La gavetta. Il precariato. E poi arrivò il coronavirus…
Il precariato dei nostri tempi, così diffuso, è
assimilabile alla gavetta di cinquanta o settanta anni fa? Partiamo dalle
definizioni. Sul vocabolario della lingua italiana Zingarelli si legge: “precariato:
stato, condizione di lavoratore precario”. E alla voce “precario” leggiamo:
“precario: temporaneo, incerto, provvisorio. Detto di lavoratore specialmente
dipendente di amministrazioni pubbliche, assunto con contratto a termine e
quindi privo di garanzie per il futuro”. Definizione invece di gavetta: “venire
dalla gavetta: di ufficiali che, iniziata la carriera come soldati semplici, ne
hanno percorso tutti i gradi”. Dunque estensivamente “di persona che ha
raggiunto il successo partendo da niente”.
Le nostre famiglie sono state formate da
genitori e nonni che hanno fatto tanta gavetta. Negli anni ’50 e soprattutto ’60
del secolo scorso, gli anni della ripresa, del boom dopo le macerie della Seconda guerra mondiale, tu,
giovanissimo, da ragazzo, andavi a bottega da un artigiano. Non vedevi una lira
per tutto l’anno tranne forse una irrisoria gratifica a Natale. Era così per anni.
Poi poco a poco guadagnavi qualcosa, talvolta cambiavi capomastro o bottega per
una alternativa che ti pagava di più. Finché aprivi tu bottega, facevi il
pasticciere o il calzolaio o il falegname o il barbiere o l’elettricista o l’autoriparatore.
La gavetta e l’apprendistato ti avevano consentito entrate minime ma con gli
anni era certo che quella retribuzione sarebbe aumentata. E, soprattutto, la
gavetta ti dava un guadagno fondamentale per la vita: un mestiere. Partendo da
allievo diventavi artigiano, imprenditore, a tua volta diventavi tu “mastro” di
allievi più giovani. Che restassi solo un artigiano o che mettessi su una
impresa dando lavoro a parecchi altri, tu – venuto dalla gavetta – avevi
progredito, lavorato e creato lavoro. Perché si progrediva sempre, si cresceva
economicamente e socialmente. Campavi la famiglia in un contesto e in un giro
di affari in crescita. Lavoravi e guardavi al futuro con ottimismo, con
prospettive positive.
Negli anni ’60 altrochè se una insegnante
faceva gavetta. Anche per più anni in campagna, in una sperduta scuola rurale.
Ma era un prezzo da pagare ad una sicura contropartita: era matematico – e
tutto sommato ad un’età lavorativa ancora giovane – che sarebbe passata di
ruolo in una scuola progressivamente vicino casa.
Il precariato dei nostri tempi è fatto – se va
bene – di retribuzioni modeste e lavoro a tempo determinato per trentenni (e,
al limite, ci può stare ma inibisce l’autonomia economica e la possibilità di
farsi una famiglia) e ancora per quarantenni e ancora per cinquantenni. Precari
a vita, senza prospettiva di crescita economica. A macinare chilometri su
chilometri in bicicletta o motorino a consegnare pizze e tutto ciò che è
possibile consegnare. Anzi, in qualsiasi genere di attività, sempre con lo
spettro del licenziamento, della disoccupazione in una società che regredisce
economicamente a vista d’occhio. Di lavoro stabile neanche a parlarne se non si
ha avuto la fortuna di entrare a far parte di una amministrazione pubblica
statale, regionale o locale.
Gavetta e precariato per quanto all’inizio
della vita lavorativa presentino aspetti in comune man mano che passano gli anni
accentuano le loro differenze. Nel primo caso per lungo tempo soldi ne vedevi
pochi ma poi aumentavano. Nel secondo una base retributiva esiste dall’inizio
ma passano i decenni e non si schioda da importi a volte mortificanti specie
per chi ha lauree e master. O, addirittura, diminuisce. Come nel caso di alcuni
call center. La gavetta,
caratterizzata dalla progressione, si abbandonava già prima dei trent’anni. Il
precariato va avanti vita natural durante.
Ma, più di tutte le altre, esiste una
sostanziale differenza. La gavetta era una fase della vita che apriva alle
prospettive ed alla speranza. Nove volte su dieci riuscivi a imparare un
mestiere, lavorare, guadagnare, mettere su e campare una famiglia. La speranza
era una componente non aleatoria della gavetta. Così come la fiducia di chi
opera, lavora, investe è ormai codificata in ogni manuale di Economia come uno
dei principali motori dello sviluppo economico. Il vero dramma del nostro tempo
è invece quel mostro segreto che in noi ha cancellato ogni speranza. Oggi
nessuno si illude che l’Italia (non parliamo della Sicilia…) avrà un avvenire
migliore, una crescita economica fra cinque, dieci o venti anni. Anche a
metterci dentro – introdurremo il tema tra poche righe - tutti i Recovery Fund e i Recovery Plan di questo mondo. La gavetta viveva sulla speranza. Il
precariato sopravvive con i suoi stenti. Nell’unica certezza di non avere
speranza di andare avanti economicamente come invece avevano fatto – venendo
dalla gavetta – i nostri nonni ed i nostri padri.
Se questo trend
si era ormai consolidato fino al mese di febbraio del 2020 – Era precovid – rimane da capire quali
variazioni si profileranno nell’Era covid.
La cui durata non è prevedibile ma che di sicuro si protrarrà più di quanto
noi possiamo ipotizzare ed augurarci. Sinceramente non abbiamo strumenti
d’analisi affidabili. Opinioni tante, certezze poche. O forse sì, qualche
certezza possiamo provare a tracciarla. Ad esempio la crescente tendenza alla
scomparsa dei mestieri artigiani. Onda travolgente. Impoverisce il tessuto
economico e sociale di un territorio. Priva di manualità. Apporta micidiali
sforbiciate all’occupazione. Qualcuno dovrebbe anche dirci come fare per le
manutenzioni e le riparazioni, anche le più banali. Non ti risolve niente in
questo caso il corriere che ti consegna a domicilio il pacco commissionato con
il magico smartphone, prontamente
consegnato dai furgoni cabinati di Amazon e affini. Si perderanno - ancora di
più di quanto si è progressivamente verificato negli ultimi decenni - professionalità,
competenze tecniche, abilità. E si moltiplicheranno in città e paesi le
saracinesche sprangate di laboratori artigiani d’ogni dimensione – talvolta
buchi di pochi metri quadrati – in grado di sfornare ogni tipo di prodotti e
servizi. Con conseguente trasformazione delle vie sempre più in
strade-dormitorio visto che stessa sorte patiranno gli esercizi commerciali.
Altro che gavetta o “lavoretti” più o meno precari e regolarmente senza un
centimetro quadrato di ricevuta fiscale. Andiamo incontro al deserto
lavorativo. Ma l’importante è che compulsivamente si continuino a digitare
ordinazioni on-line alle catene
multinazionali dell’e-commerce,
autentiche potenze economiche (e di conseguenza politiche) del nostro tempo.
Capaci di fatturati ultramiliardari. Capaci di imporsi anche sulla pandemia in
un mondo che dalla pandemia è stato messo in ginocchio.
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