La Dna: i boss attaccano i vertici di Confindustria

Società | 25 febbraio 2015
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Cosa nostra è ferita dall’arresto di numerosi latitanti, soprattutto palermitani, anche se ancora resta «priorità assoluta» la cattura del boss Matteo Messina Denaro. La Cupola, nonostante la perdita dei vecchi leader, mostra comunque una «costante vitalità». E un forte disprezzo per «l’opera di legalità» messa in atto da Confindustria Sicilia. È, in sintesi, la fotografia alla criminalità organizzata dell’Isola che viene fuori dalla relazione annuale della Direzione nazionale antimafia (Dna). Il documento è stato presentato ieri al Senato dal presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi e dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.

La mafia contro Confindustria e Irsap

Dopo le polemiche degli ultimi giorni attorno al nome del presidente Antonello Montante, per le indagini che lo riguardano, Confindustria Sicilia finisce nel dossier della Dna, perché secondo i magistrati, è vista come un intralcio da Cosa nostra. Nella relazione si legge che «nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei ”colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’associazione confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». E a questo contesto che vengono collegati «gli atti intimidatori consumati ai danni del presidente dell’Irsap, Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive, Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di Cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia».

Gli attacchi ai magistrati più impegnati

Totò Riina che nel carcere milanese di Opera, nel novembre 2013, dice a un altro detenuto che il giudice Nino Di Matteo «deve fare la fine dei tonni» è il culmine di una serie di episodi intimidatori dietro i quali ci sarebbe «una strategia criminale volta a destare allarme ed assai probabilmente a tentare di condizionare lo svolgimento delle attività investigative e processuali della magistratura del distretto di Palermo». Lo scrive la Direzione nazionale antimafia nella relazione presentata ieri in Parlamento, nella parte che riguarda gli atti intimidatori di cui sono stati vittime alcuni pubblici ministeri della Procura del capoluogo siciliano. Nel rapporto, in merito alle dichiarazioni di Riina intercettate all’interno dell’istituto penitenziario e depositate agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, si legge che il superboss «ha esplicitamente ipotizzato la eliminazione fisica del collega Di Matteo e non ha lesinato parole di minaccia nei confronti di chiunque svolga attività di contrasto allo strapotere di Cosa nostra».

La «vitalità» di Cosa nostra a Palermo

Attacchi che dimostrerebbero la «costante vitalità» che la Dna attribuisce alla mafia nelle varie parti della Sicilia, a cominciare dal capoluogo. «Palermo è e rimane – sostengono le toghe dell’antimafia nazionale - il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo». I clan, per riempire le casse, mostrano «un rinnovato interesse per il traffico di stupefacenti e per la gestione dei giochi sia di natura legale che illegale». Per ciò che riguarda le estorsioni, viene sottolineato positivamente «l’aumento consistente» a Palermo delle denunce dei commercianti vittime del racket.

Fermento a Catania

Palermo, ma non solo. Sul versante orientale della Sicilia, comunque, la mafia rimane in fermento. Lo dimostra anche il numero delle iscrizioni per il reato di associazione mafiosa. Sono 81 a Catania, che è la seconda città italiana dopo Napoli (201). Dato che a parere del sostituto della Dna Carlo Caponcello «radica il forte convincimento che la Dda catanese si trova ad affrontare un fenomeno criminale meritevole di maggiore attenzione istituzionale».

Ritorno a  delinquere

Per gli investigatori, la mafia «nel suo complesso sembra, in sintesi, aver attraversato e superato, sia pure non senza conseguenze sulla sua operatività, il difficile momento storico dovuto alla fruttuosa opera di contrasto dello Stato ed aver recuperato un suo equilibrio». Una riorganizzazione che passa anche «dal ritorno in scena di personaggi già coinvolti in pregresse vicende giudiziarie che, noti in passato come figure non di primissimo piano negli organigrammi mafiosi, scontata la pena, si ritrovano ad occupare le posizioni di preminenza lasciate libere dai boss di maggior calibro». Ed è per questo che i magistrati della Dna chiedono pene più severe. «Bisogna tornare a chiedersi se il legislatore non debba approntare, per le ipotesi accertate di reiterazione del delitto, un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso».

