'importmnaxza i restuire alla comunità i beni confiscati ai mafiosi di confisca da parte dell’autorità giudiziaria, “delle cose destinate a commettere reato, nonché delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego” (art. 416-bis C.p.). In altre parole, i beni di cui dispone il soggetto sospettato mafioso possono essere sequestrati se si crede che rappresentino il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Per far comprendere lo straordinario ruolo che la Legge Rognoni-La Torre ha avuto nella legislazione antimafia italiana ed estera, si potrebbe paragonarla, come poi ci fa intendere il professore Vincenzo Militello, agli esiti di una rivoluzione scientifica: la legge 646 del 1982, infatti, rappresenterebbe una sorta di Rivoluzione copernicana dell’antimafia. Si tratta di un vero e proprio cambio di approccio o, ancora meglio, un cambio di paradigma, all’interno di un insieme di valori, significati culturali e comportamenti.

L’equiparazione proposta ha effettivamente delle ricadute pragmatiche, un po’ come per la Rivoluzione copernicana in cui il cambio di passo fu il passaggio da un totale affidamento ai precetti religiosi verso l’affermazione di un nuovo metodo empirico basato sul metodo sperimentale galileiano; allo stesso modo, la necessità del nuovo metodo di contrasto mafioso sviluppato dalla Rognoni-La Torre scorge le sue origini nelle innumerevoli indagini per mafia conclusesi senza una sentenza di condanna. Ciò creava un danno non solo di carattere giudiziario, ma soprattutto culturale: i soggetti assolti, notoriamente considerati capimafia o associati alle cosche, venivano riconsegnati alla società civile con una patente di legalità.

Il cambio di paradigma, dunque, secondo Militello, poggia su due pilastri. Il primo è l’introduzione di un reato che, pur basandosi su una tradizione giuridica ottocentesca (in quanto si innesta sul reato di “associazione a delinquere - di stampo mafioso”) rappresenta un’innovazione senza precedenti nel mondo. In Italia nei primi anni ’80 si stabilisce una differenza fondamentale tra ciò che è un’organizzazione criminale finalizzata a compiere attività illecite (omicidi, rapine…) e un’associazione a delinquere di stampo mafioso, la quale tra le sue finalità ha la volontà di inserirsi nelle attività economiche legali attraverso metodi illeciti, propriamente definiti “metodo mafioso”. La capillare descrizione di quest’ultimo da parte del legislatore diventa sì una Rivoluzione copernicana della lotta alla mafia, perché il magistrato ha ora a disposizione delle linee guida che gli consentono una prevedibilità delle conseguenze giuridico-penali.

Sono propriamente queste “linee guida” a rendere la legislazione italiana un punto di riferimento a livello internazionale nel contrasto alle organizzazioni di stampo mafioso perché- chiarisce sempre Militello- a partire dagli anni ’90 il venir meno delle barriere doganali tra gli Stati, come effetto della libera circolazione di persone e di merci, ha indotto la mafia ad esportare il proprio metodo all’estero. La normativa estera, come le forze di polizia straniere, non possono nulla di fronte alla volontà di organizzazioni del tutto estranee ai loro contesti sociali, in quanto, come evidenzia Balsamo, la mafia si sarebbe globalizzata molto prima degli stessi organi istituzionali. Ciò detto, come chiarisce anche il rapporto semestrale DIA relativo alla prima parte dell’anno 2020, occorre un rinnovato impegno affinché l’azione di contrasto internazionale alle mafie avvenga “non solo sul piano operativo ma anche attraverso una più energica opera di sensibilizzazione delle omologhe Forze di polizia straniere, finalizzata a dare nuova e rafforzata consapevolezza della pericolosità delle mafie” [1]. Esempio di questo impegno è l’obiettivo della Rete Operativa Antimafia @ON. Quest’ultima favorisce l’avvio di collaborazioni tra Forze di polizia mediante lo scambio di informazioni, monitorando l’andamento della presenza di personaggi di spicco o gruppi criminali in Paesi esteri, nonché intervenendo con attività di supporto in indagini internazionali attraverso l’invio di unità investigative specializzate.

