La figlia incastra il boss della strage di Pizzolungo

Società | 13 novembre 2020
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Stavolta l’accusa decisiva è venuta dalla stessa figlia del boss. È stata Giovanna Galatolo a ribellarsi alla logica spietata e al metodo mafioso e a incastrare il padre Vincenzo, un padrino della vecchia guardia e componente della cupola, ora condannato a 30 anni come uno dei mandanti della strage di Pizzolungo, a Trapani.

 Era il 2 aprile 1985. Una bomba doveva stroncare al passaggio il giudice Carlo Palermo, che invece si salvò. La terribile esplosione dilaniò Barbara Asta, 33 anni, e i suoi gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore. Questo che in abbreviato si è concluso davanti al gup di Caltanissetta, Valentina Balbo, è il quarto processo. Uno è finito con l’assoluzione dei tre imputati della cosca trapanese originariamente chiamati in causa. Gli altri due hanno portato alla condanna di Totò Riina, Nino Madonia e Balduccio Di Maggio, l'uomo che fece scoprire il covo del padrino di Corleone. Non è stato mai accertato il movente dell’attentato. E non lo conosce neanche Giovanna Galatolo entrata in scena sette anni fa, dopo un tormento a lungo covato.

 Nel 2013 la donna si era presentata alla squadra mobile di Palermo per svelare il suo segreto. "Voglio andare via da Palermo - disse - per dare a mia figlia una vita diversa da quella che ho avuto io». Per anni aveva portato nella coscienza un peso morale diventato insopportabile. Giovanna Galatolo raccontò, e poi ha confermato in aula, ciò che quel giorno di 35 anni fa era accaduto tra le mura di casa, in vicolo Pipitone, nel quartiere dell’Acquasanta: «Non appena il telegiornale diede la notizia della strage mia madre iniziò a urlare: 'I bambini non si toccanò. Mio padre prese allora a picchiarla, voleva addirittura dare fuoco alla casa». Da questo racconto i pm Gabriele Paci e Pasquale Pacifico hanno preso le mosse per mettere sotto accusa Galatolo e per ricostruire il profilo criminale del capomafia dell’Acquasanta. Da questo quartiere erano partiti i gruppi di fuoco che avevano eliminato negli anni di piombo di Palermo il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il giudice Rocco Chinnici, il vice questore Ninni Cassarà. Quale fosse nel 1985 il clima di casa Galatolo è stata ancora la figlia a descriverlo: «Avevo vent'anni e sentivo a casa mio padre che diceva: 'Quel giudice è un cornutò. Poi si verificò l'attentato a Carlo Palermo. Compresi tutto. E anche mia madre capì. Non se ne dava pace». 

Quattro processi e trentacinque anni di misteri


Sono trascorsi 35 anni da quel terribile attentato di Pizzolungo che costò la vita il 2 aprile 1985 a Barbara Rizzo Asta, di 33 anni e ai suoi due gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta eppure dopo quattro processi la verità è ancora lontana. E a sostenere questa tesi è il procuratore di Caltanissetta Gabriele Paci che insieme al collega della Dda Pasquale Pacifico ha sostenuto l’accusa nel processo denominato «Pizzolungo quater» che si è appena concluso a Caltanissetta con la condanna a 30 anni di reclusione di Vincenzo Galatolo, boss di Cosa nostra del rione dell’Acquasanta e detenuto al 41bis. «Le indagini sulla strage di Pizzolungo non si fermano», ha affermato Paci dopo la sentenza di condanna emessa nei confronti di Vincenzo Galatolo, accusato di essere uno dei mandanti di quell’a ttentato. «La strada per capire quello che è successo a Pizzolungo nel 1985 – ha affermato Paci - è ancora lunga perché abbiamo ancora indagini da fare e che faremo necessariamente. Questa sentenza è un ulteriore stimolo, un ulteriore pungolo proprio perché è tra le stragi che ancora oggi mantiene un alone di mistero che dopo tanti anni non siamo ancora riusciti a svelare. Parlo di strage misteriosa perché questa strage rimane tale anche all’interno di Cosa nostra. Gli stessi collaboratori di giustizia non hanno mai fornito una chiave di lettura di quest’attentato. Le indagini proseguono perché la semplice definizione della responsabilità dei mafiosi appartenenti alle famiglie palermitane non è sufficiente per capire cosa è successo. Sicuramente c’è qualcosa di più radicato e profondo che dobbiamo capire. Questa bomba esplose dopo qualche settimana dall’a r r ivo del giudice Carlo Palermo a Trapani. È una strage che si connette a tanti altri misteri trapanesi». Nell’esplosione il giudice Palermo rimase miracolosamente illeso. Dei quattro agenti della scorta, l’autista Rosario Maggio e Raffaele Di Mercurio, rimasero leggermente feriti mentre gli altri due vennero gravemente colpiti dalle schegge, Antonio Ruggirello ad un occhio, Salvatore La Porta alla testa e in diverse parti del corpo. Il primo processo si concluse in appello nel 1990 e poi in Cassazione con una sentenza di assoluzione. Alla sbarra alcuni mafiosi delle cosche di Alcamo e Castellammare del Golfo. Negli anni successivi le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, Francesco Di Carlo, Pietro Scavuzzo, Giovan Battista Ferrante e Giovanni Brusca, portarono al rinvio a giudizio dei boss mafiosi Totò Riina e Vincenzo Virga come mandanti della strage mentre Baldassarre Di Maggio e Antonino Madonia furono accusati di aver portato a Trapani l’e s p l o s ivo impiegato nell’attentato, già utilizzato nell’autobomba contro il giudice Rocco Chinnici e poi nel fallito attentato all’Addaura. Nel 2002 Riina e Virga vennero condannati all’ergastolo e la stessa pena venne comminata nel 2004 anche a Baldassare Di Maggio mentre Antonino Madonia, assolto in primo grado venne poi condannat o. Il nuovo processo individuò Vincenzo Milazzo, Gioacchino Calabrò e Filippo Melodia come esecutori materiali della strage ma non più processabili in quanto irrevocabilmente assolti nel primo processo a Caltanissetta. Le indagini del quarto processo, hanno preso corpo dalle dichiarazioni di Giovanna Galatolo, figlia di Vincenzo. «Giovanna Galatolo – ha detto il procuratore Gabriele Paci - è una donna coraggiosa, cresciuta nel vicolo Pipitone. Ha visto decine e decine di omicidi fatti dal padre e dai fratelli. Una donna che ha avuto il coraggio di rompere con la sua famiglia d’origine e di denunciare i tanti fatti che avvenivano in vicolo Pipitone e soprattutto ha avuto il coraggio di denunciare il padre che arrivò al punto di picchiare la madre perché anche lei stanca di tanto sangue e perché era arrivata a dire che i bambini non si toccavano» 




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