La lezione di un magistrato “martire della giustizia”

21 settembre 2020
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Era una mattina di 30 anni fa: quel 21 settembre 1990, il giudice Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento. E’ stato avvicinato, braccato e ucciso da un commando mafioso. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perchè «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia». Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che una volta definì «martire della giustizia e indirettamente della fede», quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lanciò il suo anatema contro i mafiosi. E’ in corso il processo di beatificazione del magistrato, avviato nel settembre 2011. Molte le iniziative per ricordarlo, con la presenza nel pomeriggio, al Palazzo di giustizia di Palermo, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al seminario su «Deontologia e professionalità del magistrato. Un binomio indissolubile». Un anniversario su cui una settimana fa è piombata la notizia della concessione di un permesso premio a uno dei mandanti condannato all’ergastolo, Giuseppe Montanti. «Una tragica beffarda coincidenza», ha commentato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. Il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, da Marsala Paolo Borsellino. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo. Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la 'Tangentopoli sicilianà e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro «Il giudice ragazzino», titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. «Livatino e la sua storia - scrive Dalla Chiesa - sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione». Lascia un testamento morale e professionale importantissimo e attualissimo. «Il giudice - diceva Livatino - oltre che essere, deve anche apparire indipendente. E’ importante che egli offra di se stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile; e, potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha».



Il presidente della Cei Bassetti: beato un popolo che ha uomini così

Il mondo ha bisogno di «tanti piccoli e grandi eroi del quotidiano» come lo fu Rosario Livatino ed è «davvero beato un popolo, un Paese che ha uomini e donne così».Lo ha sottolineato il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, durante l’omelia della messa in occasione dei 30 anni dell’uccisione del magistrato Rosario Livatino (Chiesa Sacro Cuore del Suffragio). «Un tempo - ha detto Bassetti riportando una citazione di Bertold Brecht - si dichiarava beato un popolo che non avesse avuto bisogno di eroi. E così pure di santi, di figure esemplari, di testimoni. Permettetemi di obiettare che abbiamo bisogno di tanti piccoli e grandi eroi del quotidiano, che si sentano chiamati mentre attendono al loro lavoro, che sappiano comportarsi in fedeltà alla missione ricevuta, che donino umilmente la vita giorno per giorno là dove si trovano a vivere e a operare, che abbiano il coraggio della fedeltà nonostante i limiti e le umane debolezze, che onorino il proprio mandato - qualunque esso sia - con estrema dignità». «Davvero beato un popolo, un Paese che ha uomini e donne così», ha continuato. «Beate le istituzioni che sono presidiate da figure simili. Beati quei malcapitati, quei poveri, quei soggetti meno fortunati che ricorrono a una giustizia amministrata da persone simili». Bassetti ha ricordato la figura del 'giudice ragazzinò che «riuscì a ritrovare una sintesi tra religione e diritto che non appare scontata». Ha «elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perchè è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano. In altre parole, non c'è piena giustizia senza amore». Riprendendo le parole di Papa Francesco pronunciate nel discorso ai membri del Centro studi 'Rosario Livatinò, il 29 novembre 2019, il cardinale Bassetti ha rimarcato che Livatino «ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge».


Mattarella: necessario resistere alle intimidazioni della mafia 

«Rosario Livatino, Sostituto  Procuratore della Repubblica e poi Giudice della Sezione misure  di prevenzione del Tribunale di Agrigento, ha condotto  importanti indagini contabili e bancarie sulle organizzazioni  criminali operanti sul territorio e sui loro interessi  economici. Egli ha, tra i primi, individuato lo stretto legame  tra mafia e affari, concentrando l’attenzione sui collegamenti  della malavita organizzata con gruppi imprenditoriali. Consapevole del delicato ruolo del giudice in una società in  evoluzione e della necessità che la magistratura sia e si mostri  indipendente, egli ha svolto la sua attività con sobrietà,  rigore morale, fermezza e instancabile impegno, convinto di  rappresentare lo Stato nella speciale funzione di applicazione  della legge».Così il Presidente della Repubblica, Sergio  Mattarella, in una dichiarazione, nel trentesimo anniversario  dell’uccisione del Giudice Rosario Livatino.  «Ricordare la vile uccisione di Rosario Livatino richiama la  necessità di resistere alle intimidazioni della mafia  opponendosi a logiche compromissorie e all’indifferenza, che  minano le fondamenta dello stato di diritto», afferma il Capo  dello Stato.  «A distanza di trenta anni - sostiene  Mattarella - desidero manifestare apprezzamento e vicinanza per  tutte le iniziative promosse in ricordo di questo valoroso  magistrato e rinnovare i sentimenti di partecipazione e  gratitudine del Paese a tutti coloro che lo hanno conosciuto e  stimato e che in questi anni ne hanno costantemente tenuto viva  la memoria».


Il postulatore don Livatino: anticipò la tangentopoli siciliana

«Quando venne assassinato Rosario  Livatino era un giovane giudice 38 anni che dimostrato una  umanità profonda e una grande preparazione. Un giudice che  nonostante le minacce non ha voluto la scorta: non posso  coinvolgere padri di famiglia nel mio destino disse ai suoi  superiori». Lo ha detto Giuseppe Livatino postulatore della  causa di beatificazione del giudice nel corso del convegno  organizzato dalla associazione nazionale antimafia al Tribunale  di Palermo. «Di Rosario Livatino ci sono pochissime foto. Nessuna intervista rilasciata. La sua preparazione era  invidiabile - ha aggiunto don Livatino - Ha anticipato con le  sue inchieste la tangentopoli siciliana».  Il 3 ottobre 2018 nella chiesa Sant'Alfonso di Agrigento, con  l'ultima sessione pubblica, vennero apposti i sigilli ai plichi  contenenti gli atti raccolti nella fase diocesana del processo.  Questi atti, nel novembre 2018, vennero poi trasferiti a Roma  dove attualmente si trovano, presso la Congregazione delle cause  dei santi, per essere esaminati. Per la fase romana del  processo, l’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, con  il consenso dell’Associazione 'Amici del Giudice Rosario A. Livatinò che avevano richiesto l’introduzione della causa con  la nomina del postulatore per la fase diocesana nella persona di  don Giuseppe Livatino, ha nominato un nuovo postulatore. Si  tratta del vescovo di Catanzaro-Squillace, monsignor Vincenzo  Bertolone, già postulatore della causa di beatificazione di don  Pino Puglisi. 



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