Altro pilatro su cui si poggia la Legge Rognoni-La Torre è propriamente la confisca dei patrimoni mafiosi. La legge 646, infatti, partendo dal dato empirico per cui le attività praticate dalle organizzazioni mafiose producono ingenti ricchezze, consente agli organi inquirenti di intervenire sui patrimoni dei sospettati ancora prima di provare in giudizio che esista una diretta derivazione da un singolo fatto illecito. È considerato sufficiente stabilire che, tra le condizioni patrimoniali del “proposto alle misure di prevenzione e la sua cerchia familiare”, in un periodo di cinque anni, si siano verificati degli arricchimenti di cui il soggetto in questione non è in grado di dimostrare la legittima provenienza.

In realtà, il sequestro dei patrimoni era già presente all’interno sia del Codice penale francese del 1810 (sul quale si fondano le successive legislazioni sabaude), sia nel Codice Rocco del 1930 (attuale Codice penale italiano), ma essi presupponevano una condanna per un reato che avesse prodotto dei vantaggi per il reo. Solo a seguito di tale condanna si sarebbe prevista “l’ablazione”, ovvero l’acquisizione da parte dello Stato di quel profitto per fare venire meno il vantaggio che il criminale avesse realizzato attraverso quella ricchezza.

Tale cambio di passo è un’evoluzione della legislazione che di certo non è andata di pari passo con l’evoluzione della mafia stessa. Come ricorda nel suo intervento Vito Lo Monaco, il fenomeno mafioso ha la sua prima individuazione come “braccio armato delle classi dirigenti” nel rapporto sulla “Questione meridionale” dei sociologi e politici italiani Sonnino e Franchetti, di fine Ottocento. Si tratta del nucleo originario della mafia, quello che il professor Militello definisce “mafia dei pascoli”, la mafia della fase agricola. Quest’ultima forma di criminalità ha subito, pur rimanendo vincolata allo schema di controllo militare e capillare del territorio come del feudo, una propria evoluzione: oltre alle forme tradizionali di furto del bestiame, le consorterie mafiose avrebbero intercettato forme di sovvenzioni pubbliche di fonte europea per sfruttare in maniera illecita dei finanziamenti che avrebbero potuto rappresentare un contributo fondamentale per l’agricoltura e la zootecnica. A testimonianza di ciò vi sono le numerose sentenze che riguardano il Parco dei Nebrodi nel Messinese.

La stessa mafia “dei pascoli” ha subito diverse modificazioni nel corso dell’evoluzione: da un lato in contesti locali e tradizionali, soprattutto del Mezzogiorno italiano, come chiarisce Franco La Torre, si è trasformata nel “datore di lavoro” utilizzando come tramite di collocamento i mafiosi stessi; la seconda evoluzione, che si avvicina ai giorni nostri, è quella che vede la mafia non più arroccata in difesa del feudo, ma come nuovamente affermato da Vito Lo Monaco, “in difesa del capitalismo più avanzato”. È proprio in questo passaggio che la mafia si presterebbe a diventare soggetto attivo dell’economia finanziaria, e dunque globalizzata. È possibile cogliere la “sfida allo Stato” di cui ci parlava Pio La Torre già nel 1966, quando scriveva, riferendosi alle organizzazioni criminali, di “terrorismo mafioso”.

A cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del ‘900, infatti, la grande accumulazione patrimoniale dovuta al commercio di stupefacenti ha fatto entrare a pieno titolo i mafiosi nel mondo dell’economia, attraverso canali di riciclaggio sottesi a una struttura di formazione del consenso politico. A seguito di questa fase, nel 1979 sorge quella strategia di terrorismo mafioso già individuata 15 anni prima da Pio, e che in una prima fase colpisce anzitutto i giornalisti. Nella conferenza Balsamo, in particolare, ricorda la personalità di Mario Francese, il quale la sera del 26 gennaio 1979 venne assassinato a colpi di pistola a Palermo da Leoluca Bagarella, davanti alla propria dimora. Per il suo omicidio sono stati condannati: Totò Riina, Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano. Interessante leggere tra le motivazioni di condanna nella sentenza d'appello il seguente giudizio: «Il movente dell'omicidio Francese è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un'approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni '70».

