La gavetta. Il precariato. E poi arrivò il coronavirus…

26 dicembre 2020
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Il precariato dei nostri tempi, così diffuso, è assimilabile alla gavetta di cinquanta o settanta anni fa? Partiamo dalle definizioni. Sul vocabolario della lingua italiana Zingarelli si legge: “precariato: stato, condizione di lavoratore precario”. E alla voce “precario” leggiamo: “precario: temporaneo, incerto, provvisorio. Detto di lavoratore specialmente dipendente di amministrazioni pubbliche, assunto con contratto a termine e quindi privo di garanzie per il futuro”. Definizione invece di gavetta: “venire dalla gavetta: di ufficiali che, iniziata la carriera come soldati semplici, ne hanno percorso tutti i gradi”. Dunque estensivamente “di persona che ha raggiunto il successo partendo da niente”.

 

Le nostre famiglie sono state formate da genitori e nonni che hanno fatto tanta gavetta. Negli anni ’50 e soprattutto ’60 del secolo scorso, gli anni della ripresa, del boom dopo le macerie della Seconda guerra mondiale, tu, giovanissimo, da ragazzo, andavi a bottega da un artigiano. Non vedevi una lira per tutto l’anno tranne forse una irrisoria gratifica a Natale. Era così per anni. Poi poco a poco guadagnavi qualcosa, talvolta cambiavi capomastro o bottega per una alternativa che ti pagava di più. Finché aprivi tu bottega, facevi il pasticciere o il calzolaio o il falegname o il barbiere o l’elettricista o l’autoriparatore. La gavetta e l’apprendistato ti avevano consentito entrate minime ma con gli anni era certo che quella retribuzione sarebbe aumentata. E, soprattutto, la gavetta ti dava un guadagno fondamentale per la vita: un mestiere. Partendo da allievo diventavi artigiano, imprenditore, a tua volta diventavi tu “mastro” di allievi più giovani. Che restassi solo un artigiano o che mettessi su una impresa dando lavoro a parecchi altri, tu – venuto dalla gavetta – avevi progredito, lavorato e creato lavoro. Perché si progrediva sempre, si cresceva economicamente e socialmente. Campavi la famiglia in un contesto e in un giro di affari in crescita. Lavoravi e guardavi al futuro con ottimismo, con prospettive positive.

Negli anni ’60 altrochè se una insegnante faceva gavetta. Anche per più anni in campagna, in una sperduta scuola rurale. Ma era un prezzo da pagare ad una sicura contropartita: era matematico – e tutto sommato ad un’età lavorativa ancora giovane – che sarebbe passata di ruolo in una scuola progressivamente vicino casa.

 

Il precariato dei nostri tempi è fatto – se va bene – di retribuzioni modeste e lavoro a tempo determinato per trentenni (e, al limite, ci può stare ma inibisce l’autonomia economica e la possibilità di farsi una famiglia) e ancora per quarantenni e ancora per cinquantenni. Precari a vita, senza prospettiva di crescita economica. A macinare chilometri su chilometri in bicicletta o motorino a consegnare pizze e tutto ciò che è possibile consegnare. Anzi, in qualsiasi genere di attività, sempre con lo spettro del licenziamento, della disoccupazione in una società che regredisce economicamente a vista d’occhio. Di lavoro stabile neanche a parlarne se non si ha avuto la fortuna di entrare a far parte di una amministrazione pubblica statale, regionale o locale.

 

Gavetta e precariato per quanto all’inizio della vita lavorativa presentino aspetti in comune man mano che passano gli anni accentuano le loro differenze. Nel primo caso per lungo tempo soldi ne vedevi pochi ma poi aumentavano. Nel secondo una base retributiva esiste dall’inizio ma passano i decenni e non si schioda da importi a volte mortificanti specie per chi ha lauree e master. O, addirittura, diminuisce. Come nel caso di alcuni call center. La gavetta, caratterizzata dalla progressione, si abbandonava già prima dei trent’anni. Il precariato va avanti vita natural durante.

Ma, più di tutte le altre, esiste una sostanziale differenza. La gavetta era una fase della vita che apriva alle prospettive ed alla speranza. Nove volte su dieci riuscivi a imparare un mestiere, lavorare, guadagnare, mettere su e campare una famiglia. La speranza era una componente non aleatoria della gavetta. Così come la fiducia di chi opera, lavora, investe è ormai codificata in ogni manuale di Economia come uno dei principali motori dello sviluppo economico. Il vero dramma del nostro tempo è invece quel mostro segreto che in noi ha cancellato ogni speranza. Oggi nessuno si illude che l’Italia (non parliamo della Sicilia…) avrà un avvenire migliore, una crescita economica fra cinque, dieci o venti anni. Anche a metterci dentro – introdurremo il tema tra poche righe - tutti i Recovery Fund e i Recovery Plan di questo mondo. La gavetta viveva sulla speranza. Il precariato sopravvive con i suoi stenti. Nell’unica certezza di non avere speranza di andare avanti economicamente come invece avevano fatto – venendo dalla gavetta – i nostri nonni ed i nostri padri.  

 

Se questo trend si era ormai consolidato fino al mese di febbraio del 2020 – Era precovid – rimane da capire quali variazioni si profileranno nell’Era covid. La cui durata non è prevedibile ma che di sicuro si protrarrà più di quanto noi possiamo ipotizzare ed augurarci. Sinceramente non abbiamo strumenti d’analisi affidabili. Opinioni tante, certezze poche. O forse sì, qualche certezza possiamo provare a tracciarla. Ad esempio la crescente tendenza alla scomparsa dei mestieri artigiani. Onda travolgente. Impoverisce il tessuto economico e sociale di un territorio. Priva di manualità. Apporta micidiali sforbiciate all’occupazione. Qualcuno dovrebbe anche dirci come fare per le manutenzioni e le riparazioni, anche le più banali. Non ti risolve niente in questo caso il corriere che ti consegna a domicilio il pacco commissionato con il magico smartphone, prontamente consegnato dai furgoni cabinati di Amazon e affini. Si perderanno - ancora di più di quanto si è progressivamente verificato negli ultimi decenni - professionalità, competenze tecniche, abilità. E si moltiplicheranno in città e paesi le saracinesche sprangate di laboratori artigiani d’ogni dimensione – talvolta buchi di pochi metri quadrati – in grado di sfornare ogni tipo di prodotti e servizi. Con conseguente trasformazione delle vie sempre più in strade-dormitorio visto che stessa sorte patiranno gli esercizi commerciali. Altro che gavetta o “lavoretti” più o meno precari e regolarmente senza un centimetro quadrato di ricevuta fiscale. Andiamo incontro al deserto lavorativo. Ma l’importante è che compulsivamente si continuino a digitare ordinazioni on-line alle catene multinazionali dell’e-commerce, autentiche potenze economiche (e di conseguenza politiche) del nostro tempo. Capaci di fatturati ultramiliardari. Capaci di imporsi anche sulla pandemia in un mondo che dalla pandemia è stato messo in ginocchio.

 di Pino Scorciapino

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