L’obiettivo Messina Denaro

Nel documento ci sono però anche note positive relative alla lotta contro la criminalità organizzata. Per esempio «la cattura della totalità dei grandi latitanti di mafia palermitani ha certo costituito un segnale fortissimo della capacità dello Stato di opporsi a Cosa Nostra demolendo il luogo comune della impunibilità di alcuni mafiosi e la conseguente loro autorevolezza e prestigio criminale; in ciò risiede la speciale importanza, a Palermo e in tutta la Sicilia occidentale, di tale attività investigativa». Ma l’obiettivo principale resta «Matteo Messina Denaro, storico latitante, capo indiscusso delle famiglie mafiose del Trapanese, che estende la propria influenza ben al di là dei territori indicati». La sua cattura potrebbe essere per la Dna «nella descritta situazione di difficoltà di Cosa Nostra, il venir meno anche di questo punto di riferimento». E costituire «un danno enorme per l'organizzazione».

I pentiti «promossi»

Di certo un danno per Cosa nostra lo sono già le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Tra questi c’è Sergio Flamia, ex uomo d’onore del clan di Bagheria, che secondo i magistrati dell’Antimafia sta dando un contributo «estremamente importante» alle indagini. Promossa anche l’attendibilità dei collaboratori Antonino Zarcone, Vincenzo Gennaro, Giuseppe Salvatore Carbone. «Flamia - scrive il pm della Dna Maurizio De Lucia – ha aperto scenari conoscitivi molto ampi ed approfonditi».

Anche il Nord sotto il controllo dei boss

Vecchie e nuove mafie, dal’estremo sud fino a gran parte del nord. La Relazione 2014 della Direzione nazionale Antimafia illustrata ieri  mostra un quadro inquietante, anche se il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti parla di un bilancio «moderatamente ottimista» perché, spiega, «sono calati i delitti dovuti alla criminalità, c'è stato un incremento delle misure di prevenzione ed il patrimonio sequestrato è ingentissimo, la cooperazione internazionale è migliorata».

La ndrangheta è descritta come unorganizzazione unitaria, ramificata a livello internazionale ma con la testa pensante nella provincia di Reggio Calabria, che grazie al suo potere economico ha la capacità di essere interlocutore per la politica. Nel porto di Gioia Tauro «gli ndranghetisti riescono a godere di ampi, continui, inesauribili, appoggi interni: il porto è divenuto la vera porta dingresso della cocaina in Italia», scrivono gli investigatori.

Ma se allarmante è il persistere della situazione criminale al Sud, ancora più inquietante è il quadro al Nord. Lindagine Aemilia della Dda di Bologna «ha consentito di accertare la esistenza di un potere criminale di matrice ndranghetista, la cui espansione si è appurato andare al di là di ogni pessimistica previsione, con coinvolgimenti di apparati politici, economici ed istituzionali». Così, una regione un tempo orgogliosamente indicata come modello di sana amministrazione e invidiata per lelevato livello medio di vita dei suoi abitanti, oggi «può ben definirsi ”terra di mafia” nel senso pieno della espressione», afferma la Direzione nazionale Antimafia. A Milano predominano organizzazioni criminali di origine calabrese a discapito di altre compagini associative, come quella di origine siciliana. Nel Veneto, i rischi di infiltrazione della criminalità organizzata, italiana e straniera, nel tessuto produttivo veneto risultano essere molto alti, «attesa lelevata appetibilità economica della regione, a fronte di una ancora insufficiente presa di coscienza da parte delle strutture amministrative e sociali, a cui spetterebbe ladozione di più consapevoli strumenti di contrasto preventivo». E a questo fosco quadro non si sottrae il centro Italia. «Le indagini e i processi, assai numerosi, trattati negli ultimi anni dalla Dda dimostrano che» la tratta degli esseri umani, «forma moderna di schiavitù, è abbastanza diffusa nel territorio toscano». E a Roma linchiesta su Mafia Capitale, «che ha avuto vastissimo eco sui mezzi di diffusione», ha messo in evidenza, relativamente a ciò che ha riguardato la passata amministrazione, uno spaccato delle istituzioni romane «davvero sconfortante e preoccupante». Secondo i magistrati della Dna, lorganizzazione capeggiata dal presunto boss di Mafia Roma, Massimo Carminati, «oltre alle condotte tipicamente criminali dell'usura e delle estorsioni, ha realizzato una sistematica infiltrazione del tessuto imprenditoriale attraverso lelargizione di favori e delle istituzioni locali attraverso un diffuso sistema corruttivo».



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