In una seconda fase, questa strategia terroristica, si concentra verso quei politici che volevano proiettare la Sicilia verso un orizzonte sempre più nazionale ed internazionale: è il caso di Piersanti Mattarella e dei suoi stretti rapporti con il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, e il presidente della Commissione europea Roy Jenkins. Il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella venne ucciso, il giorno dopo sull’Unità Pio La Torre scrive del legame tra mafia, eversione e ambienti del terrorismo nero. Nesso confermato dalle recenti sentenze sull’attentato terroristico alla stazione di Bologna. Ecco che dunque si arriva al 1982, anno in cui Pio descrive la mafia, nella sua proposta di legge, come un’organizzazione mirata a costruirsi un rapporto di dialogo tra pari con l’impianto economico ed istituzionale del Paese.

Questo particolare dialogo tra mafia e istituzioni, proprio in virtù del richiamo fatto nei suoi confronti da Antonio Balsamo, è esplicativo dell’indagine condotta dal magistrato Nino Di Matteo e dai suoi colleghi nel cosiddetto processo “Trattativa Stato-mafia”. Interessante notare come gli stessi giudici intravedano nella Trattativa un “attentato a corpo politico, amministrativo, giudiziario dello Stato” (art. 338 C.p.), nella misura in cui con una serie di decisioni, di cui molti esponenti di spicco della politica dell’epoca erano a conoscenza, si decise di accettare alcune richieste del famoso “Papello” di Riina. In altri termini, avendo lo Stato ceduto alle istanze, Riina decise di esportare la strategia del terrore dalla Sicilia al resto d’Italia; fu così che si verificarono gli attentati di Milano, Firenze, Roma, come molti altri fortunatamente falliti.

Proseguendo nell’analisi storica, colpisce particolarmente un’espressione usata dallo stesso Vito Lo Monaco quando afferma che: “la mafia spara di meno, ma ricicla di più”. Tale costatazione ci restituisce propriamente il senso di questa nuova fase della criminalità organizzata, impressione che si deduce ancora dalla strategia che Riina confessa al suo confidente in carcere Alberto Lorusso e che vorrebbe una mafia orientata a “fare la guerra, per fare la pace”. Strategia ormai esaurita. Il capo dei capi, o per dirla con un’espressione cara già a Sciascia nel suo “Giorno della civetta”, il capo del “carciofo”, è stato molto probabilmente spodestato per volontà che esulano da strumenti probatori, come suggerirebbe la mancata perquisizione del suo covo. Il nuovo referente della mafia non è più solamente la politica, ma quella che a più riprese nel corso della conferenza viene definita “area grigia”.

Quest’ultima corrisponde sostanzialmente a quegli “imprenditori mafiosi” o “mafiosi imprenditori” che intrattengono rapporti consapevoli o meno con le organizzazioni. Nel caso dei “mafiosi imprenditori” ci troviamo di fronte a soggetti che sono parte integrante dell’organizzazione, magari rampolli che hanno acquisito una solida preparazione economica e giuridica. Questi ultimi, forti di un tale background, puntano a conquistare, con la forza del metodo mafioso, nuovi spazi economici estromettendo le aziende sane dal mercato. Riguardo agli “imprenditori mafiosi”, invece, si tratta di soggetti del mondo economico e produttivo che, in una prima fase, operano con la propria attività nel recinto della legalità. Ad un certo punto del loro percorso imprenditoriale, gli stessi si assocerebbero alla criminalità organizzata, in molti casi cercando un vantaggio competitivo rispetto alle altre aziende oppure il superamento di un momentaneo stato di difficoltà finanziaria (in cambio servizi per occultare, riciclare e quindi reimpiegare capitali illeciti). In questi casi, l’esito è quasi scontato, perché il mafioso, nel tempo, riesce a “cannibalizzare” l’impresa, sostituendosi all’imprenditore, al quale, in un primo momento, si era presentato come un “utile” socio.

L’analisi storica che stiamo tratteggiando in sintesi si chiude riprendendo il punto da cui eravamo partiti. Oggi, dopo la fase pandemica, la mafia dà prova di come, pur evolvendosi e globalizzandosi, non possa comunque perdere il legame inscindibile con il territorio. È il caso di quello che sia Vito Lo Monaco che Antonio Balsamo definiscono “welfare mafioso”: il pacco di cibo, il prestito economico che durante il lockdown il mafioso di zona ha consegnato alle famiglie in maggiore difficoltà. A risultare rilevante, a mio parere sarebbe proprio la lettura della mafia non come “l’antistato”, quanto piuttosto come uno “Stato cattivo”, che non opera secondo scopi assistenzialistici o paternalistici. Queste attività sono compiute allo scopo di ricevere un ritorno di tali interventi che potremmo ipotizzare svilupparsi su due piani: la trasformazione dei giovani di queste famiglie in nuova manodopera mafiosa per la riapertura del mercato di stupefacenti al termine delle misure anti-pandemiche; in seconda battuta, un ritorno economico con pratica di usura.

Concluso questo intreccio di storia dell’evoluzione e degli strumenti di mafia ed antimafia sotto un aspetto di carattere prettamente giudiziario, è necessario, prima di concludere, richiamare l’orizzonte etico delle azioni individuali che competono invece alla società civile. Come sosteneva il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, nel corso del suo intervento alla I Conferenza del progetto antimafia 2020-2021 (20^ anniversario della Convenzione Onu Palermo 2000): la lotta alla mafia può essere intesa come un carretto siciliano, dove una ruota è la giustizia, ma l’altra deve essere necessariamente la scuola e la cultura della legalità.

A tale scopo, una funzione fondamentale è svolta dalla scuola. Walter Veltroni addita proprio l’esempio del modello scolastico nel corso della conferenza: “spesso a scuola si fanno tre volte gli etruschi e mai la storia contemporanea”, dove per storia contemporanea si intende anche la storia della mafia. Se un cittadino non comprende che cosa sia il “metodo mafioso”, allora non sarà mai in grado di riconoscerne le dinamiche. Quando se ne troverà in mezzo, un po’ come ci spiega Militello, quello stretto nesso tra criminalità di stampo mafioso e territorio sociale, potrebbe generare una situazione di intimidazione e dunque, un cortocircuito informativo tale da indurre la società civile al fenomeno dell’omertà, che non è sempre connivenza, quanto piuttosto un’acquiescenza passiva.

Andrebbe analizzato a scuola lo spirito di sacrificio e il coraggio di Pio nella misura in cui egli ci indica quel legame forte tra mafia ed economia legale, tra mafia e coloro che lo stesso magistrato Falcone, il giorno dopo lo sventato attentato all’Addaura, definisce in un’intervista all’Unità “menti raffinatissime”, cioè “uomini di apparato”, soggetti delle istituzioni, connessi alla mafia, che intrattengono uno stretto rapporto di informazioni e di interesse con essa, ma che per l’organizzazione si trasformano in una legittimazione ad operare.

Per entrare ancora di più nel merito, la mafia, oltre a ciò che in modo spettacolare possiamo vedere in molti film o rappresentazioni, è anzitutto un sistema di rapporti. Rapporti tra attori criminali e poteri. Talvolta poteri che dovrebbero combattere la mafia, e che invece si sono fatti conniventi o mandanti. La mafia è un sistema di privilegi che si infiltra là dove alcuni organi dello Stato non funzionano o taluni apparati si fanno conniventi. Come sottolinea Balsamo, se la mafia è un sistema di relazioni, allora si configura come una rete di rapporti, una cultura che è nostro compito combattere attraverso un modello di antimafia che sia sistema, rete e cultura. Oggi si può fare. La mafia si alimenta di un collasso culturale, civile ed etico; dunque, tutto ciò che serve a contrastare questo collasso può diventare ideale strumento antimafia.

L’invito è quello di continuare a fare ciò che abitualmente facciamo, ma se possibile con una spinta civile maggiore, con lo scopo di suscitare indignazione e speranza, attorno ad un tema che ha segnato il destino di questo nostro Paese.

Rocca Jacopo 5OA

[1] Rapporto DIA relativo al primo semestre del 2020; “Conclusioni”; pagina 477.



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